29 maggio 2011

A Baudelaire

Trilla e rieccheggia
del passero l'audace canto
il furore, l'ardore
accende nel cuor
Vive e 'l mal tralascia
quando nell'iride sua nuota
l'immagine più bella
Venere Grandiosa,
gli steli s'inchinano,
di fiori e candore vestita
la leggera armatura
copre la delicata pelle
sorride gioiosa
e amabile, dolce
e nulla turba
il suo tenero candore
S'affrettano gli dei
ad ammirare
la celeste visione
nè il cuore si riempie
dopo la vista soave
correte penne,
affrettatevi pennelli,
mai le vostre opere
varranno il bacio
che non mi ha dato
il sorriso che non
ho visto
Aurighi d'auro ornati,
d'epoche scagliate lontano
nella tela della storia
E voi, trovatori
dal raffinato ingegno
Non uno di voi
non può che
impallidire
contemplare
il sogno beato,
l'aere dorato
ch'abbraccia la mia pelle
Volate, api!
Della mirabile Atena
portate la favolosa tela:
Pallade è verde come l'erba.
I tripodi del
grande Febo, il famoso
cornigero Ammone
di nuovo
trovino le
parole, le dolci
note
che non valgono
il dolce miele dei suoi occhi
i petali
al suo volto frammisti
Dove sei Flora?
Rieccheggia il tuo nome,
Stupore.
Assopisciti di nuovo,
Ansia,
la bellezza nuova
danza
e stanzia
in ogni cuore
in ogni visione
già ti vedo, al mattino
mentre le mie palpebre
dal sonno si rialzano,
arricchite, dal riposo,
al solo fine
di incrociare
il tuo sguardo
Dolce Venere,
di petali e fiori vestita
rapisci la mia anima
la lanci nelle infinità
dello spazio
finchè non trova riposo
assieme al dolore
Laida Venere
volubile serva di voluttà
degnami ancora d'uno sguardo d'amore
il tuo servo più devoto
leva il suo canto più denso
un grido sorge intenso
e piange la sua impotenza

