19
“Dove vuol che me la metta una scopa?! Basta, è definitivo: detesto questo posto! Cosa ci faccio qui? Combino guai e quando non ho fatto niente, arriva una stupida vecchia bigotta a darmi della ladra! A me! Cristo Santo!”
Furiosa. Ero a dir poco furiosa.
Che fossi un’incapace era ormai risaputo, ma ladra mai! Con che faccia tosta quella donna mi incolpava?! Nemmeno mi conosceva!
“Pan!” mi chiamò qualcuno.
“Muori!” risposi, stizzita, senza nemmeno voltarmi o chiedermi chi ci fosse.
Solo allora mi accorsi vagamente dei passi nello sterrato, dunque di qualcuno che correva dietro di me.
“Non è carino da parte tua!”
Kameron comparve al mio fianco, ma non accennai a fermarmi. Carino? Carino??! Cosa me ne fregava di ciò che era carino o non lo era, in quel momento?! Tanto ero una schifosa ladra, no?! Non mi curavo di ciò che era carino! “Non me ne frega niente” risposi, senza nemmeno accorgermi che non era stato lui a parlare.
“Fermati, dai! Non sei stata tu!” intervenne la stessa voce dello stupido commento sulla mia cortesia.
“Oh, questo lo so, Robin!” dissi, brusca. “Che cosa ci fai tu qui, poi?! Fila a casa, tua cugina ti starà cercando!”
Entrambi si fermarono, forse, perché sparirono per qualche istante dal mio campo visivo; poi però tornarono a trottarmi attorno come stupidi cani troppo allegri, ignorando l’insegna luminosa che svettava sulla mia testa: Sono una cavolo di ladra, lasciatemi in pace o vi fregherò le mutande!
Tutto ciò era assurdamente indecente. Se qualcuno aveva ancora una buona opinione di me, ora sicuramente non l’aveva più. Mi sentivo furiosamente frustrata, ma anche umiliata. E impotente. Non avrei potuto più decidere del mio destino, non avrei potuto scegliere come comportarmi, che impressione dare agli altri di me stessa. No, aveva scelto Cassie, sbagliando per giunta, e ora non potevo più cambiare le cose, se non con un’immane fatica. Presto tutti avrebbero parlato di me come di una poco di buono e considerate le dimensioni del paese forse lo stavano già facendo.
Tutto ciò solo perché una nevrotica vipera non aveva esitato a puntare il dito contro di me quando aveva perso la sua stramaledetta zappa!
“Pan, calmati!”
“No, Kameron, non mi calmo proprio per niente! Odio che mi si diano colpe che non ho! E ne ho tante, per la misera, perché inventarsene altre!?”
“Neanche a me piace …” convenne Robin a mezza voce.
“A nessuno piace!” tagliò corto l’altro. “Ma noi non pensiamo che sia stata tu!”
“No, no!” lo appoggiò il ragazzino.
“Oh, grazie, ma le cose non cambiano! Quella schizzata avrà già chiamato la polizia!” sbottai, non molto rincuorata. “Il punto è, Kameron, che non me ne sta andando una giusta! Anzi, le cose peggiorano sempre di più!” sbuffai di nuovo. “Robin, adesso basta, vai a casa! Tua cugina si caccerà in un mare di guai se non ti trova!” Sapevo bene come ci si sentiva, e non avrei augurato a nessuno –neanche alla ragazza che aveva preso il mio posto- di patire quell’angoscia che si prova nel sapere di aver perso un bambino e nel preoccuparsi per lui fino quasi a farsi venire l’ulcera.
“Il signor Lucas sa che Rob è con me, non preoccuparti” spiegò Kameron.
“Senti, so di essere egoista, ma non è per lui che mi sto preoccupando. Sono un tantino impegnata ad autocommiserarmi e a mandare accidenti, in questo momento! Ma l’hai sentita quella? Secondo lei ho rubato una zappa! Ma, dico, che diavolo ci faccio io con una zappa?! Magari adesso pensa anche che…”
“Nessuno pensa che sia stata tu!”
