30 luglio 2011

Ascoltare musica con le cuffie

Ascoltare musica con le cuffie,
Spegnere il video del pc,
Guardare la sera dove sorgerà la luce.

Lampi senza tuoni,
Piccoli flash ad intervalli regolari.

Quiete.
Dolcezza.
Immobilità.

07 luglio 2011

Il canto del cigno danza sull'acqua

Prometeo padre titano
a te rivolgo
l'ultima speme:
toglimi il dio! Toglimi il dio
pesante
che odia l'azione

Prometeo fiamma lucente
le ali della farfalla
si spezzano
a contatto con l'aria

Prometeo amico onirico
le fiamme del tuo carro
portano l'alba dell'uomo:
Toglimi il dio, padre terrestre!

Il fuoco si fonde e ritorna al cielo...
illusione del mondo antico,
nei miei occhi si rispecchia
la strada che conduce al celeste

Aspettami soltanto,
presto sarò al tuo fianco
Non più schiavo della Necessità
ma amico
della rugiada che mi risveglia,
della rosa che accarezza
 Libero
 dalle spine
che mi rodono il cuore

06 luglio 2011

Cows and jeans 12

Il mio suggerimento di inseguire la carrozza di Madama Intelligenza era stato bellamente ignorato da Dean, a quanto pareva.
Agatha rideva mentre il pick-up incespicava per le stradine sterrate. Rideva perchè la sottoscritta veniva comicamente sbalzata a destra e a sinistra ad ogni tre per due con in volto l’espressione corrucciata e imbarazzata di Ron Weasley alla sua prima lezione di Volo ad Hogwarts (*). E lei rideva di me, come Kameron nell’abitacolo, che sembrava divertirsi come un matto centrando tutte le buche che trovava, sotto il sadico consiglio di Dean. Tralasciando l’industriale quantità di frustrazione mixata alla piccola di dose di sana autoironia –mediocremente palesata dal tirato sorriso che mi stavo costringendo a stamparmi in volto- cercavo di imitare l’annoiata naturalezza con cui Aggie se ne stava tranquillamente seduta in un angolo, le braccia adagiate sulle pareti del cassone, appena scossa dai continui scrolloni causati dalle buche e dalle pessime sospensioni del trabiccolo. Nel frattempo, una parte di me –chissà quale e quanto importante, ma a pensarci bene chi se ne frega- malediceva la testardaggine del biondo accomodato sul sedile del passeggero. Aveva insistito tanto, come uno stupido bambinetto, per salire davanti con il suo amichetto del cuore. Ma accidenti a lui e alla sua stupida tendenza a farmi saltare i nervi! Al suo stupido nuovo hobby, per meglio dire.
“Tutto a posto?” domandò Agatha, divertita.
Le lanciai un’ occhiata. “Mi sento un uovo sbattuto, ma sì” ammisi, sconsolata. La figura della cretina già l’avevo fatta tante volte. Una più o una meno, ormai non faceva differenza. Avevo inoltre deciso che non mi importava particolarmente dell’idea che lei si era fatta di me. Insomma, era solo una ragazza come le altre, nonostante sembrasse così matura e giudiziosa. Giudiziosa e versata nei giudizi, in effetti. Ok, era una persona che già allora ammiravo, nonostante la sorta di riverenziale timore che riusciva ad incutermi. Ma io ero io, con i miei pregi e i miei difetti. Sarebbe stato da idioti fingersi un’altra persona, magari matura e seria, per accaparrarsi la simpatia di qualcuno. Sarebbe stato come mentire, forse anche peggio.
“Dove stiamo andando, precisamente?” domandai, mentre mi esibivo nell’ennesima smorfia frustrata.
Aggie sorrise. “A casa di Kameron. Preparati, penso che mio fratello stia per giocarti un tiro mancino”.
Lanciai un’ occhiataccia all’abitacolo e alzai le braccia per poi farle ricadere in un gesto di rassegnazione. Questo ovviamente, proprio nel momento in cui il pick-up prendeva una buca più profonda delle altre, facendomi finire letteralmente gambe all’aria nel cassone. Agatha se la rideva della grossa, mentre mi rialzavo e mi massaggiavo la testa nel punto in cui avevo picchiato contro le pareti di lamiera.
Sbuffai sonoramente, strizzando gli occhi. Senza rendermene conto iniziai a imprecare a bassa voce, augurando a non so chi precisamente di incontrare un branco di Acromantule a digiuno da almeno due secoli. 
Nemmeno feci caso all’espressione sconcertata ma divertita che si era allargata sul volto severo di Agatha, non feci caso nemmeno alla risata che seguì la mia ennesima e colorita imprecazione, troppo impegnata a chiedermi cosa avessi fatto di male per meritarmi tutta quella stupidità. Mia e di chi mi circondava.

Arrivammo alla fattoria Towell nel giro di pochi minuti. Come ormai avrei dovuto imparare, passandoci davanti ogni mattina sulla mia sgangherata motoretta, questa era proprio lungo la strada che separava la casa del nonno dal paese. Nel complesso la casa era leggermente più piccola, ma molto simile a quella di Abraham. Eccezion fatta per la vernice di pareti, persiane, ringhiere e staccionate. Se da noi era rovinata, scolorita ed erosa dal tempo, l’abitazione dei Towell riluceva di sgargianti tinte appena passate –o almeno così pareva.

