07 ottobre 2011

Cows and jeans. 16


16

Quella mattina si stava scatenando l’inferno, di fuori. Il cielo era continuamente squarciato da lampi che sbottavano la loro potenza, mentre tutte le lacrime versate dagli uomini sulla terra e poi salite in cielo si rituffavano al suolo con una violenza inaudita. Tutto ciò poteva anche dirsi comune temporale estivo, ma la versione coniata da nonna Margareth era molto più bella e cupa, si adattava quindi meglio al mio nero umore.
Era stato un tuono a svegliarmi. Maledizione a lui!

Con uno sbadiglio mascherato da sbuffo, mi strappai i muti auricolari dalle orecchie, rendendomi conto con stizza che l’mp3 si era scaricato. Pessima, pessima cosa. Mi alzai e arrancando nel buio cercai a tastoni il caricatore sulla scrivania e tornai al letto per attaccarlo alla presa dietro il comodino. Dopodiché diedi un’ occhiata al cellulare per controllare l’ora e notai che era scarico anche quello. Sbuffai e mi gettai nuovamente sul letto, sconsolata. Non c’erano abbastanza prese in quella casa per ricaricare tutto. Perchè non era solo il telefono, nè l’mp3, quanto più la mia autostima, la mia voglia di fare qualunque cosa, il mio entusiasmo e semplicemente me stessa ad essere a corto di energia.
Rimasi a poltrire –in piedi in mezzo alla stanza come uno zombie- commiserandomi per un po’ di tempo, poi un tuono mi risvegliò dal mio torbido non pensare e mi decisi ad andare ad attaccare anche il cellulare ad una presa per controllare l’ora. Decidendo che non era poi così tardi e che il nonno e Dean si sarebbero svegliati da un momento all’altro, mi trascinai fino al piano di sotto a preparare stancamente la colazione.
Continuai a rimuginare a lungo, afflitta da un totale senso di ineguatezza. Sembrava ogni momento di più che Dean avesse ragione; che fossi una principessina egoista e piena di sé. Tutto ciò che facevo aveva un unico complemento di termine: me stessa. Cucinavo per mangiare, pulivo per non abitare in un porcile, lavoravo perchè davo del mio meglio per non sentirmi una fallita. Anche se di fatti lo ero. Tutto ciò che facevo sembrava destinato a venir distrutto, tutto ciò che dicevo a non aver senso, tutto ciò che pensavo ad essere frutto del vittimismo di una ragazzina adulta solo davanti alla legge. E per quanto quel futile diciotto potesse essere ufficiale, non era che uno stupido numero che mi sbeffeggiava ogni volta che mi veniva in mente.
Cosa avrei fatto ora?
Cosa mi avrebbe detto Abraham? Non avevo nemmeno avuto il coraggio di affrontarlo, ancora.
Come avrei spiegato la mia stupidità?
Come avrei fatto a scontare la delusione che gli avevo arrecato?
Ero un pasticcio, ecco. Un particcio di idee, caduto a terra e rimesso nel contenitore nella speranza che nessuno si accorgesse del danno fatto. Bruciato, per di più. Come il latte che preparai a colazione. Era evidente che avessi lo strano e indesiderato potere di perdermi nei miei pensieri nel momento meno opportuno. In quel caso, mentre scaldavo il latte. Ma soprattutto avevo la capacità paranormale di bruciare il latte! Come si poteva essere così idioti?!
“Buongiorno”. Velata presa in giro di Dean –che aveva un dannato tempismo per beccarmi nei momenti peggiori!- alla vista di un’idiota che gettava nel lavandino il contenuto di una brocchetta di metallo.
“ ’Giorno”. Il bofonchiato saluto di Abraham.
Dean annusò l’aria assomigliando vagamente ad un cane. “Che cosa hai combinato?” Sogghignò.
Stava già gongolando. Che razza di...
Non avevo voglia di rispondergli, quindi rimasi in silenzio mentre sciacquavo il contenitore e vi versavo altro latte.
“Allora?”
“Non chiedermelo”.
“L’ho già fatto. Pensi che risponderai?”
“No”.
Sbuffò. “Senti, principessa...” incominciò.
“Ho bruciato il latte, ok?!” sputai, stizzita. Attesi poi che giungessero le velenose parole che seguivano ogni mio errore, conscia che tutto ciò che avrebbe potuto insinuare sarebbe molto probabilmente risultato veritiero.
Ma la cascata di acidità non arrivò.
Lo guardai, cauta, chiedendomi il perché e lo vidi abbozzare un sorrisetto che non prometteva niente di buono, lanciando un’occhiata di sottecchi a mio nonno.
