15
Quando tornammo a casa Lucas, ovviamente, la trovammo dannatamente, totalmente vuota.
Preferisco glissare sullo stato d’animo che mi pervase quando scoprii dell’assenza di Johnny. Quella stupida, piccola canaglia era sparita.
Avrei dovuto aspettarmelo, conoscendolo, ma ero così stupida che continuavo a dare fiducia a tutti –una volta presa confidenza-, lui compreso. Avrei dovuto prendere ripetizioni di diffidenza. Intanto però la cosa che mi premeva di più era ritrovare quello stupido ragazzino, contenere l’imminente attacco di panico e riprendere il controllo della situazione. O meglio conquistarlo, perché effettivamente non l’avevo mai avuto.
“Okay, bambini, Johnny vuole giocare a nascondino!” esclamai, in una terribile imitazione di entusiasmo. “Vediamo chi lo trova per primo?” proposi, battendo le mani.
I gemelli gridarono la loro approvazione e corsero verso la porta. In qualche modo riuscii a raggiungerla prima di loro ed evitare che uscissero. “In casa, però!” sottolineai. “Se qualcuno esce non guarda il film, e starà in castigo tutto il pomeriggio”. I bambini protestarono, ma poi annuirono, sconfitti dal mio temibile sguardo severo alla Minerva McGrannit. “Il primo che lo trova, strilli!”
E fu così che iniziò la caccia al Poltergeist.
Setacciammo la casa da cima a fondo, mentre l’ansia causata dalla perdita di uno dei bambini cresceva sempre di più.
Avevamo controllato almeno tre volte ogni stanza, per essere sicuri di aver guardato in tutti i posti in cui avrebbe potuto nascondersi. E anche perché era probabile che ai gemelli qualche stanza non fosse piaciuta e quindi fossero passati oltre senza nemmeno entrare. Alla fine ci ritrovammo tutti e cinque davanti alla porta dello scantinato. Come tutti i bambini che si rispettavano, anche quei quattro avevano il terrore di quell’ambiente umido e tendenzialmente buio.
“Dite che è là sotto?” domandò Robin, preoccupato come se stessimo parlando della tana di un orso appena uscito dal letargo e quindi a digiuno da mesi. Dondolava sui talloni, fissando la scala che scendeva al buio.
I gemelli si erano nascosti dietro di lui, per stare fuori dalla portata dell’oscurità. Oscurità non poi così oscura, visto che era quasi mezzogiorno, ma dovevo ammettere che inquietava anche me l’idea di scendere là sotto.
“Può essere, sì” confermai. Era probabile, anzi. Quale nascondiglio migliore che l’unico posto cui tutti i suoi fratelli non si azzardavano ad avvicinarsi? “Bene, andiamo” li spronai, facendo un passo avanti. La mia speranza era schizzata alle stelle quando avevo realizzato che quasi sicuramente Johnny era là sotto.
“No!” guairono ad una sola voce.
Mi voltai a guardarli. “Sentite, non posso andarci da sola: non so nemmeno dov’è l’interruttore della luce!”
“In fondo alle scale a destra, sul muro”.
Molto simpatico, Rob. …Codardo! “Oh, avanti! Di che avete paura?”
Non potevano mandarmi da sola. Sì, avevo paura anche io, dall’alto dei miei diciotto anni, lo ammetto. Ma io ci sarei andata in cantina. Costi quel che costi, e voi verrete con me!.
“Ci sono i mostri” spiegò semplicemente Beth.
Oh, giusto. I mostri. Bè, loro almeno avevano un valido motivo per avere paura.
“Sono sicura che non ci sia nulla di cui avere paura, là sotto” tentai di convincerli.
“Come lo sai?”
Ci pensai su qualche istante, e decisi che una volta tanto la mia anima potteriana sarebbe forse servita a qualcosa. “Hey, ho letto tutti i libri di Harry Potter almeno tre volte, più ‘Animali Fantastici – Dove trovarli’! Se non sono esperta io, di mostri, chi lo è?”
A quella risposta i gemelli parvero molto convinti. Se avevo letto il libro di Harry Potter sui mostri sicuramente sapevo tutto di loro, no? Lui era un mago! Robin invece era ancora piuttosto diffidente. A quel punto non potei non domandarmi come potesse credere nell’esistenza dei mostri e non nella mia esperienza in materia.