“Cassie sì!”
“Ma non ha prove!”
“Oh, bè, questo cambia molte cose. È la sua parola contro la mia, chissà di chi si fiderà la gente! Della piccola e viziata principessa combina guai – che sembra il titolo di un cartone animato, porca miseria! - o della vecchia Cassie che vive qui da anni e tutti conoscono?” continuai, decisamente scettica.
Kameron mi si parò davanti, facendomi inchiodare sul posto per non schiantarmi contro di lui. “Stai zitta un secondo?!”
Lo guardai, esterrefatta. Non potevo nemmeno sfogarmi? Che diritto aveva lui di seguirmi e poi anche intimarmi al silenzio? Incrociai le braccia con stizza, per manifestare la mia posizione di protesta ininterrotta nonostante l’obbedienza.
Robin rise della mia espressione e Kameron sorpirò. “Non c’è motivo per imbestialirsi così, va bene?”
No, non andava bene proprio per niente! Ma non mi diede il tempo di strillarglielo in faccia.
“Cassie non si fida di nessuno e una volta al mese esce in piazza a sbraitare contro una congiura ai suoi danni! Ormai non le crede più nessuno!”
Sbuffai. Convincente, ma troppo poco per calmarmi. “Ammesso e non concesso che tu abbia ragione, “sibilai, “questa situazione rimane comunque avvilente e degradante!”
Robin lanciò un’occhiata confusa a Kameron, che doveva avere più o meno la sua stessa età cerebrale. Avrei dovuto procurarmi un ‘Brain Training’ e un NintendoDS per verificarlo, mi dissi con un’imponente e giustificata dose di acidità.
“Cosa vuol dire?”
“Significa che è arrabbiata lo stesso” tradusse l’altro, con un sospiro. “E dai, Pan!”
Dai, Pan? Dai, Pan, COSA??!Mi avevano fatto passare da ladra davanti a mezzo paese e, secondo lui, non avrei dovuto prendermela? Santo cielo. Santo cielo! Buono quanto volete, ma Kameron sfiorava dei picchi di deficienza che pochi esseri umani avevano mai raggiunto!
Mi limitai a lanciargli un’occhiata in tutta risposta, per non dover mandare a quel paese l’unica persona che potevo considerare amica in quel posto.
Respirai a fondo un paio di volte, cercando di calmarmi.
Robin rise e sentendolo non potei evitare di sorridere.
“Come mai siete qua?” Me ne uscii, infine, riuscendo a soffocare almeno un po’ la rabbia.
Kameron sorrise, dimostrando di apprezzare il mio enorme sforzo. “È nato un vitello da una delle vacche” intercettò la mia occhiataccia. “Ehm, scusa, mucche- e volevo portare Robbie a vederlo”.
No, un attimo un... “Un vitellino?” Ebbene sì, mi ero appena illuminata più di quanto sicuramente non avesse fatto il suddetto ragazzino alla stessa notizia, nonostante tutto.
“Già!”
“Posso venire anche io?” domandai, arrossendo leggermente per l’imbarazzo. Era ridicolo, lo sapevo, avanzare una proposta simile e cambiare totalmente atteggiamento dopo una sfuriata come quella. Ero così infantile alle volte...
“Sì, dai, tanto non ha nient’altro da fare, Kam: è disoccupata!” approvò Robbie, con aria allegramente esperta.
Gli lanciai un’occhiata. “Grazie, per un istante me ne ero quasi dimenticata...” commentai con amarezza.
I due stupidi risero e Kameron mi diede una pacca di incoraggiamento sulla spalla, a cui risposi con un sorriso tirato.
“Forza, andiamo a prendere il pick-up, allora!”
Mi irrigidii. L’ultima cosa di cui avevo bisogno era tornare in paese e affrontare Cassie e tutti gli altri. Magari anche il nonno. Mai sarei riuscita a sopportare sguardi di biasimo e rimprovero camminando tra la gente. Sapendo di non meritarli, per giunta.
