30 dicembre 2010

I felt in love with Santa Claus.

I fiocchi di neve scendevano volteggiando lentamente nell'aria, un'atmosfera accogliente aveva inondato la città e gli auguri scambiati anche tra sconosciuti risuonavano nelle strade, rendendo il tutto ancora più magico.
Come ogni anno Lei era uscita di casa a metà pomeriggio e aveva vagato per i negozi alla ricerca dei regali dell'ultimo minuto, o forse sarebbe stato meglio dire tutti  i regali. Era una ritardataria nata, faceva tutto all'ultimo secondo, facendosi prendere dalla fretta solo quando non aveva realmente più tempo; prendeva tutto con calma, era un po' la sua filosofia di vita: rimandare a dopo ciò che si potrebbe fare ora, ma soprattutto pensare alle cose sul momento. 
Rifugiata al calduccio di tutti gli strati di lana e piumino che aveva addosso, ben coperta da sciarpa, guanti e berretta, i regali tutti finalmente riposti nei sacchetti che teneva tra le mani, Lei osservava le luci natalizie che illuminavano di giallo, bianco e, qua e là, rosso le strade del centro, una sensazione di allegria e dolce attesa nel cuore. Quasi preferiva la Vigilia al giorno del Natale; anzi forse senza quasi. Il ventiquattro e i giorni precedenti erano sempre pervasi da quell'atmosfera familiare che accomunava tutti, clienti e negozianti, grandi e bambini, amici e sconosciuti.
Lei sorrise vedendo dei bambini correre nella direzione di un uomo vestito da Babbo Natale. "Uo-oh-oh!" li salutò lui, abbracciandoli. 
Nella sua mente risuonò la profonda e calda voce di Andrea Bocelli che cantava Santa Claus Is Coming To Town. Ridacchiò tra sè. Con quella colonna sonora tutta la scena sarebbe risultata ancor più perfetta.
Prendendosi tutto il tempo per godersi l'atmosfera Natalizia che mai come nella vigilia riscaldava gli animi delle persone, si incamminò verso casa. Lì, ne era certa, la aspettavano i biglietti di auguri da preparare davanti ai soliti bei film natalizi e una tazza di cioccolata fumante.
Era sempre così bello attendere l'arrivo del Natale. Ogni anno ci si riuniva per cena e qualche volta si attendeva che i bambini andassero a letto per poi sgattaiolare fino all'albero, sotto al quale si lasciavano i doni da parte di Babbo Natale. Lei era riuscita a farlo solo un paio di volte -la sua sorellina non era poi così piccola e lei non era poi così grande per averlo potuto fare di più. 
"Lei!" la chiamò una voce che conosceva bene. "Dove stai andando?"
Era stato proprio il Santa Claus della piazza a chiamarla. "Non mi hai ancora detto che regalo devo portarti stanotte!"
Lei gli sorrise e aspettò che lui la raggiungesse. "Uhm... vediamo... be', vederti scendere dal camino sarebbe proprio il massimo ma temo non sarà possibile, giusto?"
"Direi di no". Il ragazzo rise e fece per togliersi la barba, ma Lei lo fermò. Perché deludere i bambini proprio il giorno della vigilia? Se pensavano che quel ragazzo coi vestiti di qualche taglia più grandi fosse il tanto amato Babbo Natale glielo avrebbero lasciato credere. "Non ci si comporta così Babbo!" lo rimproverò, divertita.
Lui borbottò qualcosa sul fatto che era stata Lei ad obbligarlo a prendersi quel ruolo. 
"Oh, è solo per un giorno! Se ti può far sentir meglio, ti prometto che quando torneremo a scuola non lo dirò a nessuno!"
"Dici bene! Lo hai già raccontato a tutti, Lei!"
La ragazza rise di cuore. "Non è vero, è stata Meg!"
"Sì, certo, diamo la colpa agli altri" il ragazzo si grattò la barba finta. "Mi sono cacciato in un bel guaio mettendomi con te, vero?"
Lei rise e si guardò attorno, osservando rapita per l'ennesima volta le vetrine dei negozi del centro. "L'importante è che sia un bel guaio, no?" gli sorrise. 
Il povero Babbo Natale improvvisato alzò gli occhi al cielo, divertito.
Sorrise a sua volta e chinò il capo su di lei. "Questo è poco ma sicuro" rispose, avvicinandosi per darle un bacio.
Lei lo guardò fisso negli occhi qualche istante, poi lo spinse via, fingendosi offesa, prima che il ragazzo potesse anche solo sfiorarla. "Allora di che ti lamenti!?" rise. "Ti faccio notare che quei ragazzini stanno aspettando solo te!" 
Lui volse lo sguardo verso la sua "slitta": un gruppetto di bambini lo guardavano ridacchiando allegri. 
"Forza, Harry!" lo incoraggiò Lei, serena. Si spostò dietro di lui e iniziò a spingerlo verso il gruppetto. "Ecco a voi il vostro Babbo Natale!" proclamò raggiante. "Mi raccomando, ditegli ciò che volete che vi porti, penserà lui a tutto il resto!"
Harry sospirò rassegnato alla gioia che ogni anno pervadeva ogni cellula del corpo di Lei nel periodo natalizio. "Uo-oh-oh! Buon Natale!" recitò, cercando di mettere più allegria possibile nella frase.
Lei rise. "Buon Natale, bambini! Ciao, Babbo!" la ragazza si sistemò la papalina sulla testa e poi si incamminò sorridente verso casa.
Povero Harry! Era riuscita ad incastrare anche lui!
Ogni anno obbligava i membri della sua famiglia e i suoi amici a fare qualcosa di carino per Natale. Una volta li aveva convinti tutti a organizzare uno di quei coretti da film americano che vagano per le strade il giorno della vigilia cantando canzoni natalizie. Era stata la cosa più divertente che fosse mai riuscita a convincerli a fare! Tuttavia quell'anno si erano rifiutati, e l'unico che aveva accettato di farla contenta era stato il suo Harry.
Il suo amato Harry che ancora le chiedeva che regalo volesse, come se quello che stava facendo per lei non fosse già abbastanza. 