“E se c’è un vampiro?” domandò, chiarendo i miei dubbi su quali fossero i suoi.
Risi. “Ho letto anche Dracula, tranquillo. Ora andiamo? Non possiamo perdere questa partita a nascondino!” e per incoraggiarli iniziai a scendere i gradini.
Sentii presto i passi incerti dei bambini che mi seguivano, spaventati. “Pan…” sussurrò una delle bambine, attaccandosi alla mia maglia.
Non potevo terrorizzarli a quel modo. Dovevo fare qualcosa. “Andrà tutto bene, te l’assicuro. Ecco” allungai la mano a tastare la parete, alla ricerca dell’interruttore. Trovatolo spinsi il pulsante e attivai l’unica lampadina, che si accese di una luce fioca e intermittente. “così vedrete che non c’è nulla di cui avere paura”.
Quella cantina dava i brividi, effettivamente. Ma probabilmente la colpa era della luce che proiettava ombre evanescenti e sinistre lungo le pareti e sul pavimento.
Sentii qualcosa camminare in mezzo agli scatoloni pieni di chissà cosa e mi trattenni dal gridare solo per non spaventare i bambini, al contrario loro che scoppiarono all’unisono in uno strillo raccapricciante che mi fece accapponare la pelle. Rabbrividii, cercando di non darlo a vedere e attesi che smettessero di urlare. “Avete visto qualche mostro?” mi informai, lievemente stizzita.
Robin scosse il capo, mentre gli altri tre annuirono. “Ne è passato uno là sotto, l’ho sentito” mi rivelò Thom.
Io annuii, cercando di essere comprensiva. Poi improvvisamente mi venne in mente una scena della mia infanzia e seppi cosa fare. “Ora, mentre cerchiamo Johnny, vi racconto una cosa. Quando ero piccolo avevo una gran paura del capanno degli attrezzi di nonno Abe.”
“Nonno Abe? Il nonno non si chiama Abe, si chiama Thom, …come Thommy!” ridacchiò Betty, ancora strettamente aggrappata alla mia maglietta. Sorrisi, divertita. “Sì, ma il mio nonno si chiama Abe” spiegai. “Dicevo: Abe mi mandava sempre nel capanno a prendere i suoi attrezzi e io avevo una gran paura. Quindi mi facevo accompagnare mia nonna. Poi lei, un giorno, mi svelò il modo migliore per sconfiggere la paura e i mostri. Anche meglio degli incantesimi, funziona sempre” confidai loro, sorridendo nostalgica. I ricordi legati a mia nonna erano sempre dolci. Poteva una donna lasciare ai posteri solo ricordi positivi? Era meravigliosa, non poteva essere altrimenti.
“E qual è?”
“Cantare”.
“Cantare?” ripeterono, poco convinti.
“Cantare! Proviamo? Scommetto che funziona!”
Questa volta anziché sciocche sigle di cartoni animati intonai la più comune e rassicurante ‘Bella stella dimmi tu’. Loro mi guardavano, in silenzio. “Dovete cantare con me, o non funziona” suggerii, ricominciando. Questa volta i bambini si affrettarono ad imitarmi e ben presto anche Robin si unì allo sgangherato coro.
Con questa nuova magia in atto, setacciammo tutto lo scantinato senza trovare la minima traccia di quel perfido ragazzino chiamato Johnny. Quando tornammo in superficie decisi che era il caso di cercare nel giardino, ma ovviamente nemmeno lì lo trovammo. Ero arrivata ad un punto tale che mi pulsavano le tempie e rischiavo di scoppiare a piangere da un momento all’altro. Per il dolore fisico e per l’agitazione che rischiava di farmi capitolare da un momento all’altro. Non dovevo gettarmi nello sconforto sarebbe stato inutile.