Dean e Kameron scesero dalla vettura ridendo, spensierati. Come due ragazzi normali, si sarebbe detto. Peccato che uno e mezzo su due fosse un idiota patentato.
“Preparati al peggio, principessa” mi avvisò Dean, mentre cercavo di imitare Agatha, la quale era balzata giù dal cassone con disinvoltura. Mi bastò mezzo secondo, tuttavia, per capire che non ero abbastanza agile per farlo, quindi rotolai goffamente fino a mettere i piedi per terra. Lanciai un’occhiataccia a Dean, combattuta tra l’idea di mandarlo a quel paese o ignorarlo. Avrei volentieri optato per la seconda scelta, ma fu più forte di me fargli una smorfia e ribattere: “Vivo già con te. Cosa può accadermi di peggio?”
Lui fece una smorfia. “Sei sempre più simpatica, vedo” commentò, disinteressato, per poi lanciare un’ occhiata d’intesa a Kameron che annuì. Sorridente, il moro si incamminò attraverso l’aia, in cui razzolavano beate alcune galline. “Venite da questa parte” intimò, girando attorno alla casa.
Passando accanto ai pennuti starnazzanti, non potei trattenere una leggera smorfia. Non che non mi piacessero le galline, le trovavo carine, in effetti. In realtà, la mia espressione era dovuta al dubbio: cosa avevano in mente quei due? Sentendo ridere il mio amato coinquilino mi agitai ancora di più.
Fu quando però mi trovai di fronte alla stalla che capii quale fosse il geniale piano di Dean. E, diciamocelo, di geniale aveva ben poco. Quel pallone gonfiato pensava che avessi paura degli animali. Sbuffai. Davvero maturo da parte sua. “Non avrai delle pecore, mi auguro” bofonchiai, tra me e me. Ovviamente però Dean mi usì benissimo. Sogghignò. “Che hanno di male, principessa? Non sono all’altezza di produrre lana per i tuoi regali abiti?”
Lanciai un’ occhiata esasperata a sua sorella, che rideva sotto i baffi, poi incrociai le braccia. “Semplicemente non mi piacciono” dargli corda e rispondergli a tono non sembrava il miglior modo per affrontarlo, a giudicare dalle esperienze avute fino a quel momento.
“Come mai, di grazia?”
Lo guardai di sottecchi. Capivo che si divertisse a darmi fastidio, ma ora cosa pretendeva che gli rispondessi? Stavo ancora pensando a cosa rispondere, quando Kameron si esibì un inchino e invitò me e Agatha a precederlo nella stalla.
Ciò che vidi mi lasciò impalata in mezzo al passaggio con gli occhi sgranati. “Oh santo cielo” pigolai, convincendomi ad avanzare lentamente guardandomi attorni come un bambino in un negozio di giocattoli. Chiuse a coppie in vari box ci saranno state una decina di meravigliose mucche da latte. Mi portai una mano alla bocca, meravigliata. Con tutte le cose che avevo avuto ultimamente per la testa, gli animali erano stati il mio ultimo pensiero. Tuttavia la mia assurda passione si era completamente risvegliata in quel momento. Vi sembrerà assurdo, ma mi sentivo veramente al settimo cielo. Il mio cuore aveva persino accellerato i battiti. Sorrisi timidamente. Allungai l’altra mano verso l’animale più vicino, poi mi rivolsi a Kameron. “Posso?” chiesi, incerta. Dubitavo che, nonostante la mia immensa sfortuna, potessi beccarmi un morso da una mucca, ma mi sembrò educato chiedere.
Kameron rise, spensierato. “Certo, non ti fa niente!” mi incoraggiò, lanciando un’ occhiata divertita a Dean.
Ero così contenta che riuscii persino ad evitare di rispondere con sarcasmo a quell’affermazione ovvia.
Mentre mi giravo nuovamente verso la bestia, scorsi con la coda dell’occhio l’espressione sorpresa e scontenta di Dean, non troppo abilmente nascosta dietro la solita indifferenza. Questo mi riempì di soddisfazione più di qualcunque altra cosa. Eccezion fatta per il poter finalmente accarezzare il grosso muso di quell’adorabile animale dopo tanto tempo. “Come si chiama?”
“Agatha” ghignò Kameron, soddisfatto.
La biondina si voltò come una furia verso di lui, aggredendolo con uno sguardo scandalizzato. “Come, scusa?!”
Il ragazzo rise, sotto lo sguardo sornione del biondo. “Che c’è? Ho dato il tuo nome alla vacca”.
Mi indignai, contemporaneamente alla crescita della furia di Aggie. “Hey!” lo rimproverai. “Non essere offensivo con Agatha!” E, sì, ovviamente mi riferivo alla mucca che era appena stata chiamata ‘vacca’, termine che, se in campagna era di uso comune, in città era considerato notevolmente dispregiativo.
La ragazza rivolse un’occhiataccia anche a me e non potei fare a meno di ridacchiare. “Ok, scusa” alzai le mani in segno di resa. “Come non detto, io sono dalla tua parte!” misi in chiaro, tornando subito a concentrarmi sul muso roseo dell’animale.
Agatha tornò quindi a concentrarsi sui due ragazzi, in particolare sul fratello. “E tu non hai nulla da dire?!” lo aggredì, agitando i pugni.
Mi morsi il labbro inferiore per non ridere, mentre Dean non si prese nemmeno il disturbo di trattenersi. “Ma che centro io? Se il tuo nome ricorda a Kam una vacca, è così e basta!”
La bionda contrasse la mascella e continuò la sua sfuriata verso Kameron. “Sei uno stupido troglodita!” sbottò. “Come ti è saltato in mente? Ah, dimenticavo che bisognerebbe averla, una mente, perchè ci possa saltare qualcosa dentro!”
“Hey, hey, hey, calmati!” rise lui, sereno.
“SONO CALMISSIMA!” strillò, ma prima che qualcuno potesse obiettare iniziò ad imprecare furiosamente, apostrofando con una serie di epiteti poco carini il povero Kameron, che dal canto suo non faceva che ridersela lanciando occhiate divertite a me o a Dean. Per quanto mi riguardava non potevo credere che qualcuno potesse prendersela tanto per una cosa del genere, ma avevo il dubbio che Agatha si arrabbiasse per ogni cosa che riguardasse Kameron. Sorrisi tra me, mentre continuavo ad importunare la mucca il cui nome aveva causato tutto quel putiferio, ascoltando ciò che mi accadeva intorno. Allo stesso tempo, però, una parte della mia contorta mente era tornata a molti –anche se non poi così tanti- anni prima. Avevo un vago ricordo della nonna che mi prendeva per mano e mi aiutava ad avvicinarmi ad un grosso animale a chiazze bianche e marroni, per poterlo accarezzare. ‘Non c’è bisogno di avere paura, Pan. Le mucche sono animali docili’ mi aveva detto. A quel punto mi ero accigliata, ribattendo innocentemente ‘pensavo che fossero buoni, nonna. Non voglio che mi morda!’. Sorrisi al ricordo, nostalgica e divertita. Era tutto così semplice e naturale, allora. Era tutto semplice e naturale in quel posto, in realtà. Il problema di base ero io, con la mia incapacità di integrarmi in un qualunque luogo del mondo.
 