Quella sera, Lei era sprofondata nel divano, avvolta in una coperta fin sotto il naso, calzini di lana nei piedi e una tazza di cioccolata fumante tra le mani. Era la terza da quando era tornata in casa, le aveva fatto notare sua madre mentre la preparava. "Ma è Natale mamma! Siamo tutti più buoni ...la cioccolata in particolare!" si era giustificata, facendo ridere la donna.
Suonò il campanello e suo padre le lanciò un'occhiata eloquente da sotto gli occhiali da vista, seduto sulla sua poltrona un grosso libro tra le mani. Lei affondò la testa sotto la coperta, fingendo di non esserci: stava così bene lì al calduccio, vicino al camino nel quale il fuoco scoppiettava allegramente!
"Lei..." la richiamò suo padre, aggrottando le sopracciglia.
La ragazza ridacchiò colpevole e si decise finalmente ad alzarsi. Si mise le ciabatte pelose e, posata la tazza sul tavolino del salotto, saltellò alla porta, incurante che la pesante coperta strisciasse per tutto il pavimento. Aprì, sorridente e scoppiò a ridere di gusto quando si trovò di fronte Harry con ancora indosso i vestiti da Santa Claus e due dita di neve sul cappellino rosso. Alla vista di Lei, il ragazzo si tolse la barba e fece per infilarla nell'ampia tasca dei pantaloni rossi. "Non c'è niente da ridere"
"Fidati, c'è tantissimo da ridere!" lo corresse lei. "Quella barba ti dona, dovresti tenerla!"
Harry fece una smorfia e gliela lanciò. "Prova a metterla tu" propose ridendo.
Lei non se lo fece ripetere due volte e obbedì, ridendo subito dopo assieme al suo ragazzo. 
"E' stato così tremendo?" gli domandò, chiedendosi se non fosse stato troppo chiedere ad Harry di fare Babbo Natale per i bambini in centro. Era stato un suo capriccio, in fondo, lui avrebbe avuto tutto il diritto di riderle in faccia.
...ma non l'aveva fatto. L'aveva presa sullo scherzo, ma non aveva riso di lei.
Lui sbuffò: quella ragazza doveva smetterla con le sue paranoie! "Non particolarmente. Sono venute un sacco di belle ragazze a sedersi sulle mie ginocchia, in effetti" la prese in giro, ridendo sotto i baffi.
Lei aprì la bocca, sorpresa e gelosamente esterrefatta. "Ah, è così?!" fece, il tono di voce più alto del solito di alcune ottave. I sensi di colpa che l'avevano momentaneamente colpita si erano dissolti come neve al sole.
"Non sarai gelosa, Lei?" la stuzzicò.
"Io non ci conterei" si intestardì lei. Si imbronciò e gli lanciò la barba bianca con stizza.
Il ragazzo scoppiò a ridere e lei lo spinse, fingendosi offesa. Tuttavia lui scivolò sui gradini e si aggrappò a lei per non cadere, finendo col trascinarla assieme a lui in mezzo alla neve. 
Dio benedica lo spazzaneve che ha ammucchiato qui la neve del vialetto!, pensò Lei.
Entrambi risero a lungo, spensierati, stesi una accanto all'altro nella neve.
"Scemo!" lo apostrofò Lei, rialzandosi dopo un po'. "Mi sono bagnata tutta!" 
"Capirai, io ho passato la giornata sotto la neve per colpa tua" brontolò lui, rimettendosi in piedi. In realtà stava ancora cercando di farla arrabbiare.
Lei lo guardò male. "Be', c'erano tutte quelle ragazze a scaldarti le ginocchia, no?"
Harry rise di cuore: aveva abboccato. "Oh, ma che me ne faccio? Io voglio la ragazza con la coperta, non una scalda-ginocchia" 
Lei lo guardò di sottecchi a lungo, pensierosa, prima di ricordarsi di avere la sua coperta di pile ancora stretta addosso e capire cosa il ragazzo avesse voluto dire con quelle parole. E allora arrossì violentemente e scoppiò a ridere, nascondendo il volto sotto lo spesso tessuto blu.
Lei sentì l'inconfondibile sensazione di essere abbracciata e si scoprì gli occhi per accertarsi di non essersi sbagliata. 
No, Harry era proprio lì, che la stringeva tra le sue braccia e la osservava sorridendo. "Stupida" la apostrofò.
Rapido, le spostò la coperta dal volto e le calcò il suo cappello da Santa Claus in testa.
Lei rise di nuovo. "Buon Natale, Harry" sussurrò, gettandogli le braccia e parte della coperta attorno al collo. 
"Buon Natale, Lei" rispose il ragazzo, dandole un bacio a fior di labbra.

29 dicembre 2010

Cows and jeans. 5

Ero sotto il getto tiepido dell'acqua calda, nella speranza di riuscire a rilassare le mie povera membra stanche. 
Pensando quelle parole mi resi conto di somigliare ad una vecchietta brontolona, ma dopo la giornata che avevo trascorso ne avevo tutto il diritto. Ero giunta alla conclusione che la mia permanenza a Sperdutolandia -da questo momento il nome ufficiale per quel luogo del caz- cavolo- sarebbe stata degna di quella dei dannati nell'Inferno di Dante Alighieri.
Come mai tutto questo pessimismo? Alla fine l'avevo conosciuto. Mio nonno, il vecchio Abraham -Abe- Fletcher. 
Poco dopo essermi messa a letto, mi ero rialzata. La tensione accumulata era troppa e non ero riuscita a chiudere occhio, per cui avevo deciso di mettermi a spolverare quella casa che sarebbe stata la mia per un bel po' di tempo. 
Mentre con uno straccio toglievo la polvere dai quadri nell'entrata , la porta si era spalancata e lui era entrato.
I nostri sguardi si erano incrociati e il cuore aveva iniziato a battermi fortissimo, terrorizzata da ciò che lui avrebbe potuto pensare di me. Non ero in grado di parlare; non avevo la minima idea di cosa dire, fare o pensare, così ero rimasta impalata sul posto. Avevo abbassato lo sguardo, spostato lentamente le mani dietro la schiena e avevo iniziato a dondolare sul posto, nel più completo imbarazzo. 