21 maggio 2011

Tramonto

Di nuovo il sole si infrange nel suolo della notte, il viola rimpiange il giorno che è stato, e si accascia nell'infinità del celato. Mi chiedo perchè Dio si sia impegnato tanto a disegnare il tramonto così nostalgico...
In principio fu il cervo... Dio ha disegnato il cervo e se ne è vantato all'inizio del Vangelo. Dio è un vanitoso perfettino perfezionista, la compiacenza dell'artista si riscontra in tutto il creato.
Tanto più l'opinione ha persistito nel distinguere la felicità dalla tristezza che i colori della realtà si sono spenti in un innocente candore. Innocente, come può non essere innocente un errore a cui siamo abituati? Vergogna, dov'è il tuo rossore? Tanto più vogliamo essere felici e non lo siamo, tanto più il desiderio, la passione smorzata, che ha nome dolore, ci prende e non riusciamo a controllarla. Non è creazione celeste anche il dolore? Quando Lucifero fu colpito da Gabriele, davvero per la prima volta comprese il dolore. Il dolore è giusto, si ha per uno sbaglio. Il dolore come segnale di infelicità... Ma cos'è l'infelicità? Non-felicità? E cos'è la felicità? Pensiamo tanto a come rincorrere la felicità più serena ed il piacere più voluttuoso che non sappiamo cos'è la felicità.
C'è un'ape che se posa
su un bottone di rosa:
lo succhia e se ne va…
Tutto sommato, la felicità
è una piccola cosa.
(Trilussa, Felicità)
Ma cos'è la felicità? Se lo potessimo enunciare, la realtà sarebbe corrispondenza fra proposizione e dato di fatto. Possiamo razionalizzare l'irrazionabile? Certo se capissimo cos'è la felicità, ottenuta una formula per la felicità basterebbe trovare anche il modo per utilizzarla e sarebbe facile arrivare ad una felicità illimitata... Io me lo immagino Socrate, che spiega perchè usa l'ironia per mettere in ridicolo i superbi: 'Non riusciamo a dimostrare che quei mangiamerda di Parmenide e Zenone hanno torto, e ci mettiamo a dire che sappiamo tutto di tutto?? Ma come cazz..'' Focoso, il filosofo..
Per Aristotele la massima felicità era della Divinità, perchè avente intelletto. Eh, adesso chi non è andato a scuola è triste... Ma forse chi non è andato a scuola, l'ignorante, aveva compreso la felicità irrazionalmente (che forse è la via più facile) ed ha imparato a viverla, spensieratamente. Due le vie che possiamo intraprendere: una è libera da ostacoli, ma l'orizzonte si fonde con l'aria. La seconda è densa di tranelli, e infinita la strada per il traguardo.
Odiare, amare... Si ama ciò che non si odia? Non si può amare e odiare contemporaneamente? Ma non come pensava Catullo, desiderare sessualmente ed odiare. Amare significa legarsi, legarsi ad un'anima, ad un corpo... Qui l'errore di Platone: il corpo non ha significato. Come se, in procinto di innamorarci, non cominciassimo dal corpo. Il corpo, meraviglioso scrigno di curve e colori.
Possiamo odiare un tramonto, il viso più bello, la perfezione visiva? Platone le odiava. Ma le aveva amate? Si dice che, prima, Platone fosse tragediografo. Poco c'è di vero in questo, invenzioni del popolo bue... Ma fingiamo sia vero. Prima di bruciare le sue opere, invocando il fuoco del Dio Efesto, ascoltando di lontano la lezione di Socrate, Platone aveva ricercato la perfezione nella Tragedia, il mito, eroe ferito, arricchito della saggezza della filosofia. I Greci ricercavano la perfezione, ma sapevano che l'ibris, lo slancio verso l'imperfezione, la superbia, intrinseche dell'uomo, lo avrebbero allontanato, e anche se la Verità si fosse rivelata loro nuda, e l'avessero contemplata per mezz'ora, i Greci sapevano che non l'avrebbero compresa a pieno. Nessuno coglie la tragicità di questa ricerca: casomai fossero riusciti a trovarla, l'ibris li avrebbe condotti oltre e la Necessità li avrebbe schiantati al suolo, come delle mosche schiacciate su un tavolino. Forse Platone aveva ricercato prima la Verità nei suoi lati più 'estetici', e qui l'odio per il pathos della Tragedia, per la potenza dialettica dei mirabili sofisti, del maestro Gorgia.. Forse Platone odiava la Tragedia nella proporzione in cui l'aveva amata, ma non come amore dettato dalla semplice passione: Amore come eros, come slancio verso la perfezione. Odiamo nella proporzione in cui siamo delusi, amiamo in base alle nostre aspettative.
Forse Platone ha voluto 'cambiare via', radicalmente. Non era poi così malvagio, aveva le sue ragioni...