Era tanto che non mi capitava di tornare a casa con il sorriso sulle labbra. Anzi, era la prima volta da quando mi ero trasferita a casa di Abraham. Tuttavia, quella mattinata trascorsa con Kameron e Agatha era stata piuttosto divertente. Per qualche momento avevo anche dimenticato di averli conosciuti solo poche settimane prima. Kameron era una persona così limpida e amichevole, che era impossibile considerarlo uno sconosciuto, o solo un conoscente. Era lampante che fosse una persona diversa dalle altre, una persona che mi aveva considerata sua amica fin dal primo momento. Non era semplice trovare persone che concedessero così facilmente la loro fiducia al prossimo. 
Agatha invece rimaneva pur sempre la fredda e sarcastica ragazza che tanto somigliava caratterialmente al fratello maggiore. Aveva tuttavia un modo di porsi migliore di quello di Dean. Nonostante fosse tagliente nei giudizi e facilmente infiammabile, benchè i suoi commenti potessero spesso essere offensivi, sembrava rispettare il prossimo –sempre che questo non fosse Kam- ed essere in grado di mettersi completamente a sua disposizione in caso di bisogno. Discretamente, ovvio. Non era il tipo da uscirsene con un frizzante ‘penso a tutto io, non preoccuparti!’. Piuttosto agiva in silenzio. Pensava molto, parlava poco e faceva ciò che riteneva giusto senza troppi commenti. Altro punto a suo favore. Senza contare che probabilmente era una sorta di solidarietà femminile ad averci legate dal primo momento. Partendo dal presupposto che io non avevo mai creduto nella solidarietà femminile, mi auguro sia chiaro quanto la cosa sorprendesse anche me. Insomma, non sapevo esattamente cos’avesse di buono, Aggie. Sapevo solo che per qualche strano motivo, al contrario di suo fratello, non mi odiava, e per questo le ero grata.
“Togliti dalla faccia quell’espressione da ebete” sibilò Dean, superandomi lungo il vialetto. Balzò sulle scalette, spalancò la porta di casa, si tolse la maglia e la lanciò nello sgabuzzino, per poi correre su per le scale. “Il bagno è mio!” proclamò, per poi sparire al piano superiore.
Sbuffai, irritata. “Evviva la cavalleria” bofonchiai, entrando a mia volta e chiudendomi la porta alle spalle. Proprio come lui avevo passato la mattina sotto il sole, in una stalla con dei bovini e in seguito seduta in mezzo ad un campo. Sarebbe stato ovviamente troppo gentile da parte sua lasciarmi fare una doccia per prima. Dovevo avere un profumino niente male.
“Abe, ci sei?” domandai, affacciandomi alla cucina. Non c’era. Passai al salotto e lo trovai addormentato su una poltrona con un libro aperto sulle gambe. Sorrisi, mentre andavo a lavarmi le mani nel bagno di servizio al pian terreno. Avrei cucinato io, visto che il nonno dormiva.
Mentre armeggiavo in cucina con padelle, pentole e pentolini che un tempo erano appartenuti alla nonna, mi chiesi come si sentisse Abe. La nonna era morta ormai tanti anni prima, lasciandolo da solo a gestire la fattoria e il proprio dolore. Doveva essere stata dura per lui. Con una stretta allo stomaco mi resi conto che non avevo ricordi di quella casa senza la nonna, ad eccezione delle ultime settimane. Non riuscivo a crederci, quindi passai tutto il tempo della preparazione del pranzo ripercorrendo tutte le avventure e le situazioni che potevo ricordare. Nessuna. Nessuna che contemplasse esclusivamente il nonno. Non nel senso che non fosse presente lui da solo. Nel senso che, dopo la morte di mia nonna, non avevo più alcun ricordo che lo riguardasse. Quando lo vidi entrare in cucina, goffo e insonnolito mi sforzai di cacciar via quei pensieri. Temevo quasi che riuscisse a coglierli solo guardandomi, nonostante non fosse possibile. C’erano tantissime cose a cui avrei potuto pensare, sarebbe stato un ottimo Legilimens se avesse indovinato i pensieri tristi che mi frullavano per la mente. E per quanto il mio umorismo fosse basato in gran parte sulla cultura potteriana, dovevo ammettere che i Maghi, e di conseguenza quelli versati in Legilimanzia, non esistevano.
“Oh Merlino” sbuffai, rimproverandomi sottovoce per i miei contorti ragionamenti a proposito della Saga, senza nemmeno accorgermi che persino le mie imprecazioni, spesso, si basavano su di essa.
Abraham mi osservò in silenzio qualche istante, poi si avvicinò al mobile dove stava la tovaglia e iniziò ad apparecchiare, senza dire nulla.
Probabilmente quall’atmosfera imbarazzata veniva percepita solo da me.  Lo speravo. Mi vergognavo delle conclusioni a cui ero giunta cercando di ripescare vecchi ricordi del nonno da vedovo senza alcun risultato.
Affogando nel mio cronico ed egoistico vittimismo non mi ero accorta di quanto effettivamente il nonno potesse aver sofferto durante gli anni. Alla morte di sua moglie, a quanto ricordavo, non eravamo più andati a trovarlo.
All’arrivo di Dean mi sforzai a cacciare nuovamente quei pensieri, rimandando le mie riflessioni a dopo pranzo.
Il pasto fu accompagnato dai soliti battibecchi e dai sospiri di mio nonno, i quali tuttavia mi premevano in quel momento molto più della cura con cui sceglievo le rispostacce da riservare al mio rivale. Fatto stava che il nonno mi pareva improvvisamente un uomo infinitamente stanco. Stanco di lavorare, stanco di soffrire, stanco di sopportare i nostri litigi da bambinetti. Stanco  di rimanere solo, stanco di essere preso in giro. Perchè, sì, come si può definire se non un’ ingrata presa in giro l’essere abbandonato a se stesso da un figlio, dopo aver perduto persino la donna che si amava? 
“...ma c’è una cavolo di volta che riesci a seguire un discorso per intero?” sbottò Dean, battendo una mano sul tavolo, irritato.
“Eh?”
“Senti, principessa, capisco che ti manchi il mondo delle nuvolette rosa, ma ...”
Sbuffai, stizzita. “Puoi rispondere senza dire sciocchezze, per favore?” sbottai a mia volta, incrociando le braccia. “Una volta tanto!” rincarai la dose, mi alzai in piedi e iniziai a raccogliere i piatti vuoti, ignorando lo sguardo freddo del ragazzo. No, non avevo idea di quale fosse la conversazione a cui evidentemente stavo partecipando senza accorgermene. Però ero stufa del continuo intromettersi prepotentemente nei miei pensieri di Dean. Tanto più che, una volta tanto, non stavo facendo assurdi ragionamenti a proposito di inesistenti creature magiche.
Abraham ci osservava in silenzio, poi sospirò e scosse il capo. “Vedi, stava ascoltando” osservò pazientemente, appoggiandosi pigramente allo schienale della sedia.
“Certo. Non sono mica stupida” confermai, senza avere la minima idea di cosa stesse parlando. In realtà non era importante, non quanto il fatto di aver smentito le ipotesi di Dean e aver così riportato una piccola vittoria su di lui. “Oh, e ti consiglio di non fare battute in proposito, risulteresti piuttosto banale” premisi, rivolta ad un eventuale risposta.
“Oh, certo. Perchè tu non ti sei messa a sparecchiare solo per dimostrare la tua presunta maturità, vero? In realtà, mentre correvi mentalmente tra le nuvole rosa che hai nella zucca, stavi ascoltando la discussione sui turni per i lavori domestici. Giustamente, da brava e matura principessa quale sei, hai deciso di interrompere questi scontri per portare la pace in questo regno non tuo. Molto gentile da parte tua, sacrificarti in questo modo”.
Beccata. Mi aveva beccata in pieno. Non potei evitare di arrossire, ma per nasconderlo mi voltai verso il lavandino, dove iniziai a insaponare i piatti sporchi.
Il lato più fastidioso della situazione, non era tanto l’essere stata scoperta, quanto l’essere stata capita. Mi aveva già inquadrata; nonostante le dosi esponenziali di feroce sarcasmo che riponeva in ogni frase rivolta a me, aveva inteso più che bene che razza di persona fossi. Non che il sarcastico sproloquio a proposito del mio regale operato avesse alcun senso, ma senz’altro aveva compreso i miei comportamenti. Aveva saputo subito smascherare il mio –pietoso ed orgoglioso- tentativo di riparare alla mia distrazione. Ma in fondo, forse, in quel che aveva detto c’era qualcosa di vero. Sì, mi ero alzata e mi ero messa a sparecchiare essenzialmente per dimostrare quanto fossi matura, per far vedere al nonno e anche a lui che non mi curavo delle continue frecciatine, che in realtà sapevo fare il mio lavoro senza farmelo ripetere infinite volte. E non ero nemmeno sicura che ciò che volevo dimostrare mi descrivesse realmente.
Dean prese il mio silenzio come una vittoria, e sentii Abe ridere. Lo guardai e lo vidi scrollare il capo, divertito. “Parola mia, siete incredibili” commentò, alzandosi senza alcuna fatica dalla fatica. “Vado a dar da mangiare alle galline” comunicò, uscendo. Ero vagamente sorpresa della sua agilità. Improvvisamente, mi aspettavo di notare in lui mille acciacchi, che prima, considerandolo un burbero ed insensibile vecchio, non avevo notato, e forse non mi era interessato trovare.
Involontariamente mi ritrovai a sorridere. Non stava poi così male, allora, se rideva del nostro improvvisato e astioso dal spettacolo, realizzai con un modo di sollievo.