Abraham mi fissava, silenzioso. Sul suo volto si erano alternate diverse emozioni: prima sorpresa, poi confusione. Seguite da irritazione e rimprovero. 
"MCDONNEL" aveva rotto il silenzio all'improvviso con un grido che mi aveva fatto trasalire e alzare spaventata lo sguardo. "Quante volte ti ho detto di non portare le tue amichette in casa mia?!"
Quelle parole mi avevano colmata della più profonda delusione in un istante.
Non sapeva nemmeno che ero lì.
Dean si affacciò alle scale, dal piano di sopra mentre se la rideva sotto i baffi. "Ad essere sinceri, nemmeno una Abe" ribatté, divertito.
"Ed evidentemente ho fatto male" brontolò l'uomo spostando lo sguardo di rimprovero su di me.
A quel punto, rossa di indignazione, non ero riuscita a tenere a freno la lingua. "Io non sono un'amica di quel tizio" avevo precisato, frustrata. "Sono tua nipote!" avevo sputato con tutta la rabbia che mi stava salendo dentro, ma a voce non troppo alta.
"Oh" aveva borbottato, sgranando leggermente gli occhi. Dopodiché si era lasciato cogliere da un forte e palpabile imbarazzo che tuttavia non aveva fatto che aumentare la mia irritazione. Era rimasto lì impalato ad osservarmi, cercando più volte di dire qualcosa ma bloccandosi alla vista della mia rabbia.
Non avevo parole, sentivo solo una profonda delusione. In quel momento avrei pagato qualsiasi cifra per potermi voltare e tornare a casa mia, dove avrei dovuto sì sopportare i rimproveri di mia madre e George e gli insulti e le derisioni di Joshua, ma almeno ci sarebbe stato mio padre e ci sarebbe stata Emily, le uniche persone al mondo a cui importasse qualcosa di me.
"Vorrei andare a farmi una doccia" avevo detto, fredda, dopo aver respirato a fondo. Non potevo andarmene, tanto valeva evitare quei pensieri e adattarsi alla situazione. Come al solito.
Dean aveva ghignato, pregustando il sapore di ciò che Abraham stava per dirmi e la mia conseguente espressione.
L'uomo aveva annuito, mentre cercava di mascherare l'imbarazzo con una risoluta severità che probabilmente doveva contraddistinguerlo in normali circostanze. "Al massimo dieci minuti e l'acqua più fredda possibile"
A quel punto mi ero lasciata sfuggire un "Cosa!?". Cosa pensava potessi farmene di una doccia fredda, quel vecchio rimbambito?! E va bene, era estate, era Luglio! Ma io avevo passato tutta la mattina in viaggio su un lurido treno e ora ero in una casa polverosa e avevo i nervi così tesi che avrebbero potuto spezzarsi da un momento all'altro! 
"Regola numero uno: se vuoi rimanere qua, devi darti da fare. Regola numero due: devi guadagnarti con dei lavori extra ogni lusso che ti prendi. Numero tre: la colazione è alle sei, il pranzo alle dodici e la cena alle sette. Ritarda a tavola e salti il pasto. Numero quattro: ognuno sistema, riordina e pulisce ciò che usa."
Mi ero sforzata di non mandarlo a quel paese, e avevo annuito, la frustrazione alle stelle. "Posso fare una domanda?" avevo aggiunto, la voce traboccante sarcasmo.
"Regola numero cinque: si fa conversazione a tavola, per il resto si lavora. Chiaro?"
Sgranai gli occhi e mi lasciai sfuggire uno sbuffo di indignazione. Dov'ero finita, in un campus militare?! Avevo annuito, rendendomi conto dell'assurdità della situazione. Tuttavia la comicità velata di tutto ciò non era decisamente abbastanza per migliorare il mio umore. Anzi, lo stava facendo peggiorare: mi sentivo persino presa in giro dalla sorte. "Ottimo.C'è altro che dovrei sapere?" non avendo ottenuto risposta, avevo sbuffato. "Bene, ora metto io una regola. Pregherei che il biondino qui presente stesse lontano dal bagno per i prossimi dieci minuti. Credo sia il minimo."
Dean rise. "Ti concedo quindici minuti, principessina." aveva commentato, irrisorio. "poi verrò ad accoglierti!"
Lo avevo fulminato con lo sguardo, non ero decisamente in vena di certe cretinate, al contrario suo. 
"Non dire fesserie, McDonnel" era sbottato Abraham. "Ha ragione..." mi aveva guardato interrogativo, in attesa di un completamento per la frase.
Sentii il cuore cadere nel vuoto per andare ad infrangersi sul pavimento.
Non sapeva nemmeno il mio nome.
Avevo una voglia assurda di scoppiare a piangere e andarmene lontano da lì per non tornare mai più. Era il mio unico parente nel raggio di chilometri e chilometri, dannazione! Era mio nonno! E non sapeva nemmeno come mi chiamassi! 
Avevo stretto i pugni forte, fino a farmi sbiancarmi le nocche e cercando di rispedire le lacrime indietro avevo risposto "Pan" con astio. Avevo bisogno di Emily, subito. Sentivo un bisogno disumano di piangere e frignare come una bambina. Mi sentivo dannatamente stupida, perchè ci avevo anche sperato! Mi ero illusa! Avevo sperato di poter trovare un posto adatto a me, avevo sperato che a quel tizio fregasse qualcosa di me! Speravo di trovare qualcuno che potesse capirmi lì, ma evidentemente Lily era l'unica persona al mondo in grado di farlo.
Gli occhi mi bruciavano terribilmente e in gola avevo un groppo così grosso che faticavo a deglutire la saliva e a respirare.
"Pan. Ha ragione Pan. Vai a fare da mangiare, tu e non mettere piede al piano di sopra finché non ti avrà detto di essere presentabile. E tu sbrigati, fra poco più di mezz'ora si cena." aveva concluso, voltandosi per andare nel salotto.