Semplici sono le donne nella misura in cui disprezzano. Amano a priori, e, se deluse, odiano di conseguenza. Il disprezzo causato dalle futilità è futile in ugual modo, e scompare alla prima scemenza che fa loro cambiare idea. L'uomo, invece, è più mite, e difficilmente si concentra troppo su molte persone. Ne preferisce poche, una delle principali è quasi sempre se stesso. E perchè odiano? Odiano ciò che non è concepito dalla loro mente, e non è solo delusione: è anche sorpresa non voluta, è rabbia violenta. Frammiste nei cuori le emozioni, spinte nei precordi dai passi che percorriamo nella nostra 'via'. E cosa c'è alla fine della via?
Anassimandro credeva che ci fosse l'infinito. Abbiamo un solo scritto di Anassimandro, risalente al 500 a.C, successivo alla scrittura della Genesi ebraica (1000 a.C.) e alle religioni orfiche (1500 a.C.). Anassimandro prende il concetto di peccato originale, usato probabilmente dagli orfici per giustificare lo stato di inferiorità dei messeni, esteso nel suo significato dalla religione ebraica, e lo innalza a insegnamento puramente filosofico. Per Anassimandro le anime si staccano dall'infinito ed entrano nel mondo: così pagano il fio di un peccato originale. Entrano in un mondo finito, quindi limitato, quindi contrapposto, quindi in lotta, quindi violento. Il Dolore è una giusta espiazione, e solo attraverso la morte si ritorna all'infinito di partenza. Una visione simile, in certi aspetti, ce la dà Platone: le anime vengono dall'Iperuranio, ma dopo aver vissuto fra le divinità e le Idee viaggiano nel mondo e dopo molte metempsicosi si liberano dalla prigione del corpo. Ma per Platone il Dolore è da allontare, per Anassimandro (o almeno per il suo unico scritto tramandatoci dal platonista Simplicio) il Dolore è necessario, è equo. Forse è anche più facile 'il dolore ce lo meritiamo, prendiamolo e zitti'. Forse è giusto, però. Di certo non è una conclusione che sconfigge il Dolore, ma almeno lo argina, si vede il Dolore con occhi diversi quando ci si presenta.
Gli uomini cominciarono ad amare la conoscenza quando conobbero Thauma. Aristotele si riferisce ai presocratici. In effetti Talete cominciò a predicare il sapere assoluto, la conoscenza del proprio Io, l'archè come strada per la Verità, sicuramente non perchè viveva felice, ma perchè aveva conosciuto Thauma. E Thauma non è la meraviglia, non solo la meraviglia, ma anche la paura, paura per il Dolore, paura per la Morte. E conoscere il Dolore non significa porre una fine, ma vederlo con occhi diversi. Anassimandro dice che la Morte non è cattiva, ma addirittura ci indirizza verso l'infinito. Anassimene amplia Talete e comincia sul serio lo studio della fisica. Con Eraclìto si perde l'archè come strumento basilare per la ricerca della Verità, che, anzichè riunita in un unico elemento fermo, viene vista nel fuoco. Eraclito capisce il movimento che scuote l'uomo, il cambiamento costante, e ne rimane affascinato. Non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume, tutto scorre, tutto è mobile. Pure Montale vedrà nel se stesso della gioventù una persona che non era lui, Pirandello si chiederà chi siamo noi (e quanti siamo noi), come forse si era chiesto l'oscuro, enigmatico Eraclìto, guardando il passato. Sarebbe difficile, per il lettore, chiedersi se è la stessa persona che era ieri, o prima di aver letto questo scritto. A bloccare Eraclìto è il terribile e venerando Parmenide (così lo chiama Platone). Comincia con la tautologia per eccellenza 'L'essere è e non può non essere, il non essere è e non può essere', e la analizza. Arriva perfino a dire che il mondo è un'illusione; con tesi paradossali, ma Platone impiegherà tutta una vita a smontarle. Zenone poi aveva messo in crisi i filosofi ateniesi ai tempi di Socrate con i suoi paradossi sul movimento, che i cinici vedono come passatempi logici, gli altri rimangono assaliti dal dubbio: capisco davvero? Socrate invece non aveva dubbi: lui sapeva di non sapere, ma era convinto anche che la virtù fosse insegnabile. Thauma. Chi scrisse e disse i miti provò a dare una spiegazione facile e semplice ai grandi interrogativi dell'uomo. Ma può l'uomo accontentarsi di una favola? Thauma, la paura per il Dolore, paura per la Morte... il tramonto, Thauma...