Mentre i bambini controllavano per la quarta volta il porcile –avevano una sorta di ossessione per Piper, la scrofa- ripassai il Manuale di sopravvivenza. Mi fermai, respirai a fondo e mi sforzai di calmarmi. Poi iniziai a pensare ad eventuali lati positivi nella situazione. Fu un parto trovarli mentre la mia mente ripeteva in continuazione ‘ti licenziano, ti licenziano, ti licenziano’. Il primo che riuscii a scovare sotto quella coltre di pessimismo fu che, per lo meno, i bambini stavano collaborando tra loro e soprattutto con me. Il secondo, forse, si poteva considerare il fatto che questa sottospecie di partita a nascondino aveva occupato i pensieri dei bambini abbastanza da far sì che non si lagnassero per l’eternità di tempo che ci stava mettendo Terrence ad arrivare. Il terzo era che …
‘Ti licenziano, ti licenziano, ti licenziano!’
Forse era che…
‘Ti licenziano, ti licenziano, ti licenziano!’
Oh, ce ne doveva pur essere un terzo!
‘Ti licenziano, ti licenziano, ti licenziano!’
E va bene, dannazione, mi licenziano!
Il terzo era che mi avrebbero licenziata e se non altro non avrei più dovuto avere nulla a che fare quella carogna di Johnny, che mi stava rendendo la vita uno schifosissimo inferno!
Era giunto il momento di mettere in moto il cervello e trovare una soluzione, ma i lati positivi non erano positivi manco per niente e … stavo impazzendo.
Avevo perso un bambino! Ne avevo altri quattro a cui dar da mangiare e da badare e allo stesso tempo avrei dovuto cercare Johnny in giro per Sperdutolandia!
Odiavo quel posto, odiavo quel ragazzino, odiavo la mia propensione a cacciarmi nei guai!
“Che cosa faccio, ora?” sbuffai, nel panico. “Cosa, cosa, COSA?!” mi lasciai cadere seduta per terra, nella ghiaia. Decisi che il modo migliore di comportarmi sarebbe stato sprofondare nello sconforto. Tanto che potevo fare? Nulla. Ancora non ero in grado di replicarmi e poter fare tutto da sola!
Sì, okay, potevo chiedere aiuto a qualcuno. Ma come? Avrei dovuto portarmi dietro tutta la banda, che tra l’altro si sarebbe accorta da un momento del concerto degli stomaci affamati sicuramente già in atto.
Inoltre, secondo dopo secondo, perdevo tempo. Quello scemo di un ragazzino irriverente poteva essersi cacciato in un mare di guai, poteva essersi fatto male, poteva essere stato morso da un serpente, punto da una vespa o da uno scorpione o …
“Pan, ti sei fatta male?” domandò la voce incerta di Robin, appena uscito dal porcile.
Lo guardai e abbozzai un sorriso tirato. “No, sto bene. Ho solo paura”.
“Di cosa?”
Sospirai, sforzandomi di alzarmi in piedi. Lo raggiunsi e mi affacciai alla porta del porcile per controllare che i bambini non combinassero altri guai. “Di tante cose. Johnny non ha fatto un bello scherzo. E’ scappato ed è una cosa che non si deve mai fare, è pericoloso. Potrebbe essersi fatto male e non riuscire più a tornare a casa”.
“Johnny è forte”.
“Può darsi. Ma ha fatto una cosa molto sciocca. Se si fosse perso?”
“Non si perde mai, lui conosce tutti i posti”.
In un altro momento avrei sorriso della stima che provava verso il fratello, ma ero troppo tesa per riuscirci. “Ho paura che mi licenzieranno” ammisi con un sospiro. Era egoistico da parte mia pensare al lavoro, quando quel ragazzino avrebbe anche potuto essere immerso nei guai fino al collo, ma effettivamente se l’era meritato comportandosi in quel modo sconsiderato. Se una volta tanto mi avesse dato retta non sarebbe successo nulla. Ed ero troppo arrabbiato con lui per rendermi conto che comunque ero terrorizzata all’idea che potesse essergli successo qualcosa.
“Canta, allora”.
Guardai Robin, sorpresa. “Come?”
“Canta. Avevi ragione, noi non avevamo più paura in cantina” rispose, semplicemente.
Lo osservai per un po’ e sorrisi. Poi il sorriso si trasformò in un vero e proprio riso. E allora risi come una matta, tanto che piansi. Lacrime dovute alle risate, lacrime dovute alla tensione e al nervosismo. Una risata isterica, si potrebbe pensare, ma non lo era. Era spontanea, liberatoria,vera. Ridere di cuore più di così era impossibile.