Sentii gli occhi iniziare a pizzicare e voltai loro le spalle. “Ho bisogno di stare un po’ da sola, andate voi, io vado un po’ avanti a piedi...”
“No, dai! Vieni!” protestò Robin.
“Va bene, a dopo” lo contraddisse Kameron, con molto tatto.
Mi voltai a guardarli solo quando sentii i loro passi abbastanza lontani.
Il ragazzo gesticolava, mentre spiegava qualcosa al bambino, il quale si voltò a guardarmi. Certa che da quella distanza non potesse vedere le lacrime, mi sforzai di sorridere e lo salutai con la mano. Poi ricominciai la mia pigra marcia senza meta.
Continuavo ad asciugarmi le lacrime dicendomi che non avrei dovuto piangere, che non avrei dovuto farmi trovare così da Kameron e Robin al loro ritorno, che poteva avvenire da un momento all’altro. Ma era difficile; ero stata licenziata tre volte nel giro di due settimane scarse e l’ultima mi avevano anche dato della ladra. Come se io avessi mai potuto fare una cosa del genere! Non prendevo nemmeno più di un tovagliolino in gelateria per non approfittarne! E mi incolpavano di rubare una zappa – che oltre a non servirmi e a non sapere come avrei potuto portarla via senza farmi scoprire, non sapevo nemmeno esattamente come si usasse!
Alzai lo sguardo dai ciottoli della strada sterrata e mi guardai attorno.
Rabbrividii.
Mi sentivo assurdamente insignificante nel bel mezzo della vastità dei campi.
C’era un punto –quello- nel sentiero che portava alla fattoria del nonno da cui il paese pareva incredibilmente piccolo, lontano e sperduto; dalla parte opposta le strade erano particolarmente rade e lontane dalla strada. Tutto ciò che c’era lì intorno erano campi. Vaste distese di piante il cui frutto era stato ormai del tutto raccolto. Lì mi sentivo sempre particolarmente insignificante.
Mi fermai,gustandomi quella sensazione che normalmente avrei fuggito, ma in quel momento non riuscivo a voler abbandonare.
Se sono piccola ogni mio errore non è poi così enorme, no?Di solito cercavo di distrarmi. Non era piacevole quel senso di impotenza, mi aveva sempre spaventato.
Ma questa volta era diverso. Mi inquietava, sì, ma quella situazione mi rappresentava: non solo mi sentivo, ma ero realmente piccola e impotente. Quasi irrilevante. Una bambina nel mondo dei grandi, come Pin**, un bambino vecchio e fuori luogo in un mondo troppo adulto e brutale. Piccoli e insignificanti, ci muovevamo entrambi tra le campagne trovando un posto adatto a noi. Un luogo che forse non c’era.
Il suono di un clacson mi riscosse dai miei pensieri, spaventandomi.
Sobbalzai e vedendo Robin e Kameron ridere attraverso il finestrino mi ritrovai a fare lo stesso.
Il pick-up si fermò e, prima che potessi aprire la portiera, la testa bionda di Agatha si sporse dal cassone. “Qua dietro, principessa! Lasciamo ai bambini i comodi sedili!”
E così mi ritrovai di nuovo a farla ridere nel tentativo di rimanere seduta più o meno stabilmente, sulla strada per casa Towell dove mi aspettavano dei meravigliosi bovini.
“Io nemmeno volevo venire” mi disse Aggie mentre mi aiutava a scendere, una volta arrivati. “poi però Kam…-eron ha detto che c’eri anche tu e ho pensato che sarebbe stato divertente”.
Sorrisi, colpita da quella frase. “Grazie!” esclamai, con spontaneità.
Lei rise. “Intendevo che sarebbe stato divertente perché ti comporti come una bambina quando vedi le vacche, ma …prego!”