Abraham si era paralizzato in mezzo alla cucina nell’atto di sedersi, la mano sulla sedia e lo sguardo perso nel vuoto. Si ricompose subito sotto i miei occhi e si sedette. Poi mi guardò severo.
“Quanto?”
“Una tazza, più o meno” risposi, senza capire.
Lui annuì, paziente e posò gli avambracci sul tavolo. “Niente latte per te, questa mattina”.
Lo stomaco manifestò il suo scontento con un doloroso crampo. Annuii, sconfitta, abbassando il capo.
Il nonno per qualche motivo non parve soddisfatto di ciò che aveva già detto, quindi continuò. “Qui tutto quello che hai costa sforzo. Devi imparare che c’è sacrificio dietro a tutto ciò che possiedi, per questo non bisogna sprecare nulla. Ti punisco per questo, sia chiaro. Il fatto che tu sia appena stata licenziata non c’entra nulla”.
Se prima non mi era nemmeno passata per la mente quell’eventualità, con quella frase ebbi la certezza che il vero motivo di quella piccola privazione era proprio quello. Con un rinnovato senso di sconforto annuii e afferrai due mele dal cesto al centro del tavolo e uscii di casa. Mi sedetti al tavolo sotto il porticato, dove rimasi immobile a pensare a tutto e niente. Pioveva che Dio la mandava. C’era davvero poco da dire, fare o pensare. Era tutti inutile. Tutto ciò in cui mi impegnavo finiva per andare in fumo. Ormai tutti si erano accorti di quanto fossi impedita. Persino quello stupido manuale di sopravvivenza era inutile, il quale fra tutte le idiozie che la mia mente avesse mai partorito era forse la ciofeca più grande mai nata! Serviva solo a rimandare la crisi di nervi, dannazione!
Quel tempaccio si adattava schifosamente bene al mio umore.
I tuoni e i fulmini si erano stufati di movimentare la situazione e tutto ciò che era rimasto a quel punto era solo un demotivante diluvio. Il quale poi se ne sarebbe presto andato, al contrario del mio desolante e desolato umore nero.
Prometteva di essere una di quelle tristi e noiose giornate in cui non facevo che mugugnare monosillabi ogni qual volta mi si rivolgeva la parola. Giornate in cui non volevo far altro che sguazzare nel mio pessimismo in perfetta solitudine. Giornate in cui non cercavo niente e nessuno, da cui però puntualmente Emily mi salvava –era solo in quelle occasioni che non sentiva il campanello nè il telefono squillare, non poteva non insospettirsi. Ma questa volta non mi avrebbe lanciato alcun salvagente. Volevo affogare nel mio fallimento, non avevo voglia di essere aiutata.
Rimasi lì da sola finchè non smise di piovere. Poi iniziai a sgranocchiare le mele e una volta sazia –relativamente-, decisi che perdere tempo a far nulla non avrebbe migliorato la mia situazione, ma anzi mi avrebbe fatto guadagnare altri rimproveri. Ci volle poco perchè il nonno e Dean uscissero a dar da mangiare agli animali, ma per quel momento mi feci trovare armata di pennello, vernice e malumore a finire di dare la prima mano alla staccionata.
Dopo pranzo ci riunimmo in salotto per fare l’elenco della spesa, momento drammatico che avevo visto solo nei reality show in tv, situazione che ogni volta in onda mi aveva fatto ringraziare il cielo di non essere mai stata chiamata in causa quando toccava a mia madre e mio fratello decidere cosa comprare quando mi mandavano al supermercato accompagnata da George in versione autista. Non feci alcun intervento durante la placida discussione tra i due, mi limitai ad ascoltare qualche frase in silenzio. Poi, quando mi parve il momento opportuno, menzionai il ciao e le riparazioni che occorrevano.
“Domani vado a ritirare la tua paga dal signor Lucas. Con quei soldi pagherai i danni alla motoretta. Nel frattempo nel capanno c’è una bicicletta che puoi usare”.
Normalmente mi sarebbe venuto un colpo al pensiero dei quindici chilometri di strada ghiaiosa e irregolare che mi separavano dal paese, ma non avevo voglia nemmeno di pensarci in quel momento. “Fra poco parto, allora. Ho paura di non riuscire a tornare entro sera altrimenti”. Anche perchè la telefonata a casa era d’obbligo ogni giorno. Papà e Felicity –mia madre- erano stati chiari: avrei dovuti chiamarli senza possibilità di obiezione. Non era importante chi dei due, ma uno doveva avere mie notizie quotidianamente.
Abraham annuì, poi chiese a Dean di passare l’aspirapolvere. Mentre lui si alzava con uno sbuffo, io tornai in cortile e camminando tra le pozzanghere con le infradito entrai nel capanno per cercare la bicicletta.