 
Passai le ore del pomeriggio a imbrattarmi di vernice bianca, mentre tentavo di riverniciare la staccionata. Non mi era stato chiesto esplicitamente, ma vedendo la cura con cui era stata ridipinta di fresco la casa di Kameron, avevo deciso di risistemare –con il permesso del nonno, ovviamente- anche la nostra. Così, mentre Dean se ne era andato in paese a godersi il suo giorno libero –dove non si sa, visto che era tutto chiuso-, mi destreggiavo con epico pressappochismo con un grosso pennello e un secchio di vernice bianca. Abe, dal canto suo, aveva deciso di aggiustare le assi più disastrate del porticato e quindi stava armeggiando con delle tavole e alcuni attrezzi nel capanno.
Non so che collegamento fece la mia mente, perchè mentre, inginocchiata a terra, mi chiedevo se dovessi verniciare anche il minuscolo spazio tra un’asse e l’altra, mi balenò in mente ciò che mi aveva detto Hayley il giorno prima. “Nonno!” saltai su, alzandomi faticosamente in piedi. Effettivamente sì, ero decisamente più goffa a malandata di mio nonno, nonostante avessi almeno cinquant’anni in meno di lui. Dovevo iniziare a preoccuparmi? “Non è che hai dei libri sul far west?” me ne uscii.
Ci volle un po’ prima che Abraham, confuso e sospettoso, si affacciasse alla porta del capanno e mi guardasse cercando di capire dove volessi arrivare. Era così strano chiedere un libro sul far west? Ok, forse non era poi così frequente averne, ma avevo passato gli ultimi anni assieme a George, che aveva un armadio-guardaroba stipato di DVD di vecchi film western, quindi mi pareva una cosa più che normale. Era anche più probabile che un uomo dell’età di mio nonno ne avesse. Insomma, non era poi una cosa così insolita, no?
“Può darsi. Cosa devi farci?”
“Un falò!” ribattei, con un sorriso impertinente. Alla sua occhiata esasperata risi. “Hayley mi ha detto che Robin ama quel genere di cose e pensavo che, forse, con qualche libro sarei riuscita ad ingraziarmi almeno lui.” Il che sarebbe significato molto, visto che i piccoli erano molto più malleabili degli altri e i problemi maggiori erano lui e Johnny. Avendo dalla mia parte quattro marmocchi su cinque, sarebbe stato molto meno faticoso trascorrere le mie giornate come loro baby-sitter.
“Vedrò dopo cena, penso di avere qualcosa” brontolò, prima di tornare al suo lavoro.