Ed ora ero sotto il getto tiepido dell'acqua. Non avevo pianto una sola lacrima, mi ero sforzata di non farlo. La doccia stava risanando leggermente il mio umore sciogliendo la tensione e la rabbia, tuttavia la delusione era troppo forte per essere lavata via.
Sentivo un bisogno irrefrenabile di un abbraccio. Avevo bisogno di affetto. Mi avevano cacciata dal mio orribile mondo ed ero capitata in uno che era anche peggio, in cui non c'era assolutamente nessuno a cui importasse di me.
Il groppo in gola era ancora lì, deciso a rimanerci ancora a lungo. Io odiavo quella sensazione di oppressione che mi impediva di respirare bene e decisi che l'avrei ignorato finchè non se ne fosse andato. 
Dicono che se una cosa non uccide fortifica. Probabilmente anche quell'ennesima delusione che avevo ricevuto nel corso della mia vita mi avrebbe resa più forte una volta per tutte. 
Uscii dalla doccia e mi avvolsi nel mio vecchio accappatoio arancione. Non vedevo l'ora di poter andarmene a dormire. 
Guardai l'orologio nella mia camera e mi accorsi di aver fatto una doccia di quindici minuti. Non l'avevo fatto di proposito, ma decisi di prenderla come una rivincita principale. Mi vestii in fretta e scesi in cucina, i capelli ancora bagnati.
"Suppongo di non poter usare il phon" commentai acida, entrando nella stanza. 
Dean diede un'alzata di spalle. "Certo che puoi. Ma noi non ce l'abbiamo." 
Sospirai, esasperata. "E va bene" se la giornata aveva deciso di andare nel peggiore dei modi, le avrei lasciato avere il suo corso, remissiva. Era inutile cercare di combattere a quel punto della giornata, dopo un viaggio piuttosto lungo, degli incontri difficili, lavori domestici e troppe emozioni negative. Avrei semplicemente aspettato che il giorno volgesse al termine e me ne sarei andata a dormire nella speranza che la mattina seguente sarebbe iniziata leggermente meglio.
Decisi di aiutare Dean apparecchiando la tavola. Durante la mia esplorazione pomeridiana avevo scoperto dove stavano quasi tutte le cose, e grazie alla mia memoria fotografica niente male, ricordavo ancora dove stavano. Misi la tovaglia e iniziai a prendere le stoviglie da sistemare. "Mio nonno ha detto che ti chiami McDonnel, giusto?" chiesi, cercando di intavolare una conversazione civile.
Lui grugnì un 'sì' mentre rimestava con un mestolo dentro una pentola.
Quel cognome l'avevo già sentito quel giorno. Forse... "...per caso sei il fratello di- ?"
Lui sbuffò e si voltò a fulminarmi con lo sguardo, battendo un pugno sul mobile della cucina. "Sì, sono il fratello di Matthew" sbottò con rabbia.
trasalii, spaventata dal suo scatto d'ira. Che cavolo prendeva pure a lui? Era schizofrenico?! Ci mancava solo quella! Forse, ad ogni modo, dovevo essermi sbagliata. "E chi è? Pensavo fossi il fratello di Agatha. Mi sembra di ricordare che anche lei si chiami McDon-"
"Certo che è mia sorella, principessina. Quanti McDonnel vuoi che ci siano in paese?!" sbuffò, tornando a preparare la cena, senza abbandonare la rabbia.
"Come diavolo pensi che possa saperlo?!" scoppiai, portando via i piatti puliti. Li posai sulla tavola con rabbia, facendoli risuonare nel silenzio della stanza.
"Regola numero sei: chi rompe paga. Regola numero sette: chi trasgredisce alle regole salta un pasto a sua scelta." Abraham era comparso nella stanza e con aria severa mi rimproverò con lo sguardo per aver battuto le stoviglie sul tavolo. Doveva essere una caratteristica dei Fletcher organizzare secondo un elenco di punti la loro vita, notai con irritazione e una buona dose di ironia.  "Hai passato troppo tempo sotto la doccia" mi comunicò, fissandomi inespressivo.
'E CHI SE NE FREGA!' urlava la mia mente, mentre il groppo che avevo in gola si ingrandiva facendomi faticare ancor più a respirare. Era possibile che qualunque cosa facessi quella sera volgesse a mio sfavore? Persino cercare di far conversazione con Dean aveva portato alla sua furia! "Hai intenzione di farmi saltare la cena? Se ci tieni a saperlo ho già saltato il pranzo, quindi mi sono già punita" risposi con irriverenza, frustrata. 
"No, non ho intenzione di farlo. Non oggi. Devi ancora abituarti alle regole, quindi per oggi ti risparmierò la punizione."
Sospirai. Almeno quella era andata bene. "Finisci di apparecchiare, tra cinque minuti deve essere in tavola"
Che diavolo aveva nel cervello quel vecchio? Un orologio svizzero?! Era forse un parente del Bianconiglio, fissato con gli orari com'era?!
Finii di apparecchiare in silenzio, cercando di far sparire la mia tristezza, o quantomeno di arginarla. Non ci riuscii e quando finii di mangiare mi offrii di lavare io i piatti. Abraham aveva risposto con un "Regola numero quattro: ognuno..."
"Sì, sì, ognuno pulisce, riordina, sistema ciò che usa. Me lo ricordo. Cercavo solo di essere gentile" lo interruppi in un sussurro, mentre andavo al lavabo per lavare le mie stoviglia. 
Non appena finii lasciai il posto a Dean per lavare il suo piatto e decisi di andare a coricarmi il prima possibile. L'unica cosa che volevo era che quella giornata finisse. Ero stanca fisicamente, ma soprattutto psicologicamente.
Prima di andare a dormire dovevo fare una cosa, però. "Dovrei fare una telefonata" comunicai a mezza voce. Ero sicura che la mia rassegnazione mista a delusione fosse evidente sul mio volto. Non ero mai stata troppo brava a nascondere i miei sentimenti, ma non era mai stato un problema: a nessuno era mai importato molto di quelli. Eccezion fatta per Emily e papà. "Userei il cellulare, ma non c'è campo." O meglio, c'erano troppi campi, ma nessuno serviva alla linea telefonica.