Ci misi almeno un quarto d’ora a capire come toglierla dalle cianfrusaglie sotto cui era rimasta sepolta per chissà quanto tempo e cercare un pompa per gonfiarne le ruote. Quando ebbi finito con quest’ultimo compito, la osservai sconsolata, tenendola in piedi con le mani perché non aveva nemmeno il cavalletto. Era desolante. Vecchia, grigia, sporca, un po’ arrugginita, impolverata, coi freni talmente duri che non avevo idea di come avrei fatto a frenare in caso di bisogno immediato. Era evidentemente da uomo e aveva anche il cannone, e con la mia statura da Minimeo non sapevo come avrei fatto a salirci.
Tornando in casa a prendere uno straccio per –quantomeno- spolverare quel catorcio, notai l’ormai familiare pick-up di Kameron nel vialetto. Di fatti il suo possessore era in piedi in corridoio ad aspettare pazientemente che il suo amico smettesse di fare il casalingo. Anche perché in quel suolo era decisamente poco credibile.
“Hey, ciao!” mi salutò, solare come sempre, cercando di farsi sentire sopra il rumore dell’aspirapolvere nel salotto.
“Ciao” mi sforzai di abbozzare un sorriso e feci una corsa veloce in bagno a prendere uno straccio e inumidirlo.
“Hai bisogno di una mano?” si informò, gentile come sempre.
Pareva assurdo che potessero esistere persone così altruiste e allo stesso tempo persone così stupidamente egoiste -come me- e che le prime offrissero il proprio aiuto proprio agli egoisti peggiori.
“No, no grazie. Devo andare in paese a telefonare ai miei. In bici” specificai, stancamente. Probabilmente avrei bucato a metà streda, perchè al peggio non c’era limite. Specialmente a Sperdutolandia.
Kameron scosse il capo, sorpreso, poi annuì risoluto. “Ti accompagno”.
Sgranai gli occhi. “Cosa? No, non ce n’è bisogno. E poi al ritorno dovrei tornare a piedi. Non preoccuparti, grazie comunque!” Abbozzai un sorriso di ringraziamente e tornai nel cortile con lo straccio umido per spolverare almeno un po’ quella bicicletta.
Kameron tuttavia mi seguì. “Devo andare da un amico, poi ti riporto a casa. Dai, tanto oggi è venerdì, non c’è nulla da fare! Non disturbi affatto, sappilo”.
Mi voltai a guardarlo negli occhi, chiedendomi se parlasse sul serio. Tutti questi favori! Non che mi dessero fastidio, per carità, ma non era giusto scroccare un passaggio ogni volta senza poter mai ricambiare in alcun modo. “Kameron, seriamente non penso sia il caso...” risposi. “E poi sei venuto per Dean, no? Non è giusto che...”.
“Ma Dean sta lavorando e lo distrarrei e basta, restando qui”.
“Lavora sempre, se non passa l’aspirapolvere la passo io, non è un grosso problema”.
“No, non lo farai, perchè starai ancora cercando di tornare a casa arrancando su quella bici. Salta su e non fare storie, nana!”
“Se mi ringrazi un’altra volta al ritorno di lascio a piedi” mi avvisò Kameron, parcheggiando nella piazzetta davanti alla chiesa del paese. Quel giorno i negozi erano tutti chiusi, e non si sentivano che gli schiamazzi di alcuni bambini provenire dalle case. C’era un silenzio innaturalmente tranquillo. In città non c’era nemmeno di notte una quiete come quella.
“Mi piacerebbe non essere considerata un’ingrata, sai?”
“Scommetto che con tutte le volte che mi hai ringraziato ultimamente, nemmeno i nipoti dei pronipoti dei posteri potranno pensare che tu sia un’ingrata!”
Risi. “E va bene, hai vinto: smetto! Però ricomincerò prima che tu mi abbia riaccompagnato a casa!”
Kameron sospirò. “Morirò affogando nei tuoi biglietti di ringraziamento un giorno, me lo sento”.
Risi di nuovo, di cuore.
Se quella mattina mi avessero detto che entro qualche ora sarei tornata tranquilla quasi come se non fossi stata licenziata sarei scoppiata in una risata isterica da far venire i brividi anche a Bellatrix Lestrange. (Ecco, nel caso qualcuno non credesse al mio ritorno ad un umore quasi allegro, la citazione potteriana ne è la prova.) “Ok, mi regolerò. Magari ti manderò anche dei fiori, allora!” dissi, scendendo dall'auto.
Lui fece altrettanto. “...cambio di programma: morirò asfissiata dalla puzza dei fiori”.
“Hey, King Kong, i fiori profumano, non puzzano!”
Lui sorrise sornione. “Non quando ne hai la casa piena zeppa, nana”.