Cows and jeans 11




 
Le bestiole gridavano. Bestiole era un sottogruppo dei mostruosi figlioletti di Hayley. Immaginatevi un grande insieme con dentro cinque indemoniati ragazzini dall'età compresa fra i sei e i tredici anni. Poi racchiudete il più grande nell'insieme J, il capo branco. Robin, nel secondo, R, il braccio destro. Inserite entrambi in un più grande cerchio che chiameremo D, come Demoni. Poi recintiamo i tre marmocchi rimasti nell'insieme B, le bestiole, ovvero i piccoli esserini influenzabili. E in quanto tali, corruttibili da quei demoni dei fratelli maggiori, ma anche coinvolgibili da me in giochi più tranquilli e costruttivi dello strillare continuamente.
"Ok, cantiamo una canzone, eh?" trillai, battendo le mani con entusiasmo, nel tentativo di sovrastare gli schiamazzi dei bambini. Non sapevo se fosse vero o falso, ma comunque ero sollevata all'idea che Robin e Johnny se ne stressero buoni buoni sul divano, uno a leggere e l'altro con un videogioco tra le mani. Per una volta, forse, sarei riuscita a fare la baby-sitter -cosa per cui ero pagata- anzichè l'esorcista. "Nella vecchia fattoria..."
Robin voltò la testa dalla mia parte. "Vecchia? La nostra fattoria non è vecchia."
Sbuffai e ricominciai da capo. Non avevano tutti i torti. In città nessuno si preoccupava di quel particolare, nessuno aveva una fattoria, in effetti. "Nella nostra fattoria, ja-ja-ooh, quante ..."
"Nostra?" Johnny scattò in ginocchio sul divano e mi guardò male. "Nostra di chi? Hai una fattoria, tu? Noi ne abbiamo una, non tu."
A quel punto avrei potuto tranquillamente intonare "Nella vostra fattoria", ma capii che quei due demonietti -probabilmente imparentati con Pixie- non mi avrebbero lasciato cantare alcuna canzone, impedendomi così di plagiare i loro fratellini. Senza contare che "nella vostra fattoria quante bestie ha zio Tobia" non avrebbe avuto alcun senso. Loro non avevano uno zio con quel nome, il che sarebbe stato spunto per un altro irritante rimprovero.
Non mi sarei lasciata fregare così, però. Sarebbe bastato ignorarli e coinvolgere in qualche gioco i piccoli prima che iniziassero a trovare divertenti le mie espressioni frustrate alle continue interruzioni degli altri due.
Non risposi, quindi, ma sorrisi nuovamente ai bambini. "Allora, qual'è il vostro cartone preferito?"
"I Gormiti!" esclamarono in coro. Da dove venivo io era praticamente impossibile che due bambine si accontentassero di guardare cartoni animati per maschietti. Ma evidentemente, crescendo tra i fratelli, Terry e Beth non potevano non essersi adattate. Tuttavia, non conoscevo il cartone e sarebbe stato complicato inventarsi la sigla. I bambini odiavano chi sbagliava le sigle dei loro cartoni preferiti. O almeno io non lo avevo mai sopportato.
"Mai visto" ammisi. "Conoscete qualche altro cartone? Manny Tuttofare?"
"Quello è per bambini" si indignò Thom, incrociando le braccia.
"Noi siamo grandi!"
Trattenni una risata, erano tremendamente buffi. Annuii, fingendomi convinta. "Avete ragione. Phineas e Ferb?"
La risata di Johnny trasudava scherno, ma decisi di ignorarla. Non mi sarei fatta prendere in giro da un ragazzino.
I bambini annuirono.
“Bene, quale canzone vi piace?”
E così, come se nulla fosse, ricominciarono a strillare. Questa volta, almeno, non era senza motivo: apparentemente si stavano litigando la canzone più bella. Cantandone stralci a squarciagola e intimandosi il silenzio a vicenda, con grida disumane.
“Ok, ok, ok!” iniziai ad agitare le braccia, per attirare la loro canzone. “Scelgo io, perchè sono la più grande”.
Le bambine si imbronciarono. “Non fate quelle facce, crescerete anche voi” aggiunsi, frettolosa. Non fosse mai che le avessi offese! Ci mancava solo quello.
“Allora, fatemi pensare” presi tempo, mentre Johnny tornava al suo libro, scuotendo il capo. Mi trattenni dal fargli una linguaccia non tanto per la mia maturità, quanto per la consapevolezza di quanto le bestioline amassero fare la spia per cacciare nei guai gli altri.
Tornai con la mente al cartone animato, pensando ad una delle canzoni. Erano frequenti, anzi ce n' era una ogni episodio, più la sigla. Ma ovviamente non le sapevo tutte a memoria. Avevo solo un vago ricordo di...
“Bau chica bau bau
ecco l' amore mio,
mau mau mau
il mio cuore batte
cicchi cicchi ciuai
non si ferma mai
gitchi gitchi goo
manchi solo tu!”