Abraham annuì. "Domani mattina"
"Domani?"
"Non mi pare il momento adatto per andare in paese. E poi il bar sta per chiudere."
In paese? Questo significava che non c'era un telefono in quella casa!
La mia espressione scioccata fece sghignazzare Dean. Quel ragazzo si divertiva come un matto alle mie spalle, e senza preoccuparsi di non darlo a vedere, per giunta. "Va bene" cercai di darmi un contegno. "Quindi fino a domani mattina i miei non sapranno se sono viva, morta o dispersa, suppongo". 
Non che gliene importasse qualcosa, in fondo. Altrimenti non mi avrebbero spedita laggiù nelle mani di un uomo che non sapeva nemmeno il mio nome.
"Non credo sia un problema per loro aspettare fino a domani mattina"
"Già. In effetti lo credo anche io" brontolai, abbassando lo sguardo. Avrei voluto chiedere se avessi dovuto pagare la telefonata, ma era ovvio. Era un telefono pubblico, sicuramente, o comunque, essendo in un bar, supposi che il barista avrebbe dovuto traerne qualche profitto.
"Buona notte" borbottai, uscendo dalla sala.
Mio nonno mi rivolse un grugnito di saluto e Dean non rispose.
L'educazione non era il loro forte.
Nemmeno l'umanità doveva esserlo o avrebbero capito come diavolo potevo sentirmi in una situazione simile.
Chiusi la porta della mia camera e mi cambiai in fretta, poi mi raggomitolai sotto il lenzuolo che al momento di fare il letto avevo sperato il nonno avesse preparato per me. Molto probabilmente invece lo aveva solo dimenticato lì dopo averlo lavato. Sospirai e affondai il volto nel cuscino. Avevo bisogno di Emily, urgentemente. Ma avrei aspettato l'indomani.
Probabilmente avrei chiamato lei invece che mia madre, George o papà. Sarebbe stata la mia migliore amica a spiegar loro la situazione, tanto non mi avrebbero ascoltato. I primi due erano troppo presi dal rammaricarsi per come non ero e il secondo troppo deluso dal mio comportamento per potermi ascoltare. Magari le parole della buona e dolce Emily Gregor avrebbero invece fatto qualche effetto. Non sapevo esattamente quale effetto volevo avessero le parole di Lily sulla mia famiglia. Non sapevo cosa volevo. Volevo solo dormire in quel momento. I miei pensieri erano sconnessi e senza un filo logico. Erano i pensieri di una ragazza che non voleva piangere, voleva prendere in mano la sua vita e far vedere al mondo di che pasta era fatta, senza però che nemmeno lei lo sapesse.

22 dicembre 2010

Cows and jeans. 4

Dal baratro del mio folle umorismo potteriano me la ridevo della grossa, senza dare segno di riuscire o volere smettere.
Dean mi fissava in cagnesco, senza proferir parola. Si limitava a fissarmi con più astio possibile. Evidentemente però non aveva bisogno di impegnarsi per farlo.
Sicuramente quell' improvvisa (?) pazzia era dovuto al nervosismo che avevo accumulato quel giorno. Non che mi fossero capitate le più grandi disgrazie, ma per i nervi di chiunque sarebbe stato troppo resistere a tutto ciò senza alcuno sfogo. 
Ero a digiuno di sfoghi da tre giorni, ovvero da quando mi era stata comunicata la mia immediata partenza.
Avevo sopportato in silenzio, impassibile o con un mezzo sorriso stampato in faccia,  la furia dei miei genitori e di George, le proteste di mio fratello, le sue accuse, il pianto e le preghiere della mia migliore amica che non voleva partissi. A tutto questo si era poi aggiunta Sperdutolandia e tutte le sue care pecore, l'assenza di campo, l'assenza ancora più irritante del nonno, il senso di piccolezza che guardare fuori dalla finestra mi infondeva e ora quel tizio che era comparso in camera mia e mi stava odiando dal profondo del cuore.
Perchè mi odiava, era chiaro.
Finiva sempre così quando la mia cisterna di sopportazione raggiungeva il limite. Scoppiavo a ridere come un' isterica per qualche sciocchezza e faticavo parecchio a smettere. Cosa che poteva essere decisamente frustrante e imbarazzante, ma preferivo questo sfogo a quello che invece mi toccava più spesso: la crisi di pianto isterico in piena notte.
Impiegai tutta la mia forza di volontà per smettere di ridere, e quando finalmente ci riuscii mi asciugai gli occhi, dai quali erano sgorgate copiose le lacrime -alcune di ilarità, altre di nervoso."Molto divertente" sputò, astioso.
"Perdonami, non è per te" cercai di giustificarmi, un sorriso di scuse in volto. In effetti non era per niente per lui che ridevo. Era il mio folle bisogno di sfogarmi e ridere che aveva fatto tutto da solo, reagendo in conseguenza dei miei sconclusionati e confusi pensieri.
"Non che mi importi"
Lo trucidai con lo sguardo. La gentilezza non era proprio il suo forte. E dire che mi ero persino scusata! "Non che avessi intenzione di esporti le mie motivazioni" replicai, acida come una vecchia zitella di quelle che vivono da sole in enormi case dove ospitano solamente gatti. Una specie di Madama Pince in versione Babbana.
Mi maledii mentalmente per la mia dannata fissazione con Harry Potter.
Dean sbuffò e mi squadrò dall'alto del suo metro e ottantacinque, a occhio e croce.
Io lo fissai in cagnesco dal basso del mio metro e sessantuno. 
"Sembri Abraham in versione principessina dei nani"
"Come mi hai chiamata, scusa?" boccheggiai, indecisa se ridere o offendermi per quell'osservazione. Ero sempre stata piuttosto suscettibile riguardo alla mia altezza e al mio assomigliare ad una bambina.
"Piccola principessa dei nani?" ghignò. "Ti da fastidio?"
"Secondo te?" sbottai, incrociando le braccia, un' espressione degna del cipiglio severo della McGrannit. Ora basta seriamente, Pan!