15 maggio 2011

Cows and jeans 10

10
 
“Ti ringrazio infinitamente, Kameron!”
Era la ventesima volta che ripetevo quella frase, mentre il pick-up di quello che sembrava destinato a salvarmi ogni volta che mi attendeva una lunga a disastrosa camminata verso casa di Abe barcollava sulla strada piena di buche. Kameron entrò sorridente nell’aia di casa Fletcher e si fermò per farmi scendere. “Non preoccuparti, è un piacere”.
Gli sorrisi, veramente grata. “Prima o poi mi sdebiterò, te lo prometto”.
“Ma smettila! È così che funzionano le cose, qua. Non si chiede niente in cambio, perché si sa che prima o poi potrebbe capitare a tutti. Ti ci abituerai.”
Era la seconda volta che mi diceva che mi sarei abituata ai modi di fare di quel luogo, ma ogni volta ne ero sempre meno convinta. Certo, sarebbe stato fantastico se ognuno avesse aiutato il prossimo non aspettandosi nulla in cambio, ma dubitavo fosse realmente così. L’uomo era egoista per definizione, in fondo. Potevano esserci delle eccezioni, sì. Ma non più di qualcuna. “Speriamo. Grazie di nuovo!”
“Ancora?” rise. “Ci si vede in giro, ragazza di città!”
Non appena chiusi lo sportello Kameron fece manovra e uscì dallo spiazzo ghiaioso. Io corsi all’entrata e suonai il campanello, stanca a causa della lunga giornata appena trascorsa.
Non vedevo l’ora di mettere il pigiama e sprofondare sul materasso al piano di sopra. Me lo meritavo, in fondo. 
Fu proprio Abraham ad aprirmi la porta, accogliendomi con un caloroso saluto dei suoi. “Sei in ritardo.”
“Ma non mi dire?!” sbuffai, entrando.
Tolsi le scarpe senza nemmeno slacciarle e le lasciai sul tappeto nell’entrata, accanto a quelle di Dean e del nonno.
“Regola numero tre: ritarda a tavola e salti il pasto!” disse, scocciato, avviandosi a passi lenti verso il salotto.
Sentii la rabbia montare. Oltre il danno, la beffa. Se non fosse passato Kameron mi sarei dovuta fare tutta la strada a piedi, e a quell’ora non sarei stata nemmeno a metà percorso!
“Cosa ti aspettavi, scusa? Mi hai lasciato mezzora di tempo per coprire quindici chilometri a piedi!” dissi, irritata. Ero stanca, non avevo voglia di sentirmi fare la predica. Ne avevo già ricevuta una, e per di più dall’ ultima persona sulla faccia della terra da cui sarei mai riuscita ad accettarne alcuna.
Quella stupidissima ironia della sorte poteva anche smettere di fare la simpaticona, per quanto mi riguardava, anche perché non era per nulla divertente. Dopo una giornata come quella non sarei riuscita a portare pazienza più di tanto; porzione che, a quell’affermazione del nonno, avevo già consumato.
Dean, che dal piano di sopra se la rideva beatamente a voce decisamente troppo alta per non essere udito, mi stava irritando e dismisura. Ero stanca, decisamente, dannatamente, stanca. Non potevo continuare così. Le cose non potevano andare avanti così. Forse... forse mi avevano fatto il malocchio, ecco!
Ero stizzita. Parecchio.
Il nonno si era fermato e ora mi osservava di sottecchi, in silenzio, cosa che mi innervosiva ancora di più. Per quale assurdo motivo non diceva mai niente? Parlava solo quando doveva rimproverarmi, quello stupido vecchio!
“Benvenuta nel mondo degli adulti, dove ci si organizza e si fanno sacrifici per poter andare avanti” disse Dean, e ricominciò a ridere fragorosamente.
Come ho già detto ero stanca, i miei nervi erano in decomposizione già da qualche giorno e non avevo più un briciolo di pazienza a mia disposizione. E, sì, sto cercando di giustificare la mia tendenza all’isterismo di quella sera.
“Stai zitto!” sbottai.
“Senti un attimo,...” ma il nonno non riuscì nemmeno a concludere la frase che ero già scattata come un molla.
“Lasciami stare, ok?” Alzai la voce senza nemmeno rendermene conto. Poi continuai, senza riuscirmi più a controllare. “Ne ho già sentite abbastanza per oggi, non voglio sentire una parola di più. Sono stufa! Sono stufa di tutto, sono stufa di questo posto! Non me ne va una giusta e non c’è nessuno che faccia qualcosa per aiutarmi! Che cosa pretendete da me?! Come cavolo pensate che possa fare tutto da sola?! Ho diciotto anni, ho preso la patente un mese fa, diavolo! Come posso cavarmela da sola quando non mi ha mai insegnato niente nessuno, secondo voi? Quei dannati bambini mi detestano, non ho tempo per dormire, non so come cavolo comportarmi e non ho nemmeno idea di che diavolo sia una motoretta!!!” la mia voce era acuta. Alta, e acuta. Una combinazione vincente per far soffrire gli innocenti timpani di qualunque essere vivente dotato di un udito.
Non so se vi sia mai capitato di lasciarvi sopraffare dalle emozioni. La rabbia mi pulsava nel cervello e nonostante sapessi che non aveva senso, dovevo –volevo- far capire loro quanto stessi male. Coscientemente o meno, stavo sputando fuori tutto quello che rimuginavo da giorni ma avevo preferito tenere per me. Una vocina, troppo flebile per poter essere udita chiaramente tra le grida della rabbia, mi intimava a smettere e andare a dormire.