“Continua a chiamarmi così e ti troverai i fiori pieni zeppi di vespe, Kameron” replicai, acida come sempre. La compagnia di Kameron mi aveva distratta molto, come forse avrebbe fatto quella di Emily. Ero tornata quantomeno tranquilla e tutta quella grigia nebbia che mi offuscava la vista e i pensieri se ne era andata. Come mi aveva ripetuto Kameron almeno tre volte, durante il tragitto: la bacheca del saloon era piena di richieste di lavoro, ne avrei trovato un altro. Magari anche più vicino a casa di Abraham.
Iniziavo anche a vedere il lato ridicolo di tutto ciò che era capitato il giorno prima. Quanta sfortuna ci voleva perché tutti quegli imprevisti –le chiavi dimenticate nella motoretta, l’assenza di un lettore cd, dei bambini capricciosi, un ragazzino ribelle- si condensassero in un solo grandissimo inconveniente? La cosa era quasi comica.
“La cosa potrebbe essere preoccupante, in effetti” acconsentì Kameron, alzando le mani in segno di sconfitta. “Be’, ci vediamo fra poco. Aspettami qui, se fai prima di me!”
“Certo. A dopo!” lo salutai, voltandomi. Mi incamminai verso il saloon facendo lo slalom tra le pozzanghere. Poi aprii la porta ed entrai nel bar, deserto come sempre. Ripetei la solita routine –pagamento, numero, chiamata- e portai la cornetta all'orecchio.
Avevo quasi sempre telefonato a mia madre, perchè papà era al lavoro all’orario in cui telefonavo di solito. Una volta tanto però ero arrivata di primo pomeriggio, quando lui sarebbe dovuto essere a casa –conoscevo i suoi orari e le sue abitudini, nonostante vivessi con Felicity e non con lui. Per cui fu il suo numero quello che digitai.
Il telefono fece solo pochi squilli, prima che lui rispondesse.
“Pronto? Qui Harvey Fletcher”
Sorrisi. Aveva la stessa voce di Joshua, solo più bassa e rilassata. Aveva un tono che infondeva serenità, lo aveva sempre avuto. E quando da piccola mi leggeva qualcosa per farmi addormentare, la sua voce era la ninna nanna perfetta: mi cullava fino alla tanto desiderata e dolce perdita di sensi. A dire il vero quando dormivo a casa sua a volte gli chiedevo ancora di farlo. Non perché ancora non riuscissi ad addormentarmi da sola, ma perché ne sentivo la nostalgia. “Ciao, papà”.
“Hey, anatroccolo!”
Risi. “Ciao, papà” ripetei. “Come stai?”
“Bene, c’è tanto da lavorare come sempre. Ma bisogna pur farlo, no?”
Ridacchiai imbarazzata. “Ecco appunto” commentai sottovoce.
“Ecco appunto, cosa, Pan?” domandò.
Sospirai. “Sorpresona, papà! Mi hanno licenziata proprio ieri!” Mi persi in un racconto dettagliato e altamente auto-ironico di ciò che era successo il giorno prima, più qualche aneddoto passato che non ero ancora riuscita a raccontargli. Come quello della pasta e fagioli e la seguente comparsa di Terrence dalla finestra della cucina. Tutte cose che vi verranno risparmiate, conoscendole voi già.
Quando finii, mio madre aveva riso fin troppo, fino alle lacrime conoscendolo, e stava faticando non poco a ricomporsi. Trattandosi di lui, però, non me la presi e attesi pazientemente.
“Deve essere dura, là, eh Pan?”
“Come se non lo sapessi già. Tu ci sei cresciuto qui”.
“In effetti sì. So cosa significa e come ci si sente. Combinavo un guaio dietro l’altro! Ma lasciamo i vecchi tempi nel dimenticatoio. Ho anche io una sorpresa per te!”
Sgranai gli occhi, sorpresa. “Davvero? Quale?”
“E’ una sorpresa, non si può sapere”.
“Papà, se doveva essere un segreto non avresti dovuto dirmi nulla” gli feci notare.
Lui rise. “Hai ragione. Be’, immagino che tu abbia bisogno di un po’ di riposo. Ecco perchè proprio questa mattina ho imbucato una busta con i biglietti del treno per tornare a casa. Che ne dici?”
Vi parrà una scena da film, fin troppo ridicola, forse. Ma in quel momento, quella notizia era la più bella che avessi ricevuto da non so più quanto tempo. Qundi strillai. Nel telefono, come se non ci fosse nessuno dall’altro campo. Urlai di gioia ed entusiasmo, felice al solo pensiero che sarei potuta tornare a casa per un po’ di tempo! Cosa avrei potuto chiedere di meglio?
“Graziegraziegraziegraziegraziegrazie!”