Fu grazie a quella risata che trovai la forza di trascinare i bambini in cucina e preparare loro da mangiare. Mentre attraversammo l’aia notai l’assenza della motoretta e mi allarmai. Poi però mi ricordai di una delle abitudini di Sperdutolandia che non riuscivo proprio a metabolizzare: la totale e cieca fiducia nel prossimo. Nell’entusiasmo per l’arrivo del pacco di George, avevo dimenticato di togliere le chiavi dal ciao. Evidentemente Terrence era passato e l’aveva preso su senza chiedere. Sperdutolandia voleva insegnarmi a donare fiducia al prossimo, okay, ma questo comportamento era un po’ esagerato. Avvisare, almeno.
E se … ODDIO! E se invece l’aveva presa Johnny?!
Per poco non mi venne un malore a quel pensiero. E se aveva preso il motore e aveva avuto un incidente? Quel ragazzino l’avrebbe pagata, dannazione! Mi doveva uno stomaco nuovo, perché il mio si stava sfondando a forza di colpi di ansia e preoccupazione!
Preferisco glissare sullo stato d’animo che mi pervase quando scoprii dell’assenza di Johnny. Quella stupida, piccola canaglia era sparita.
Avrei dovuto aspettarmelo, conoscendolo, ma ero così stupida che continuavo a dare fiducia a tutti –una volta presa confidenza-, lui compreso. Avrei dovuto prendere ripetizioni di diffidenza. Intanto però la cosa che mi premeva di più era ritrovare quello stupido ragazzino, contenere l’imminente attacco di panico e riprendere il controllo della situazione. O meglio conquistarlo, perché effettivamente non l’avevo mai avuto.
“Okay, bambini, Johnny vuole giocare a nascondino!” esclamai, in una terribile imitazione di entusiasmo. “Vediamo chi lo trova per primo?” proposi, battendo le mani.
I gemelli gridarono la loro approvazione e corsero verso la porta. In qualche modo riuscii a raggiungerla prima di loro ed evitare che uscissero. “In casa, però!” sottolineai. “Se qualcuno esce non guarda il film, e starà in castigo tutto il pomeriggio”. I bambini protestarono, ma poi annuirono, sconfitti dal mio temibile sguardo severo alla Minerva McGrannit. “Il primo che lo trova, strilli!”
E fu così che iniziò la caccia al Poltergeist.
Setacciammo la casa da cima a fondo, mentre l’ansia causata dalla perdita di uno dei bambini cresceva sempre di più.
Avevamo controllato almeno tre volte ogni stanza, per essere sicuri di aver guardato in tutti i posti in cui avrebbe potuto nascondersi. E anche perché era probabile che ai gemelli qualche stanza non fosse piaciuta e quindi fossero passati oltre senza nemmeno entrare. Alla fine ci ritrovammo tutti e cinque davanti alla porta dello scantinato. Come tutti i bambini che si rispettavano, anche quei quattro avevano il terrore di quell’ambiente umido e tendenzialmente buio.
“Dite che è là sotto?” domandò Robin, preoccupato come se stessimo parlando della tana di un orso appena uscito dal letargo e quindi a digiuno da mesi. Dondolava sui talloni, fissando la scala che scendeva al buio.
I gemelli si erano nascosti dietro di lui, per stare fuori dalla portata dell’oscurità. Oscurità non poi così oscura, visto che era quasi mezzogiorno, ma dovevo ammettere che inquietava anche me l’idea di scendere là sotto.
“Può essere, sì” confermai. Era probabile, anzi. Quale nascondiglio migliore che l’unico posto cui tutti i suoi fratelli non si azzardavano ad avvicinarsi? “Bene, andiamo” li spronai, facendo un passo avanti. La mia speranza era schizzata alle stelle quando avevo realizzato che quasi sicuramente Johnny era là sotto.
“No!” guairono ad una sola voce.
Mi voltai a guardarli. “Sentite, non posso andarci da sola: non so nemmeno dov’è l’interruttore della luce!”
“In fondo alle scale a destra, sul muro”.
Molto simpatico, Rob. …Codardo! “Oh, avanti! Di che avete paura?”