"Sì" constatò, soddisfatto. "Buono a sapersi"
Non lo sopportavo già più. "Cosa hai detto che ci fai tu qui?"
Lui ghignò e si gettò a sedere sul letto che avevo appena finito di sistemare. "Ci abito"
"Non hai una casa tua?" non feci in tempo a mordermi la lingua, altrimenti avrei evitato quella frase. Poteva essere parecchio offensiva, specialmente se quel ragazzo non avesse avuto veramente un altro posto in cui stare. Mi era venuta d'impulso, vedendo quel tizio rovinare il lavoro che aveva occupato la mia ultima mezzora. Non ero portata per i lavori di casa, no. Non ero portata per quasi niente a dirla tutta, al di fuori della mia oziosa routine: lettura, musica, canto, litigi con Joshua, sopportazione delle imprecazioni di papà, mamma e George, chiacchierare con Emily e poi relax. 
Lui inarcò un sopracciglio. "Certo che ce l'ho. Tu non ce l'hai?"
"Ci sono dentro, no?"
Lui rise. "Ok, punto tuo. Lavoro per Abraham" spiegò.
"Ottimo. Ma questo non è direttamente proporzionale al fatto che tu sia seduto sul mio letto" replicai, fredda. 
Il vivi e lascia vivere non era una filosofia di vita che faceva per me. Quella era di Emily. Io ero più un tipo da occhio per occhio, dente per dente, non sempre, ma quando mi sentivo attaccata non c'era santo che tenesse, non potevo rimanere in silenzio e sopportare. Quando papà mi aveva cacciato di casa, avevo taciuto solo perché consapevole di essere caduta veramente in basso. Era stato un evento piuttosto raro, in effetti. Se l'avesse fatto mamma non avrei sopportato in silenzio.
"Sono in pausa"
"Sei in pausa sul letto che avevo appena fatto, allora"
"Tanto lo devi usare stasera"
"Ottimo. Quindi non rifarò il tuo, ora che so come la vedi. Un lavoro in meno"
Dean si alzò e varcò la soglia della mia stanza. Si tolse la maglia con un gesto fluido e la lanciò in mezzo al pavimento, per poi andare verso il baule ed estrarne una pulita. "Non ti ho chiesto di farlo" osservò, abbozzando un sorriso. Quando scorse il rossore che-maledetto- mi aveva pervaso le guance quello si trasformò in una vera e propria risata di scherno. "Ti sei scandalizzata per così poco?" mi prese in giro, infilandosi la t-shirt bianca.
Per quanto, dovevo ammetterlo a me stessa, quel ragazzo avesse un fisico da far sbavare la più rigida, fredda e insensibile ragazza del mondo, non avrei lasciato che si prendesse gioco di me in quel modo. A costo di mettermi in ridicolo da sola. Almeno sarei stata io -che ne avevo il permesso- a farlo. "Di certo non per così poco. Ho visto di meglio" dissi, senza alcuna inflessione della voce. Gli voltai le spalle e risistemai il lenzuolo che Dean aveva sgualcito, cercando di riprendermi. 
Visualizzando nuovamente nella mente -cosa che non avrei dovuto assolutamente fare- il fisico di Dean, osservai che era -sì- muscoloso, ma non esageratamente. Ironia della sorte: proprio il genere di muscolatura che piaceva a me. Forte, tonica, ma non troppo evidenziata. 
Sbuffai silenziosamente, mentre cacciavo quei pensieri dalla mia mente. 
"Dov'è mio nonno, a proposito?" mi voltai, cercandolo con lo sguardo, ma non c'era più. 
Uscii dalla mia stanza, incredula e diedi un' occhiata in bagno e nella stanza di Abraham, ma non era nemmeno lì.
Se ne era andato!
Sgattaiolai al piano di sotto e sentii armeggiare con delle bottiglie. Entrai in cucina e lo fulminai con lo sguardo. "L'educazione non deve essere il tuo forte. Io stavo parlando con te"
Lui si versò un bicchiere di latte e finse di dispiacersi, evidentemente divertito. "Oh, mi spiace!" esclamò. "E dire che pensavo fosse opportuno lasciarti sola con le tue fantasie. Non volevi un po' di privacy?"
Mi morsi la lingua per non essere volgare e insultarlo come facevo con mio fratello -l'unica persona con cui sfogassi tutta la mia riserva di sofisticati epiteti scurrili. Lui parve notare questo mio enorme sacrificio, perchè mi scoppiò a ridere in faccia prima di scolarsi il latte e mollare il bicchiere sul tavolo.
"Quando torna mio nonno?"
"Questa sera, quando è ora di chiudere le galline. Non vuole che lo faccia io"
"Non ha tutti i torti. Nemmeno io mi fido di te" sputai, conscia che fosse un commento totalmente fuori luogo.
"E' reciproco, principessa." mi sorrise, strafottente. Attraversò la stanza e si fermò sulla porta, a pochi passi da me, guardandomi dall'alto e facendomi sentire tremendamente piccola. "Ad ogni modo, è meglio che io torni al lavoro. Vedi di sbrigare qualche faccenda: Abraham non apprezza gli scansafatiche"
Sbuffai e annuii.
"A dopo, principessina degli gnomi" soffiò, uscendo a grandi passi dalla casa. 
Quando si fu chiuso la porta alle spalle, mi abbandonai ad un rumoroso gemito di frustrazione e feci una smorfia. Dopodichè decisi di rimboccarmi le maniche. Avrei fatto vedere a quello spaccone di che pasta era fatta la principessa degli gnomi. 

"...di gomma piuma!" sbuffai, frustrata, due ore dopo.
Ero finalmente riuscita a far partire quel catorcio che avevo osato definire una lavatrice.
Avevo messo ad asciugare tutti i panni del secchio lungo gli appositi fili che erano tesi nel cortile sul retro, ignorando i commenti acidi di Dean, che zappava la terra nell'orto lì accanto. 
Ero tornata dentro e avevo recuperato tutti i panni sporchi che avevo trovato sparsi per la stanza di mio nonno, di quella testa bacata e nel ripostiglio, e li avevo divisi secondo il lavaggio in diversi mucchi, cercando di non prestare attenzione ai pessimi odori che provenivano da quell'ammasso di stoffe che i due uomini avevano usato per lavorare. 