“Sei… tremenda!” boccheggiai, scoppiando poi a ridere per l’imbarazzo. “Proprio come tuo fratello.” Aggiunsi, in un borbottio. Con orrore mi ricordai che al mio ritorno a casa, Dean sarebbe stato lì a prendersi gioco di me. Non sapevo come lo avrei sopportato, ma per quel momento decisi di non pensarci. Mi bastava sapere che almeno Kameron, Agatha e Robin si fidavano di me. Questo mi dava coraggio. Un bel po’.
“Muovetevi!” strillò Robin correndo avanti a tutti.
Aggie mi lanciò un’occhiata e allungò il passo, sorridendo.
La seguii e quando fummo davanti alla porta della stalla mi fermai un istante per respirare a fondo. C’era un contrasto emotivo pauroso, dentro di me. In parte non stavo nella pelle all’idea di poter finalmente vedere il vitellino di cui mi avevano parlato; ma soprattutto ero travagliata da pensieri negativi su colpe non mie, umiliazione, rabbia e incertezza. Non sapevo cosa avrei potuto fare l’indomani e avevo un folle timore di ciò che avrebbe pensato mio nonno una volta udite le voci che certamente erano già giunte nel saloon. Chiusi gli occhi cercando di calmarmi prima di farmi prendere del tutto dal panico.
“Pan!”
“Arrivo!” sospirai e varcai la soglia.
Venni investita dall’odore della stalla, che se prima notavo appena, ora era impossibile da ignorare. Mi lasciai pervadere da una sensazione improvvisa di calma. Prendetemi per pazza, non lo negherò –e come potrei farlo? -, per me quella puzza era profumo di serenità e infanzia. Era legato a pensieri e ricordi positivi che quell’odore risvegliava nel mio inconscio infondendomi pace e un pizzico di nostalgia. Ma di nostalgia buona, quella che fa sorridere.
Avanzai lentamente verso l’ultimo box, quello più grande, salutando prima la cara e vecchia Agatha e poi sfiorando il naso di tutte le altre mentre passavo.
“Ma guardala” ridacchiò Aggie, prendendomi in giro. “sembra un bambino in un negozio di caramelle”.
Kameron mi lanciò un’occhiata divertita e io feci loro una linguaccia per ripicca.
Quando vidi il cucciolo, mi venne naturale scoppiare a ridere. Era estremamente buffo: goffo, allampanato e rossiccio.
“È un maschio?” domandai.
Kameron alzò bruscamente la coda della povera bestia e annuì. “Proprio così!”
“Spudorato!” lo rimproverai, vagamente divertita.
Robin rise, senza tuttavia aver capito la parola –ne ero sicura.
“Che c’è?” Agatha parlò per Kameron che mi guardava confuso.
“Nessuno ti tira giù le mutande per vedere se sei maschio o femmina, Kameron!” replicai, con ovvietà.
“Ah, fate pure! Per me non c’è problema!” scoppiò a ridere sguaiatamente.
La neo-madre muggì infastidita dal fracasso.
“Tanto non c’è nulla da vedere” Agatha lo freddò con un sopracciglio inarcato e la sfida negli occhi.
Robin e io ridemmo, mentre Kameron lanciò un’occhiata truce all’amica, severo.
Questo mi fece ridere ancora di più. Come c’era da aspettarsi, Kam non poteva essere sempre sereno e spensierato, non poteva trovare tutto divertente, doveva pur averlo un punto debole! E di fatti ora lo conoscevo: odiava essere colpito nel suo orgoglio di uomo. Dietro quel volto da bambino allegro si nascondeva un grande e grosso ragazzo orgoglioso della sua virilità. Prevedibile, ma inaspettato. Oh, quanto mi sarei divertita a stuzzicarlo!
Tornai presto a concentrarmi sul vitello, che ora veniva allattato dalla madre. Li osservai a lungo, talmente assorta che mi accorgevo appena dei due che continuavano a battibeccare a mezza voce e delle risate di Robin.
“Come si chiama?” me ne uscii, interrompendo la sfida verbale – senza contare che tanto avrebbe vinto Agatha, non c’era storia.