“Rilassati e abbassa la voce, sembri un’ isterica”. Il commento giunse per primo, e Dean lo seguì a ruota, scendendo le scale mentre si sfregava con un asciugamano i capelli bagnati. Sembrava l’incarnazione del relax, in quel momento, con l’aria assonnata di quando ci si è appena goduti una doccia rilassante, e i pantaloni del pigiama già indosso.
Questo mi fece saltare i nervi del tutto.
“ISTERICA?!” strillai. “Che cavolo vuoi saperne, tu?! Insensibile menefreghista che non sei altro!”
“Hey, ma che vuoi da me? Non sono io che ti ho fatto venire qui?”
Tremavo, a quel punto. Come una foglia nel bel mezzo di una bufera. Mi mancava poco, davvero poco per crollare. Un soffio. Abbassai il capo, stringendo i pugni. “Secondo te sono venuta qui di mia spontanea volontà?!”
“Bè, nessuno ti obbliga a rimanere. Pensi forse che qualcuno rincorrerebbe il treno piangendo disperato, se te ne andassi, principessa? Faresti un favore a tutti tornandotene da dove sei venuta!”
Socchiusi gli occhi, incassando il colpo, e mi morsi il labbro inferiore, ferita. Farfugliai qualcosa di imprecisato, conscia di essere sul punto di piangere. Era dannatamente ingiusto. E tremendamente vero.
“Hai detto qualcosa?” mi schernì nuovamente, Dean.
Strinsi i denti, poi sbuffai, arrendendomi al fatto che le lacrime avessero già iniziato il loro maledetto percorso lungo le mie guance. “Sei solo un grandissimo stronzo” conclusi, voltando la testa dall’altra parte, per non farmi vedere in faccia.
Abraham si schiarì la voce, poi sospirò. “Sembrate due bambini. Non vi vergognate?”
Lo guardai, spiazzata dalle parole più inutili che potessero uscire dalla sua bocca. Un singhiozzo mi scosse le spalle. Cosa mi aspettavo? Che mi difendesse, forse? No, non in quel mondo. Non in quella casa. “Ma vaffanculo” sbottai, rivolta a quello stronzo di Dean, a quel vecchio pazzo che aveva generato mio padre, a quelle stupide lacrime, a quei bambini indemoniati, ai miei genitori, a George e mio fratello, ma soprattutto a me stessa.
Uscii di casa, sbattendo forte la porta, senza scarpe.
Scesi i gradini di corsa, senza sapere esattamente perché né dove la mia rabbia avesse intenzione di portarmi. Sentendo gli irregolari sassi dell’aia attraverso il sottile tessuto dei calzini, marciai lungo la strada sterrata che portava in paese, singhiozzando come una bambina. Ed era ciò che mi sentivo, in fondo. Una bambina smarritasi al parco, dove tutti ridevano e giocavano felici, incuranti del suo dolore o anche semplicemente della sua presenza. Una bambina che sapeva di essere fuori posto, sapeva di essere sola. Che aveva paura e voleva tornare a casa, al sicuro. Con la differenza che io non avevo intenzione di tornarci, a casa. Non sapevo nemmeno dove fosse la mia. Non dove abitavano i miei genitori, sicuramente. E forse nemmeno dove mi avevano spedita senza riguardi.
Continuai il mio insensato cammino finché non fece buio, senza sapere dove stessi andando. Non mi interessava. Non mi importava di nulla. Se inizialmente la mia testa era sovraffollata di pensieri furibondi, quando avevo iniziato ad arrancare nel buio della sera estiva si era svuotata completamente. Ma continuavo a piangere, sfogando tutto il nervosismo accumulato non solo negli ultimi giorni a Sperdutolandia, ma anche nelle settimane trascorse in città dopo che mi era stato comunicato che me ne sarei dovuta andare. Continuavo a singhiozzare, lasciando che le lacrime bagnassero le guance, il collo, la maglietta sporca di pasta e fagioli. Lacrima dopo lacrime, però, non mi sentivo meglio. Era ancora troppo presto. Il percorso, non tanto quello a piedi quando quello di sfogo, era solo all’inizio. C’era tanto da sfogare: la consapevolezza di aver deluso mio padre, le lacrime di Emily, le risate di mio fratello, i ‘te l’avevo detto’ di George, la freddezza del nonno, le taglienti frasi di Dean, i tiri mancini dei ragazzini di Hayley, le ramanzine, l’umiliazione dell’aver pianto davanti a qualcuno. Questo e molto altri, compreso il dolore causato dagli irregolari ciottoli su cui aveva a lungo camminato, scalza.
Era ormai scesa la notte vera e propria, avevo superato diverse case, alcune con le finestre illuminate e fatto abbaiare alcuni cani che mi sentivano passare, chiudi nei loro recinti, quando mi fermai e invertii la rotta. Cominciai a tornare sui miei passi, esausta ma ancora scossa dai singhiozzi, col freddo che iniziava a farsi pungente.
Non so quanto tempo impiegai e non ricordo nemmeno cosa avesse frullato nella mia testa per tutta quella notte. Ricordo solo che quando varcai il cancello perennemente aperto e entrai nell’aia della fattoria, le luci della casa erano già tutte spente e l’unica cosa che mi permetteva di intravedere da che parte stessi andando era la luna, che, incurante di tutto, se ne stava in cielo, di profilo, a farsi i fatti suoi.
In silenzio, ma senza smettere di dare sfogo alle mie ghiandole lacrimali, andai ad accoccolarmi sulla panca di legno tarlato sotto il portico, accanto alla porta. Seduta, le gambe strette al petto, posai la testa sulle ginocchia e chiusi gli occhi, esausta, senza dar tregua a quella continua pioggia di emozioni represse.