E ora avevo concluso il bucato. Finalmente.
Senza pensarci due volte me ne andai in camera mia, infilai gli auricolari nelle orecchie e mi gettai sul letto. Avevo bisogno di riposarmi un po'. Più tardi avrei dato un'occhiata a quei bellissimi libri giù in salone...

08 dicembre 2010

Cows and jeans. 3

Kameron era uscito nel cortile ed ero rimasta sola in casa. Si sentivano lui e Agatha armeggiare con qualcosa sul cassone del pickup. Probabilmente erano le cassette della verdura per il mercato di cui mi avevano parlato.
Decisi di iniziare il mio soggiorno in quel posto con un'esplorazione della casa, visto che non c'era nessuno lì a dirmi dove stare o non stare.
Continuavo a pensare che mio nonno fosse un vecchio irresponsabile: quale uomo abbandonerebbe a sè stessa una diciottenne di città in mezzo alla campagna e poi in una casa vuota di cui peraltro lasciava le chiavi sotto lo zerbino? Bè, ora capivo da chi aveva preso mio padre. E anche mio fratello. In fondo era colpa di quei due se ora mi ritrovavo in mezzo alla vecchia fattoria dello squilibrato Abraham Fletcher.
Respirai a fondo. Sarei dovuta ricorrere di nuovo al manuale di sopravvivenza. Due volte nel giro di... secondo l'orologio del mio cellulare solo due ore. Ma per quanto mi riguardava in quel luogo il tempo avrebbe anche potuto scorrere al contrario, non me ne sarei stupita, a quel punto.
"Inspira, espira. Ce la puoi fare, Pan." sussurrai, conscia di sembrare una stupida. Ma tanto ero in una casa socnosciuta e vuota, no? Chi poteva vedermi?
Deglutii. Con la fortuna che mi ritrovavo era pure infestata dai fantasmi.
Sbuffai, rendendomi conto delle assurdità che mi frullavano nella testa, e mi decisi a riaffidarmi al Manuale di Sopravvivenza.
Regola numero tre, trovare almeno tre fattori favorevoli nella situazione. 
...potevo riciclare quelli di prima?
Ridacchiai tra me e mi avventurai all'interno, alla ricerca dei miei amici elementi positivi. Lasciai i bagagli a terra e oltrepassai la prima porta a destra. Oh!
Punto positivo primo: nella cucina c'erano tutti gli elettrodomestici essenziali e persino un televisore non troppo antiquato. Sospirai di sollievo.
Il secondo non fu difficile da trovare: il frigorifero era pieno e persino funzionante.
Ok, tutto ciò era decisamente buono. Dopo la vernice scrostata al di fuori della casa e le chiavi sotto lo zerbino malandato mi ero aspettata topi che uscivano dalle credenze, un televisore ante-guerra e un frigorifero assolutamente sgombero se non per un paio di lattine di birra e degli avanzi di insalata appassita. 
E invece no! Formaggi, latte, burro, verdura, acqua in bottiglia, bistecche e persino un contenitore con del pesce.
Aprii uno sportello e trovai un sacchetto pieno di pane. Fresco, a giudicare dal profumo.
In mezzo alla tavola da quattro posti un cestino di frutta dall'aspetto invitante.
Curiosai nei vari scaffali in legno e trovai tutto l'occorrente per cucinare, e in più spezie, un sacchetto di caffè da macinare, diversi infusi per il tè, ciotole, contenitori, bicchieri. Passai ai cassetti sul piano da lavoro e trovai tovaglie, posate, tappi di sughero e qualche altro oggetto. Sotto il lavandino c'erano i detersivi e un capiente secchio pieno di stracci. Dietro la porta persino un'aspirapolvere. 
Ok, il tutto non era poi così male. Senza contare poi che data l'assenza del nonno avevo probabilmente tutto il tempo per sistemarmi ed esplorare la casa in tranquillità.
Finalmente le cose sembravano andare per il verso giusto.
Scostai le tende lasciando entrare la luce del sole nella stanza.
Guardai fuori.
La finestra si affacciava sul lato destro della casa. Fuori si estendevano prati e campi fino all'orizzonte, una casa qua e là. Il paesaggio era rilassante, certo, ma per una che come me era cresciuta tra mura di altissimi palazzi fatti di vetro, acciaio e cemento, era anche un po' strano. Vedere la vastità di tutto ciò mi dava un senso di claustrofobia al contrario. Come se fossi completamente allo scoperto, in un posto in cui non c'erano nascondigli. Mi sentivo piccola, ecco. Piccola e fuori luogo.
Sospirai e tornai in corridoio, sperando di ambientarmi presto in quel luogo.
Passai alla stanza di fronte. 
Un divano verde cupo, un largo tappeto tarlato, una poltrona di pelle color legno e un'enorme libreria piena di volumi polverosi che mi attiravano come una calamita. Decisi che una volta sistematami, quelli sarebbero stati la prima cosa di cui occuparsi. Alla sinistra della porta c'era un tavolo di mogano circondato da sei eleganti sedie coperte da cuscini rossi. Su di un mobile un'antica radio che mi fece venire in mente quella di cui cantava Freddie Mercury in "Radio gaga", con la sua luce che irradiava le giornate adolescenziali e regalava notizie al cantante. Ero molto affascinata da tutto ciò. I mobili sembravano sussurrare una vita di ricordi ed emozioni.
Mi costrinsi a lasciare la stanza e mi recai in quella accanto: il bagno. Un piccolo bagno fornito solo dei sanitari essenziali -wc e lavandino- più una vecchia lavatrice. Aprii l'oblò e mi corressi: una vecchia lavatrice piena di panni da asciugare e stirare. Un secchio poggiato in terra attendeva di essere riempito con la biancheria pulita.
Sospirai di nuovo. Avrei fatto anche quello, quindi.
Dopo il piccolo gabinetto vi erano delle scale di legno che portavano al piano superiore. Le salii con riluttanza tenendomi stretta al corrimano. Mi aspettavo che si sfondassero da un momento all'altro, in effetti. Tuttavia il mio pessimismo risultò superfluo.