“Ciao, Hayley!”
Quando la donna tornò a casa, quella sera, la accolsi con un sorriso. “Ciao, Pan, cara. Com’è andata oggi? Ti hanno fatto impazzire?”
Sospirai. Sarebbe stato bello poter dire ‘no, assolutamente, oggi ci siamo divertiti’ ma sarebbe stata un’ immensa sciocchezza.
Certo, ero riuscita a tenerli buoni per quasi tutta la mattina. Ma questo solo perchè Johnny e Robin avevano deciso di farsi gli affari loro ed ero riuscita a coinvolgere i bambini in qualcosa di meno fastidioso degli strilli immotivati. I due fratelli più grandi si erano anche scompisciati dal ridere vedendomi cantare le sigle imitando i personaggi di tutti i cartoni animati che mi venivano in mente. Ma all’ora ti pranzo si era tornati a giocare con le posate-catapulta e al pomeriggio a dispetti, grida, insulti, oggetti lanciati e fughe improvvise. Sì, perchè Johnny aveva trovato divertente insegnare un nuovo gioco ai fratelli: chi esce di casa e scappa più lontano prima che Pan lo becchi, vince. Persino loro si erano accorti di quanto potessi effettivamente essere svampita –per usare un eufemismo-, spesso.
“Al solito. Hai bisogno di qualcos’altro o posso andare?”
“No, vai pure, ora ci sono io”.
Sorrisi, grata. “Grazie. A sabato, allora!”
“A sabato!” mi salutò.
Mi avviai, ma non feci in tempo a mettere in moto l’incespicante motoretta, che mi venne un’ idea e tornai a bussare alla porta di Hayley.
Fu Johnny ad aprire, e dopo avermi visto e sbuffato, mi sbattè la porta in faccia. “Hey!” protestai, indignata. Bussai nuovamente alla porta, sentendo solo i bambini ridere e la madre che dalla cucina chiedeva cosa stesse succedendo.
Io ero svampita, sì, ma quella donna lo era quasi più di me.
Con un sospiro, girai attorno alla casa e bussai alla finestra che i ragazzini dovevano aver chiuso proprio per tenermi lontana.
La donna dai cespugliosi capelli castani corse ad aprire i vetri, sorridente. “Pan! Hai bisogno?”
Forse in quella casa era regolamentare parlare con le persone attraverso le finestre, anzichè lasciarle entrare in casa dalla porta d’ingresso. Kameron mi avrebbe detto qualcosa tipo ‘ti ci abituerai, tranquilla’, se avesse sentito quel pensiero. Continuavo a credere che, no, non mi sarei mai abituata alle abitudini di Sperdutolandia.
Cacciai il pensiero e sorrisi alla donna. “Sì, veramente. Volevo chiederti se per caso i ragazzi hanno qualche interesse particolare. Giusto per inventarmi qualcosa per passare il tempo”.
E tenerli a bada senza rischiare che mi sbranino viva.
“Bè, che io sappia...”
“Sì?” la incalzai. Era troppo bello per essere vero. Forse stavo per trovare la musica di Fufi! Ehm, cioè, il tallone d’Achille dei demonietti.
Sorrise. “Che io sappia, Johnny ama le lingue e Robin gli indiani, i cow boy, eccetera. Thom e le bambine... a dire il vero loro si adattano a tutto. Basta che i fratelli dicano qualcosa e loro obbediscono. Peccato non facciano così anche con me!” ridacchiò, imbarazzata.
Nemmeno con me erano obbedienti, a dire il vero. Ma non lo sottolineai.
La ringraziai e me ne tornai alla motoretta, pensando a come sfruttare quelle informazioni a mio vantaggio. Il maggiore amava le lingue, il medio il far west. Che ci fosse bisogno di chiamarlo ‘far west’ in un posto come quello era il colmo. Praticamente era il ‘contemporaneo west’, anche se a ovest di cosa esattamente non lo avrei saputo dire.
Persa nei miei pensieri mi ritrovai in paese, con un vuoto nella memoria riguardante tutte le –monotone-  azioni svolte durante il tragitto. Ritornai al pianeta terra solo quando misi a dura prova i freni di quel vecchio trabiccolo inchiodando per non investire in pieno Kameron. Non so grazie a quale divinità, spirito, demone o grande Mago del passato, questi non fecero cilecca, evitando così un bell’ incidente nel paese. Ipotetico scontro che avrebbe sicuramente fatto scalpore tra le trenta, quaranta persone che vi abitavano: mai niente di così pericoloso poteva essere accaduto lungo quelle stradine al groviera.

“Cavolo! Scusami, Kam!”
Lui rise, tranquillo. “Fortuna che il vecchio Abe ha controllato i freni!” commentò, grattandosi il capo.
Una figura dalla alta coda di cavallo color paglia fece una smorfia. “Sfortuna, vorrai dire.”
“Ciao, Agatha” salutai, smontando dalla sella e mettendo la quasi arma del delitto sul cavalletto. Effettivamente dubito che lo avrei ucciso investendolo con quella sottospecie di bicicletta malandata, ma non sarebbe stata comunque una bella esperienza. Non per me almeno. Sono sicura che Joshua al posto mio si sarebbe divertito un mondo a raccontare a tutti di aver investito un ragazzo, specie se ne erano entrambi usciti indenni. Probabilmente anche Kameron ci avrebbe riso su, sembrava essere in grado di ridere su ogni cosa, quel tipo. Sarebbero stati una bella coppia di amici, lui e mio fratello.
“Ciao, Pan” la bionda abbozzò un sorriso. “Stavi per guadagnarti tutta la mia simpatia”.
“Mi dispiace, non sono brava a bowling. La prossima volta cercherò di travolgere i birilli” risposi, con un’alzata di spalle e molta più nonchalance di quanto non ne avessi. Quella ragazza mi metteva leggermente in soggezione, così severa e versata in ogni genere di battuta tagliente.
Sorrise, divertita, senza però scomporsi. “Domani hai da fare?”
Mi accigliai, spaesata. “Come?”
Accennò una smorfia, stringendo le labbra sottili. “Domani. È venerdì. Hai da fare?”
La guardai, sorpresa. Mi stava chiedendo di passare del tempo insieme? E dire che avevo l’impressione di starle altamente sulle scatole. Alla nuova assenza di una risposta da parte mia, evidentemente, pensò che fossi così stupida da non aver capito la domanda, perchè fece per aprir bocca e dir qualcosa, ma Kameron la precedette. “Io e Aggie volevamo fare un giro. Ti unisci a noi?”
La bionda inarcò un sopracciglio, affondò le mani nelle tasche e ruotò appena il busto verso il ragazzo. “Ti correggo: tu vuoi fare un giro. Io devo portare della roba a Dean e ho la sfortuna che mio padre riponga la sua fiducia in un gorilla come te” fece una smorfia contrariata. “Non ho ancora l’età per guidare”.
Stavo per obiettare che in ogni caso dubitavo qualcuno potesse fermarla e farle una multa, in quel posto, ma preferii rimangiarmi quel pensiero. “Autista personale, eh?” ironizzai, sorridendole. “No, non ho da fare. Vi farò compagnia se non vi dispiace” risposi, allegra. Effettivamente avevo trascorso tutti i venerdì passati con gli auricolari nelle orecchie scrivendo sul diario per Emily e rassettando la casa. Perchè, sì, sebbene ci vivessero (solo e ben !) altre due persone –e da molto più tempo di me-, se avessi lasciato far tutto a loro, avrei potuto letteralmente nuotare tra polvere e panni sporchi in meno di due settimane.