Kameron mi guardò per qualche istante, prima di uscire dalla fase devo-avere-io-l’ultima-parola-perché-sono-un-uomo-e-sono-più-forte e metabolizzare la domanda. E la mia, diciamocelo, era complicata, come richiesta.
“Non ha un nome, ancora, Molly l’ha partorito da pochi giorni e nessuno si è preso la briga di…”
Scoppiai a ridere come una scema, interrompendolo e attirando i loro sguardi interrogativi.
Non ero impazzita del tutto, no. Il punto era questo: goffo, allampanato, rossiccio, la madre Molly. Ormai mi conoscete, fate i vostri conti!
“Non si può che chiamarlo Ron, allora!” sghignazzai.
Dopo qualche istante di confuso silenzio, Agatha e Kameron risero, presto imitati da Robin, che, come tutti i bambini, se c’era da ridere rideva, anche se a volte non ne capiva il motivo.
Fu in quella intensa giornata che il mio umorismo potteriano ebbe il suo debutto in società, e risultò persino simpatico a tutte le persone che contavano. Perché era così, a parte mio nonno, le uniche persone che per me significavano qualcosa per me, erano Kameron, Agatha e, sì, anche Robin. A partire da quel momento mi fu sempre estremamente chiaro.
Quando circa un’ora dopo Kameron riaccompagnò Robbie a casa, prima di andare a raccogliere i frutti alla fattoria dei Thompson, mi feci accompagnare e scesi con il ragazzino. Mi fermai a salutare brevemente i bambini e a fare una linguaccia liberatoria a Johnny -ora che finalmente potevo fare ciò che mi pareva senza che ne andasse del mio lavoro-, poi camminai sovrappensiero fino al saloon.
Una volta capito che per la maggior parte delle persona che per me contavano io ero innocente, avevo deciso che era inutile piangersi addosso. Dovevo andare avanti, sopportare, e migliorare la mia posizione più che potevo. Senza contare che non avrei potuto fare molto altro: prima o poi avrei dovuto affrontare mio nonno, Dean e tutto il resto del paese. Inoltre non potevo rimanere con le mani in mano, disoccupata. Anche volendo, non mi sarebbe stato permesso. Ma non lo volevo, poiché i miei genitori, delineando i patti, erano stati chiari: sarei rimasta a Sperdutolandia –yuppie!- almeno finché non avrei imparato a cavarmela da sola, con le mie forze, con i miei soldi. E questa equazione era facile persino per me, che ero una cretina con la C maiuscola: niente lavoro, niente soldi; niente soldi, niente ritorno permanente a casa.
Entrai meccanicamente nel saloon, senza sapere cosa aspettarmi o non aspettarmi, tenni lo sguardo ostinatamente basso, vergognandomi al solo pensiero di ciò che si era sicuramente detto di me, quel giorno. Mi pareva di sentire i commenti meschini che ognuno dei presenti pensava.
Sedendomi al bancone evitai accuratamente di guardare verso il solito posto in cui sedeva Abe, non volevo incontrare i suoi occhi e leggervi delusione.
Presi coraggio e salutai timidamente la donna dietro al bancone. “Ciao, Ginger”. Feci un enorme sforzo per guardarla in faccia, ma fu una fortuna che io l’avessi fatto. Il suo sorriso –lei sorrideva sempre- era sincera, non nascondeva rimprovero né disprezzo, solo compassione e soprattutto solidarietà.
Che nemmeno lei mi considerasse una ladra? Che ci fossero speranze di vivere ancora in pace, e magari trovare persino un lavoro senza doversi inginocchiare, implorare e giurare fedeltà eterna?
“Ciao, Pan. Capitano tutte a te, eh?” mi salutò, cercando di tirarmi su il morale. “Vuoi qualcosa da bere? Una coca-cola?” domandò, gentilmente.