La mattina dopo mi svegliai sulla sedia a dondolo dall’altra parte del porticato, nascosta al mondo di fuori da una coperta di lana. Non sapevo come ci fossi finita e non ero sicura di volerlo sapere. Cacciati via tutti i rancori e i dispiaceri accumulati nelle ultime settimane, mi pareva di non aver nulla a cui pensare. Mi sentivo più leggera. E tanto, anche.
Quella mattina rientrai in casa e filai nel bagno di servizio al primo piano, per sciacquarmi la faccia impastata di lacrime e polvere. Avevo i piedi distrutti dopo la folle camminata, quindi passai una buona mezzora a lavarli e medicarli. Sgattaiolai in camera che Dean ancora dormiva e rimasi lì a ripensare alla scenata della sera precedente, vergognandomene terribilmente. Pensai di andare al lavoro in anticipo, senza così incontrare nessuno, ma mi sembrava una stupida e inutile dimostrazione di viltà, quindi pensai di bene di far finta di nulla e comportarmi come una persona civile.
La colazione, quella mattina, fu più la più imbarazzante che riesca a ricordare. Non ero l’unica a sentirmi a disagio, probabilmente, poiché anche Abe pareva un pesce fuor d’acqua. Se solitamente si parlava poco, in quella casa, quella mattina il silenzio fu tale che sembrava quasi di essere in un televisore a cui qualcuno aveva tolto l’audio dal telecomando.
Quando la macchina di Abraham frenò davanti a casa di Hayley, addirittura mi sorpresi a sentirmi sollevata. Ovviamente la giornata lavorativa non fu migliore delle precedenti. Oserei dire che fu identica se non per il fatto che nessuno si affacciò alla finestra all’ora di pranzo per recapitarmi messaggi e al momento di tornare a casa non rimasi a piedi.
Il viaggio di ritorno con il nonno non fu nemmeno lontanamente paragonabile a quello della mattina. Entrambi sembravamo esserci distratti durante il giorno, e aver deciso di far finta che la sera prima non fosse successo nulla. Dal canto mio, me lo auguravo. Ancora mi vergognavo di aver strillato a quel modo e di aver pianto come bambina, non volevo nemmeno pensarci. Forse il nonno la pensava come me, perché persino lui aveva abbandonato il solito impaccio e sembrava più rilassato. Mi ritrovai a raccontargli di quanto fosse complicato aver a che fare con quei cinque marmocchi. Non erano ancora confidenze, no. Si trattava solo di qualche chiacchiera scambiata per cortesia, ma era comunque un notevole passo avanti rispetto ai freddi e impacciati tentativi di conversazione dei giorni precedenti. “Sì, sono pestiferi” asserì Abraham, annuendo, senza distogliere lo sguardo dalla strada sterrata. “Se non ce la fai, con loro, puoi sempre cambiare lavoro”.
“No. È una questione di principio, ormai” ammisi, sincera. Non li avrei abbandonati tanto facilmente, non tanto perché mi fossi affezionata o che altro. Soprattutto per una questione di orgoglio.
Quella sera, Abraham, prima di rientrare in casa, mi chiese di seguirlo nel capanno dove parcheggiava la macchina ogni sera. Non ci ero mai entrata: nei pochi giorni trascorsi lì, il nonno mi aveva sempre fatto salire e scendere nell’aia. Nonostante la stanchezza, ero vagamente affascinata anche dalla rimessa. Tra vecchi attrezzi polverosi, fiaschi vuoti, bacinelle e bottiglie di diserbante, secchi di vernice e chissà quante altre cose nascoste alla vista, Abe mi guidò in un angolo dove accanto ad un paio di ruote di bicicletta, se ne stava appoggiato al muro vecchio ciao arrugginito e un po’ malandato. “La motoretta” mi rivelò, abbozzando un sorriso. Mi avvicinai, affascinata, per osservarlo da vicino. “è della Piaggio. Era rosso, un tempo. Tuo padre ce l’aveva sempre attaccato al ...” si schiarì la voce, guardando altrove, imbarazzato. “Sì, insomma, era sempre in giro con quello”.
Risi, serena. “Sai, culo non è considerata una parolaccia, al giorno d’oggi” gli comunicai, divertita.
Il nonno ridacchiò, e si sedette sul cofano della macchina, goffo. “Be’, ai miei tempi non si usavano certi termini davanti alle donne.” Spiegò.