Non potevano mandarmi da sola. Sì, avevo paura anche io, dall’alto dei miei diciotto anni, lo ammetto. Ma io ci sarei andata in cantina. Costi quel che costi, e voi verrete con me!.
“Ci sono i mostri” spiegò semplicemente Beth.
Oh, giusto. I mostri. Bè, loro almeno avevano un valido motivo per avere paura.
“Sono sicura che non ci sia nulla di cui avere paura, là sotto” tentai di convincerli.
“Come lo sai?”
Ci pensai su qualche istante, e decisi che una volta tanto la mia anima potteriana sarebbe forse servita a qualcosa. “Hey, ho letto tutti i libri di Harry Potter almeno tre volte, più ‘Animali Fantastici – Dove trovarli’! Se non sono esperta io, di mostri, chi lo è?”
A quella risposta i gemelli parvero molto convinti. Se avevo letto il libro di Harry Potter sui mostri sicuramente sapevo tutto di loro, no? Lui era un mago! Robin invece era ancora piuttosto diffidente. A quel punto non potei non domandarmi come potesse credere nell’esistenza dei mostri e non nella mia esperienza in materia.
“E se c’è un vampiro?” domandò, chiarendo i miei dubbi su quali fossero i suoi.
Risi. “Ho letto anche Dracula, tranquillo. Ora andiamo? Non possiamo perdere questa partita a nascondino!” e per incoraggiarli iniziai a scendere i gradini.
Sentii presto i passi incerti dei bambini che mi seguivano, spaventati. “Pan…” sussurrò una delle bambine, attaccandosi alla mia maglia.
Non potevo terrorizzarli a quel modo. Dovevo fare qualcosa. “Andrà tutto bene, te l’assicuro. Ecco” allungai la mano a tastare la parete, alla ricerca dell’interruttore. Trovatolo spinsi il pulsante e attivai l’unica lampadina, che si accese di una luce fioca e intermittente. “così vedrete che non c’è nulla di cui avere paura”.
Quella cantina dava i brividi, effettivamente. Ma probabilmente la colpa era della luce che proiettava ombre evanescenti e sinistre lungo le pareti e sul pavimento.
Sentii qualcosa camminare in mezzo agli scatoloni pieni di chissà cosa e mi trattenni dal gridare solo per non spaventare i bambini, al contrario loro che scoppiarono all’unisono in uno strillo raccapricciante che mi fece accapponare la pelle. Rabbrividii, cercando di non darlo a vedere e attesi che smettessero di urlare. “Avete visto qualche mostro?” mi informai, lievemente stizzita.
Robin scosse il capo, mentre gli altri tre annuirono. “Ne è passato uno là sotto, l’ho sentito” mi rivelò Thom.
Io annuii, cercando di essere comprensiva. Poi improvvisamente mi venne in mente una scena della mia infanzia e seppi cosa fare. “Ora, mentre cerchiamo Johnny, vi racconto una cosa. Quando ero piccolo avevo una gran paura del capanno degli attrezzi di nonno Abe.”
“Nonno Abe? Il nonno non si chiama Abe, si chiama Thom, …come Thommy!” ridacchiò Betty, ancora strettamente aggrappata alla mia maglietta. Sorrisi, divertita. “Sì, ma il mio nonno si chiama Abe” spiegai. “Dicevo: Abe mi mandava sempre nel capanno a prendere i suoi attrezzi e io avevo una gran paura. Quindi mi facevo accompagnare mia nonna. Poi lei, un giorno, mi svelò il modo migliore per sconfiggere la paura e i mostri. Anche meglio degli incantesimi, funziona sempre” confidai loro, sorridendo nostalgica. I ricordi legati a mia nonna erano sempre dolci. Poteva una donna lasciare ai posteri solo ricordi positivi? Era meravigliosa, non poteva essere altrimenti.
“E qual è?”
“Cantare”.
“Cantare?” ripeterono, poco convinti.
“Cantare! Proviamo? Scommetto che funziona!”
Questa volta anziché sciocche sigle di cartoni animati intonai la più comune e rassicurante ‘Bella stella dimmi tu’. Loro mi guardavano, in silenzio. “Dovete cantare con me, o non funziona” suggerii, ricominciando. Questa volta i bambini si affrettarono ad imitarmi e ben presto anche Robin si unì allo sgangherato coro.