Sospirai, abbozzando un sorriso per metà amaro. “Sì, grazie” risposi. Estrassi dalla tasca qualche moneta che mi ero portata al lavoro, per poter comprare il pranzo proprio lì, nel bar. “Non lo so, Ginger, me ne capita una dietro l’altra. Poi, andiamo!, anche a rigor di logica, per quale motivo dovrei rubare una zappa se faccio la commessa? A cosa mi serve? Anzi, no, il punto è proprio questo: perché dovrei rubare qualcosa?? Non sono una ladra! Non ho mai nemmeno usato i bagnoschiuma nei bagni degli alberghi perché non erano miei!” Le parole mi fluirono dalla bocca da sole, sgorgando come lava dal cratere di un vulcano che non aveva ancora finito di eruttare e non aveva intenzione di acquietarsi troppo presto. “Sono solo enormemente sfigata. No, anzi, non è nemmeno questione di fortuna o di una dannata sorte o chissà che. Il problema è che sono un’idiota. Sono una piccola e stupida incapace. Ho fatto un sacco di errori che avrei dovuto evitare e Dio solo sa quanti altri ne combinerò!”
“Ehi, ehi, ehi, per favore calmati, va bene?” mi frenò Ginger, ridendo. “Non dire certe cose. Capita a tutti di sbagliare, l’importante è impegnarsi per rimediare”.
Sospirai, scontenta. Certo, la faceva facile! Non era lei ad essere stata accusata di furto davanti a mezzo paese, non era stata lei ad aver mandato a quel paese il suo capo –con ragione, tornando indietro l’avrei rifatto mille volte!-, non era stata lei ad essere stata licenziata. “Come si rimedia a una zappa rubata, ad un’accusa di furto e ad un licenziamento?”chiesi, imbronciata.
Ginger aprì una lattina di coca, ci mise una cannuccia gialla e la posò sul bancone. “Si cerca un nuovo lavoro e ci si mette tutti insieme alla ricerca della zappa”.
Azzardai un’occhiata verso Abe che ci osservava da sopra il giornale. Mi voltai di nuovo verso Ginger, mettendomi a giocherellare con la cannuccia, gli occhi sgranati e lo scetticismo nello sguardo. “E chi assume una presunta ladra?”
“Chi non pensa che lo sia”.
La guardai, interrogativa. “Chi non pensa che io abbia rubato quel coso? Insomma, voi vi fidate tutti gli uni degli altri, io spunto dal nulla, faccio danni e se qualcosa sparisce è chiaro che la colpa venga data a me. Sono esterna a questo mondo di fiducia reciproca, non mi conoscete!”
Nella foga di parlare tolsi la cannuccia dalla lattina schizzandomi e facendo piovere goccioline di coca-cola sul bancone. “Ecco” brontolai, scontenta di me stessa.
Ginger sorrise comprensiva, prese un tovagliolino di carta e asciugò rapidamente la superficie. “Con te ci vorrebbe qualcuno di paziente”.
“Immagino di sì: sono un disastro dalla lingua biforcuta!”
La donna rise, lanciando un’occhiata a qualcuno alle mie spalle. “La lingua biforcuta dev’essere una caratteristica di famiglia”.
Abbozzai un sorriso, immaginando Abe che sicuramente si stava esibendo in una delle sue solite smorfie che dicevano tanto ‘bah, chiudi il becco’. “Già”.
“Io, Pan”.
Cosa? Lei aveva la lingua biforcuta? A meno che non si trattasse di una menomazione fisica, la faccenda era preoccupante se pensava di essere acida quanto me. Solo nonna Margareth era stata più paziente di lei! “Come?”
“Oh, è facile, ne ho già parlato con mio marito, immaginavo che sarebbe stato l’ideale. Anche lui lo crede”.
Erano in due a essersi rimbambiti, allora! Ginger acida? Va bene che prendersi in giro in una coppia rende le cose più divertenti, ogni tanto, ma qui qualcuno iniziava a crederci sul serio!
“Che ne dici, ci stai?” continuò.