“Ad ogni modo, ...se vuoi è tua. Tanto non la usa nessuno, e suppongo che per tuo padre non sia un problema, visto che l’ha scaricata qua dentro e non si è mai degnato di venirla a prendere” bofonchiò la seconda parte della frase amaramente, poi continuò, notando la mia espressione evidentemente divertita. “Così potrai spostarti autonomamente. Finché Hayley non ti paga, ti presterò io i soldi per la benzina”.
Rimasi in silenzio per un po’, piacevolmente sorpresa. Poi, in tutta spontaneità, mi rivolsi al vecchio, riconoscente: “Grazie, nonno” sorrisi.
Quella fu la prima volta che lo chiamai in quel modo, da quando mi ero trasferita a casa sua. Solitamente tendevo a rivolgermi a lui dandogli del ‘tu’, senza usare alcun particolare appellativo. Non sapevo se Abraham avesse notato questo particolare nella mia frase, quella sera, ma per me era qualcosa di importante. Avevo sempre fatto una particolare attenzione a come chiamare le persone. Per fare un esempio significativo, da quando i miei si erano separati, mia madre per non era mai più stata ‘mamma’, se non quando avvertivo il particolare bisogno di sentirla vicina. Ed era invece un segno di affetto che continuassi a chiamare mio padre ‘papà’. George non si era mai sentito rivolgere quel nome da me, e mai sarebbe accaduto. Non so dirvi se, col tempo, Abe abbia mai notato che quando sono arrabbiata mi rivolgo a lui appellandolo per nome, mentre quando ritengo importante dimostrargli il mio affetto, la mia riconoscenza o qualunque altro sentimento positivo uso ‘nonno’. Fatto sta, che per me questa distinzione era molto significativa.
A partire dalla mattina seguente, quindi non ebbi più bisogno di passaggi da parte di Abe. Quando avviai per la prima volta il motore del vecchio ciao di mio padre, sentii un forte moto di orgoglio invadermi il petto. In parte, sicuramente, per la consapevolezza che quel mezzo di trasporto era -appunto- appartenuto a papà; sia perché era un simbolo dell’affetto che probabilmente Abe provava nei miei confronti, ma soprattutto perché con quello avrei dimostrato di non dover dipendere totalmente dagli altri. Avrei dimostrato di non essere un’ incapace principessa a quel polemico di Dean.
Passarono i giorni.
Con la mia nuova –relativamente- motoretta, i nervi più saldi, una riacquisita determinazione a dimostrare a Sperdutolandia quanto valessi, trascorsi un paio di settimane in modo tanto simile a quei primi giorni, quanto diverso. Le giornate a casa di Hayley rimanevano difficili e esasperanti, ma riuscivo ad affrontarle grazie alla consapevolezza che prima o poi sarei riuscita a cambiare le cose e che –comunque- qualche ora dopo sarei tornata alla fattoria di Abe, dove quantomeno nessuno mi avrebbe lanciato addosso il cibo. Ogni sera, prima di rincasare, montavo in sella al ciao e andavo in paese a telefonare ai miei genitori. Tendenzialmente preferivo parlare con mio padre, ma due volte a settimana facevo, anziché il suo, il numero di mia madre. Discutevamo, nonostante la distanza. Continuava a rimproverarmi per il mio comportamento durante la nostra prima conversazione, ma imparai presto quanto fosse semplice allontanare l’attenzione dalle sue ramanzine e concentrarla sui discorsi dei clienti del bar di Ginger. Lì, dopo aver riagganciato la cornetta, regolarmente incontravo per caso Kameron Towell con cui mi fermavo a fare due chiacchiere prima di montare in sella al mio piccolo, scrostato e arrugginito bolide e prendere la strada del ritorno. Qualche volta avevo incontrato anche Agatha, la ragazza che al mio arrivo mi aveva scortata assieme al ragazzo fino alla fattoria di Abe. La sorella di Dean. Era un tipo piuttosto schivo: nonostante Kameron le si rivolgesse con familiarità e confidenza, lei rimaneva sempre rigidamente distaccata e gli riservava a stento qualche battuta -che spesso rasentava l’offensivo. Proprio come suo fratello, in effetti, tendeva a non rivolgermi la parola più dello stretto indispensabile, limitandosi ad ascoltare ciò di cui parlavo con gli altri e facendo di tanto in tanto qualche smorfia o qualche commento.