Aprii la porta che dava sul secondo piano e mi trovai in una stanza da letto decisamente spoglia: un divano-letto in mezzo al pavimento, dei vestiti gettati sulle coperte sgualcite e alcuni in terra in mezzo alla polvere. Persino della biancheria -non ebbi voglia di verificarne la pulizia- su di un vecchio baule aperto, pieno di abiti spiegazzati e messi alla rinfusa.
A destra una porta aperta che mostrava un bagno molto più accogliente di quello al piano inferiore, fornito di vasca, bidè e anche doccia. (In uno troppo, nell'altro niente, insomma).
Dalla parte opposta c'erano altre due porte che scoprii nascondere due stanze da letto identiche nella loro semplicità, tranne per il fatto che nella prima c'era un letto matrimoniale rifatto frettolosamente e un libro sul comodino, mentre nella seconda un letto singolo, sul cui materasso erano piegate le lenzuola pulite. 
Evidentemente il nonno non era poi così sprovedduto: mi aveva preparato le lenzuola. 
Dopo una capatina al bagno, decisi di rimandare l'esplorazione della libreria del vecchio, e mi dedicai invece a portare le valigie nella mia camera e a preparare quello che sarebbe stato il mio letto per un bel po' di tempo. 
La mia mente bacata non si era chiesta nemmeno lontanamente perchè ci fossero ben tre letti, due dei quali sfatti. La verità era che ero troppo occupata a sistemarmi in modo da sentirmi a casa per notare altro che non fosse quell'unico gesto di consapevolezza del mio arrivo lasciato dal nonno: le lenzuola pulite sul materasso. Mi stavo aggrappando a quell'unico gesto come se fosse l'unica cosa a non farmi sprofondare nel pavimento polveroso. Ed era normale: mi era stato strappato tutto ciò che avevo e mi avevano spedita come un pacco postale in luogo che non conoscevo, da un vecchio parente che avevo visto solo in foto, il quale sembrava non sapere nemmeno che sarei arrivata. La mia politica per sopravvivere mi impediva di sfogarmi piangendo, sperando di riuscire a diventare più forte. Tuttavia la malinconia si faceva sentire nonostante i miei tentativi di trovare un lato positivo in tutto. 
Inoltre la mia mente romantica si stava chiedendo se quella non fosse stata un tempo la stanza di mio padre, quella in cui aveva dormito da bambino, in cui aveva giocato e in cui si era sfogato prendendo a calci tutto quanto o piangendo come se non ci fosse stato un domani. 
Avevo l'mp3 nelle orecchie e stavo sistemando il cuscino dentro la federa, canticchiavo. Ripiegai il lenzuolo in un bel risvolto e sospirai. Uno dei lavori era concluso. I vestiti li avrei messi nell'armadio con comodo, ora mi attendevano quelli sporchi nel bagno al piano di sotto.
Freddie Mercury cantava dentro gli auricolari. Andai a scostare le tende alla finestra e mi incantai nuovamente ad osservare fuori. Non sapevo cosa pensare. 
Don't stop me now
I'm having such a good time 
I'm having a ball 
Il senso di smarrimento continuava a pervadermi ogni volta che mi rendevo conto di essere in mezzo al nulla. 
Don't stop me now 
If you wanna have a good time just give me a call 
Sospirai per l'ennesima volta da quando ero arrivata in quel posto. Mi sembrava di essere diventata una locomotiva. Il trenino Thomas, ecco. Quello che guardava Joshua da piccolo su PlayHouseDisney. Bè, lo guardavo anche io, in effetti. Ma non mi era mai piaciuto.
Erano sempre andate così le cose. Joshua decideva, il mondo si piegava al suo volere. Nemmeno fosse Dio in terra. Feci una smorfia e ascoltai le parole del cantante...
Don't stop me now ('Cause I'm having a good time) 
Don't stop me now (Yes I'm havin' a good time)
I don't want to stop at all 
...poi mi voltai per andare di sotto, rincuorata un po' dalla carica che mi dava la canzone.
Gridai di spavento, mentre gli auricolari mi venivano strappati per la seconda volta in quella mattina: un ragazzo alto e biondo mi fissava in cagnesco. "Che diavolo ci fai qui?" mi chiese, burbero. No, mi correggo: incazzato. Era proprio incazzato.
E la cosa mi diede sui nervi. Io ero in casa mia! O almeno, in quella che presto lo sarebbe stata. "Cosa diavolo ci fai TU, qui? Questa è casa di mio nonno!"
"Io qui ci vivo!" sbuffò lui, lanciando il MIO mp3 sul letto, con noncuranza. Quel tipo mi dava già sui nervi. 
Fissai il ragazzo in cagnesco per qualche istante. "Bè, anche io!" 
"Che diamine dici?" domandò, irritato. Io lo fulminai con lo sguardo, mentre iniziava a misurare la stanza a grandi passi. Prima che potessi rispondere si bloccò di colpo e si voltò fissandomi con astio. "Sei la nipote."
"Cacchio, sei acuto." Gli avevo appena detto che Abraham era mio nonno. "Vuoi una medaglia?"
Lui fece una smorfia e finse di ridere della mia battuta. "Simpatica. Sei proprio una principessina di città." sputò quelle parole come un insulto. 
Mi sforzai di non mettermi a sbraitare. Tutta quella situazione, dalle pecore a quel tizio pieno di sé. "E tu, di grazia, chi sei?" cercai di rimanere tranquilla, con scarsi risultati. L'irritazione trasudava dal mio tono di voce, me ne rendevo conto persino io. 
"Dean" si limitò a rispondere, sbuffando.
Thomas. Il trenino Thomas. Ritiravo tutti i pensieri di poco prima: decisamente era LUI il trenino Tom. Sbuffava e mi irritava. Io ero una delle povere locomotive che dovevano sorbirselo, probabilmente.
Dean. 
Thomas. 
Dean Thomas!
E inevitabilmente, come una perfetta cretina, gli scoppiai a ridere in faccia.