Un momento.Dovevo essermi persa qualche passaggio. “Non sono sicura di aver capito di cosa parliamo”ammisi, mordicchiando la cannuccia, di nuovo immersa nel liquido dentro la lattina.
La donna scosse il capo, divertita, e sorrise. “Vuoi lavorare qui con noi, Pan?”
Sgranai gli occhi per la sorpresa. Diceva … “Davvero?!”
“Perché no?”
“Non mi stai prendendo in giro, Ginger?”
Mi alzai in piedi, senza sapere il perché. Era vero? Era forse troppo facile, era … ma chi se ne fregava se era facile o no! Non avrei potuto chiedere di meglio, non avrei nemmeno saputo cosa chiedere di meglio! Ginger era la persona più gentile e paziente che avessi mai conosciuto –eccetto la nonna-, sembrava essere in grado di comprendermi più di quanto non facesse mia madre da anni, ormai. Era fantastico!
Rise. “Ti brillano gli occhi. Anche se avessi avuto intenzione di scherzare, a questo punto non avrei proprio il cuore di negarti questo posto di lavoro!”
“Oddio, grazie!” mi tuffai in avanti per abbracciarla da sopra il bancone e, così facendo, rovesciai la lattina, che Ginger rimise in piedi prima che l’intero contenuto si versasse.
Mi ritrassi, costernata. “Sono un disastro!” soffiai a mo’ di scusa.
Sentii Abe bofonchiare la sua esasperata approvazione e mi incupii di più. Forse non meritavo quel lavoro. Non meritavo che qualcuno fosse così gentile con me, non con tutto il mio egoismo e tutta la mia stupidità. Avrei fatto qualche danno anche quella volta, me lo sentivo.
“Oh, non fare quella faccia. Migliorerai. Iniziamo subito col pulire questi schizzi, ok? Tu che dici, Abe?”
Mi voltai a guardarlo, senza sapere cosa aspettarmi. Il nonno abbassò nuovamente il quotidiano con un sospiro. “Siete maggiorenni e vaccinate, dovete saperlo voi quel che volete fare!”
Vecchio burbero balordo! Mi raccomando, non incoraggiarmi troppo!
Gli feci la lingua, per manifestare il mio disappunto dovuto al suo disinteresse, nonostante sapessi che dietro quelle parole si nascondeva un’approvazione. Abraham aggrottò le sopracciglia in un modo che mi ricordò terribilmente papà quando io e Joshua cercavamo di convincerlo che nella dispensa ci fosse un mostro –lo facevamo per divertimento, di tanto in tanto, convinti che lui potesse crederci.
“Sono d’accordo. Quindi ci vediamo qui tutti i giorni alle otto, tranne il venerdì e il sabato”.
Sul mio volto si era allargato un sorriso così ampio che probabilmente mi si vedevano anche i denti del giudizio –non ancora cresciutimi, per altro. Volevo comunicarle con quel sorriso tutto l’entusiasmo, la gratitudine e la speranza che mi stavano scoppiando dentro, senza dover mettermi a strillare come una di quelle galline che nei film strillano di entusiasmo per qualunque cosa.
“Rischi una paralisi, così” bofonchiò Abe, tornando a nascondersi dietro il suo giornale.
Questa volta scoppiai a ridere di gusto, trovando nelle risa il modo più bello ed efficace per sfogare la mia esplosione emotiva.
Ginger fece lo stesso, contagiata dalla mia risata, e mi strinse a sé in una abbraccio decisamente materno, di quelli che non ricevevo dalle medie, cosa che aumentò la mia voglia di ridere e di ricominciare tutto da capo, senza inutili errori, questa volta.
Note:
*Nella prima riga Pan parla di una scopa. È sempre la zappa del capitolo precedente, ma nella foga ha sparato un nome a caso, senza curarsene troppo. Tanto, ricordiamolo, sta parlando da sola –o come si suol dire, sta farneticando.
**Pin: è il protagonista di Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino. Libro che ho adorato, ve lo consiglio. :3 Parla della guerra partigiana.