Avevo scoperto, che il metodo più semplice per comunicare con le persone lontane dal paese, senza urgenza, era la posta. Proprio per questo motivo, ogni sera prima di andare a dormire, esausta, mi sedevo alla scrivania e scrivevo qualche annotazione sulla giornata appena trascorso su un quaderno che avevo comprato in una bottega di Sperdutolandia, il giorno stesso in cui mi era venuta la grande illuminazione di scrivere un diario. Prima che possiate stupirvi o darmi della cretina, ci tengo a specificare le mie intenzioni. Sarebbe stato costoso e complicato spedire una lettera al giorno ad Emily, la quale si sarebbe trovata la cassetta della posta piena di buste provenienti da un paesino che non aveva mai sentito nominare. Per quanto potesse essere efficiente il servizio postale, era praticamente impossibile potersi tenere in contatto regolarmente ogni giorno senza che le consegne delle lettere si accavallassero e confondessero i nostri –già caotici- dialoghi. Per questo, avevo deciso di tenere un diario. Un diario in cui, sera dopo sera, scrivevo ad Emily tutto ciò che di interessante accadeva, più i miei pensieri, gli sfoghi e tutto ciò che le avrei raccontato di persona. Una volta riempita l’ultima pagina di un quaderno, gliel’avrei spedita, e lei avrebbe fatto lo stesso. Devo ammetterlo, era un’ idea troppo astuta per poter essere farina del mio sacco. Di fatti, era stata proprio Emily a suggerirmi quella soluzione, quando una domenica pomeriggio, dopo la Messa, ne avevo approfittato per telefonarle.
Raccontato in questo modo, sembra quasi che la sera della mia crisi di nervi, tutto fosse stato rose e fiori. A dirla tutta, quasi niente era andato particolarmente bene. Le mie giornate lavorative continuavano ad essere frustranti e un paio di volte, la motoretta aveva dato forfait e mi era toccato pedalare lungo quell’odiosa strada accidentata –l’unica esistente, in effetti.
Sarebbe curioso raccontarvi la mia reazione quando il primo venerdì mi ero svegliata come sempre all’alca, avevo guidato fino a casa di Hayley, per poi scoprire che quel giorno, in paese, nessuno lavorava. Lo chiamavano ‘ il giorno del recupero ’, giornata che la gente sfruttava per mettersi in pari con i lavori domestici, passare del tempo in famiglia, pulire e rifornire i negozi, e chissà quante altre cose. Nessuno me l’aveva detto, ovviamente. Al mio ritorno, Dean mi aveva riso in faccia. Ma so che non è se mi fossi messa a sbraitare -oppure avessi estratto una buona dose di autoironia e mi fossi unita alle risate- che vi state chiedendo, o sbaglio? La domanda a cui volete una risposta è: e con Dean?
Bene, non è che le cose fossero cambiate più di tanto. Anche dopo esserci insultati a vicenda, le uniche parole che ci rivolgevamo erano cariche di sarcasmo e ironia. Eravamo una sorta di epica coppia di 'bisticciatori'  folli.
Un po’ come Harry Potter e Draco Malfoy.

11 maggio 2011

Auguri

Ti auguro tutte le cose più belle
ti auguro di trovare un cestino
con della frutta, e un bigliettino,
cordiale
Ti auguro di trovarci della marmellata,
delle noci, e tutte quelle cose a cui
sei allergico

Ti auguro di trovarti in un prato
di margherite, di rose, circondato
dalla cornice di pini, in maggio
o giù di lì, dato che
sei allergico al polline

Ti auguro di farti una nuotata
nella acque più limpide, pulite,
e, dall'esperto nuotatore,
attraversare intere distese
d'acqua, uscendo luccicante
dell'acqua trasparente che tanto
risalta i muscoli tuoi,
e, tornato a casa,
trovare tua suocera
e l'esattore delle tasse.

Auguri amico mio, buon compleanno,
buone feste e buona pasqua. Possa
tu passare divinamente tutti i giorni
in cui mi dimenticherò di incontrarti
o di salutarti, o di non pestarti i piedi.
Buon anno amico mio, passalo bene,
che forse è l'ultimo