 
Quando la mattina seguente mi alzai e scesi a far colazione, Abraham mi invitò a seguirlo nel porcile, per farmi conoscere i porci. Sicuramente non era stato il primo dei miei pensieri, quando avevo ipotizzato qualche bel momento nonno-nipote, ma ovviamente non era il caso di protestare. In quel posto avevano un modo di vedere le cose estremamente diverso da quello dei cittadini –veri e propri- e anche dai miei. Così lo seguii nel porcile, dove c’era Dean, intento a nutrirli. Lanciava loro parte dei rifiuti organici che venivano prodotti in casa, cucinando. Gli stessi scarti che spesso divenivano cibo anche per gli amati polli di Abe. Com’era possibile che tre sole persone producessero tanta immondizia? Non ne avevo idea.
Ad ogni modo, tra i grugniti allegri dei maiali, il biondissimo antipatico mi salutò con un “Buongiorno, principessa!” talmente carico di sarcasmo che non fu possibile alla mia mente bacata fare alcun collegamento con l’allegro e affettuoso saluto di Benigni nel film La Vita è Bella. Non che ce ne fosse motivo, ad ogni modo.
Abraham si appoggiò con gli avambracci al cancelletto di legno che teneva gli animali chiusi dentro, accanto a Dean. Io, lievemente a disagio –l’odore non era dei migliori, e l’idea di avvicinarmi tanto a quegli affari non mi allettava particolarmente-, rimasi in piedi al suo fianco, dall’altro lato rispetto al ragazzo, ma ad una debita distanza dal legno che ci separava. Mi alzai in punta dei piedi, sbilanciandomi lievemente in avanti per vedere gli animali al di là del cancelletto, incerta.
“Principessa, mi dispiace che a corte tu non abbia mai visto un maiale, ma dubito che questi possano essere interessati a te. Non lo sarebbero normalmente, adesso che stan mangiando ancor meno”.
Gli lanciai un’ occhiataccia, trattenendomi dall’ insultarlo. “Oh, giovine porcilaio, mi duole venire a conoscenza del vostro mancato incontro con la grazia di Sorella Intelligenza, ma ormai il messere che la accompagnava se ne è dipartito. Se vi aggrada, potete  sollevare i vostri regali tacchi, abbandonare codesto luogo e...” ...andartene a quel paese! “tentare di raggiungerlo”.
Avevo paura, sì. Insomma, non ne avevo mai visti dal vero. Non c’erano porcili dietro ogni angolo, da dove venivo io. Non ero abituata a bestie così grandi. Ok, le mucche che tanto adoravo lo erano molto di più, ma era un cosa diversa. Avevo bei ricordi legati a loro, e mi erano sempre piaciute, fin da piccola. Avevano un non so che di dolce, inoltre. Quei maiali, invece... sembravano fin troppo irrequieti e rumorosi mentre col grugno si scansavano la testa a vicenda avidamente per ingurgitare più cibo possibile.
Ok, non so dire perchè, ma ero piuttosto intimorita da quei bestioni.
Dean mi lanciò un’ occhiata di sottecchi, senza nemmeno smettere di lanciare rifiuti ai maiali. “Uno pari, principessa” commentò, sarcastico.
“Sai, Dean, se fossi meno arrogante potremmo anche andare d’accordo” me ne uscii. E in parte era vero, non solo una battuta. Pensavo veramente che se quel tipo avesse messo da parte un po’ del suo immotivato astio nei miei confronti saremmo potuti anche diventare amici. Certo era, però, che non avrei mai fatto io il primo passo. Non potevo farlo. Mi trattava male.
Occhio per occhio, dente per dente.
“Sai, Pan, se fossi meno principessina potremmo andare d’accordo. Ah, no, aspetta: non credo proprio” rise.
Strinsi i denti, irritata. Evidentemente non sapeva come fosse una ‘principessina’, altrimenti non avrebbe detto niente di simile. L’avrei volentieri spedito da dove venivo io, ad aver a che fare con le mie compagne di classe. Al ritorno mi avrebbe chiesto scusa in ginocchio.
“Ma davvero, come sei simpatico” sbuffai, spostando lo sguardo sui maiali pur di non guardarlo. “Come si chiamano, Abe?” chiesi, per cambiare argomento. In fondo era per farmi conoscere i rosei suini che mi aveva condotta lì, no?
“Oh” Abraham si schiarì la voce e raddrizzò le spalle. Allungò un braccio e mi indicò gli animali. “Quello grosso è Bartholomew, la scrofa si chiama Penelope”.
“Wow” commentai, senza sarcasmo. “Date agli animali nomi di persone?” mi uscì detto, senza averci pensato. Effettivamente non c’era nulla di male, ma da dove venivo io...
Dean rise, sprezzante. “A corte gli animali si chiamano Micio, Pallina e Briciola, giusto? Penso che anche un maiale si sentirebbe umiliato da una schifezza simile”.
Effettivamente sì. “Hai ragione. Solo, stavo pensando... Abe, secondo me a quella povera bestia si adatta di più il nome Dean, sai?”
Abraham sospirò, mentre il ragazzo partiva nuovamente all’attacco. “Poco male: del maiale non si butta via niente”.
“Sì, proprio per questo dovremmo chiamarlo Dean. Magari con l’associazione ad un animale utile compensi un po’ la tua pessima personalità”.
“Ha parlato la piccola e dolce principessa!”
“Oh, smettila, così mi fai arrossire!” sputai.
“Così forse somiglierai meno alla staccionata del cortile”.
“Questa non ha senso”.
“Oh, sì che ce l’ha! Ma non è colpa mia se sei lenta, oltre che pallida e piatta come una tavola!”
Trattenni il fiato e arrossii, indignata. A parte il fatto che non era vero, come si permetteva! “Sei un dannato cafone!” strillai, sembrando molto probabilmente –se non sicuramente- un’ isterica.
Vidi mio nonno piuttosto esasperato, mentre uscivo di corsa dal capanno, riempiendo Dean di epiteti poco carini ma mai scurrili –mio fratello era l’unico a cui riservavo quelli appartenenti a tale categoria.
Dean se la rideva, mentre mi indignavo sempre di più, insulto dopo insulto.
“C’è accesa una radio?” bofonchiò una voce femminile, subito seguita da una risata fragorosa che avevo imparato a riconoscere.
Coi pugni stretti e le braccia a mezz’aria, a metà di un’ esibizione gesticolata di ‘se anche i Troll avessero un cervello tu rimarresti meno intelligente ed educato di loro!’, mi bloccai e posai lo sguardo su due nuovi venuto che non avevo ancora notato, sebbene dessero l’impressione di essere lì, appoggiati al pick up, da un bel po’.
“No, Aggie, ho acceso solo la principessina degli gnomi”.
Lanciai un’ occhiata in tralice a Dean, e arrossii per l’imbarazzo. Quanto poteva una persona, che, gesticolando, urlava frasi completamente senza senso per qualunque persone normale e con pochissimo anche per i Potteriani, risultare ridicola? Non ero un asso in matematica –non ero un asso in niente, a dirla tutta-, ma anche senza prendere una calcolatrice supponevo che la risposta sarebbe stata gravemente dolorosa per il mio bistrattato orgoglio.
“Ah, meno male” ridacchiò.
Ma come ‘meno male’?!
Gli si avvicinò, una sportina piena di quelli che sembravano vestiti in mano. “Tieni” bofonchiò, con una smorfia. “Sia chiaro che non sono il tuo postino”.
“Come no?” rise lui. “Kam, amico, non si saluta?”
Avrei voluto obiettare che effettivamente lui era il primo ad avere una certa consuetudine a non salutare, ma appena volsi lo sguardo verso i due biondi qualcosa nel mio cervello fece contatto causando un momentaneo corto circuito. Erano praticamente identici. Stessi capelli, sebbene quelli dell’uno fossero spettinati mentre quelli dell’altra stretti nella solita alta coda di cavallo. Anche i lineamenti erano praticamente identici, eccezion fatta per la totale assenza di lentiggini sullo strafottente volto di Dean. A pensarci meglio, persino il loro catattere era molto simile.
La cosa mi lasciò basita, mentre il mio cervello cercava di spiegarsi tali somiglianze.
Kameron nel frattempo rise della frasi di Dean. “Ciao, fratello” salutò, allegro come sempre. “Ciao, Pan”.
Fratello. Aaahh! Nel mio cervello si palesò la realtà, che tra l’altro sapevo già.Sono fratelli! Pensando ciò, alzai un dito e misi su un’ espressione sorpresa –modello Archimede Pitagorico-, che diede vita la stessa espressione di sufficienza sopra i simili volti dei fratelli McDonnel.
“Ciao, Kameron” risposi, abbozzando un sorriso.
“La principessa degli gnomi è rimasta scandalizzata dall’incontro coi maiali” buttò lì, Dean, irrisorio.
Ripresi tutta l’indignazione di poco prima, momentaneamente messa da parte per lasciare spazio alla riflessione sul perchè Agatha e Dean si somigliassero tanto. “Non è vero niente!” nonappena lo dissi, mi sentii tanto infantile, ma feci finta di nulla.
“Ma se eri sul punto di fuggire!”
“Non è vero! Stavo solo a debita distanza.”
“Ti fanno paura” rincarò.
Avrei potuto continuare a far ciò che mi diceva l’orgoglio, ovvero negare spudoratamente come una bambina testarda, ma invece sorrisi, sfacciata. “Sì. Allora?”
Ero convinta di averlo messo nel sacco, ma lui diede un’alzata di spalle. “L’ allora dovresti spiegarmelo tu. Eri tu a non volerlo ammettere”.
Aveva vinto lui. Di nuovo.
Chiusi gli occhi e respirai a fondo. “Sei irritante” soffiai, infine, cercando di calmarmi. Avevo dato abbastanza spettacolo, per quel giorno.
“Lo so. Senti, porta in casa questa roba, ok?” disse, restituendo la sportina alla sorella. Poi si rivolse all’ altro ragazzo. “Kam, vieni, ho un’ idea.”  Lo chiamò, afferrando una tanica di benziina e dirigendosi nel capanno, seguito fedelmente da un allegro Kameron.
Dopo un verso di frustrazione nei confronti del biondo, accompagnai Agatha in casa e la scortai nella stanza di suo fratello, dove si limitò a lanciare sul letto ciò che gli aveva portato.