Con questa nuova magia in atto, setacciammo tutto lo scantinato senza trovare la minima traccia di quel perfido ragazzino chiamato Johnny. Quando tornammo in superficie decisi che era il caso di cercare nel giardino, ma ovviamente nemmeno lì lo trovammo. Ero arrivata ad un punto tale che mi pulsavano le tempie e rischiavo di scoppiare a piangere da un momento all’altro. Per il dolore fisico e per l’agitazione che rischiava di farmi capitolare da un momento all’altro. Non dovevo gettarmi nello sconforto sarebbe stato inutile.
Mentre i bambini controllavano per la quarta volta il porcile –avevano una sorta di ossessione per Piper, la scrofa- ripassai il Manuale di sopravvivenza. Mi fermai, respirai a fondo e mi sforzai di calmarmi. Poi iniziai a pensare ad eventuali lati positivi nella situazione. Fu un parto trovarli mentre la mia mente ripeteva in continuazione ‘ti licenziano, ti licenziano, ti licenziano’. Il primo che riuscii a scovare sotto quella coltre di pessimismo fu che, per lo meno, i bambini stavano collaborando tra loro e soprattutto con me. Il secondo, forse, si poteva considerare il fatto che questa sottospecie di partita a nascondino aveva occupato i pensieri dei bambini abbastanza da far sì che non si lagnassero per l’eternità di tempo che ci stava mettendo Terrence ad arrivare. Il terzo era che …
‘Ti licenziano, ti licenziano, ti licenziano!’
Forse era che…
‘Ti licenziano, ti licenziano, ti licenziano!’
Oh, ce ne doveva pur essere un terzo!
‘Ti licenziano, ti licenziano, ti licenziano!’
E va bene, dannazione, mi licenziano!
Il terzo era che mi avrebbero licenziata e se non altro non avrei più dovuto avere nulla a che fare quella carogna di Johnny, che mi stava rendendo la vita uno schifosissimo inferno!
Era giunto il momento di mettere in moto il cervello e trovare una soluzione, ma i lati positivi non erano positivi manco per niente e … stavo impazzendo.
Avevo perso un bambino! Ne avevo altri quattro a cui dar da mangiare e da badare e allo stesso tempo avrei dovuto cercare Johnny in giro per Sperdutolandia!
Odiavo quel posto, odiavo quel ragazzino, odiavo la mia propensione a cacciarmi nei guai!
“Che cosa faccio, ora?” sbuffai, nel panico. “Cosa, cosa, COSA?!” mi lasciai cadere seduta per terra, nella ghiaia. Decisi che il modo migliore di comportarmi sarebbe stato sprofondare nello sconforto. Tanto che potevo fare? Nulla. Ancora non ero in grado di replicarmi e poter fare tutto da sola!
Sì, okay, potevo chiedere aiuto a qualcuno. Ma come? Avrei dovuto portarmi dietro tutta la banda, che tra l’altro si sarebbe accorta da un momento del concerto degli stomaci affamati sicuramente già in atto.
Inoltre, secondo dopo secondo, perdevo tempo. Quello scemo di un ragazzino irriverente poteva essersi cacciato in un mare di guai, poteva essersi fatto male, poteva essere stato morso da un serpente, punto da una vespa o da uno scorpione o …
“Pan, ti sei fatta male?” domandò la voce incerta di Robin, appena uscito dal porcile.
Lo guardai e abbozzai un sorriso tirato. “No, sto bene. Ho solo paura”.
“Di cosa?”
Sospirai, sforzandomi di alzarmi in piedi. Lo raggiunsi e mi affacciai alla porta del porcile per controllare che i bambini non combinassero altri guai. “Di tante cose. Johnny non ha fatto un bello scherzo. E’ scappato ed è una cosa che non si deve mai fare, è pericoloso. Potrebbe essersi fatto male e non riuscire più a tornare a casa”.
“Johnny è forte”.
“Può darsi. Ma ha fatto una cosa molto sciocca. Se si fosse perso?”
“Non si perde mai, lui conosce tutti i posti”.
In un altro momento avrei sorriso della stima che provava verso il fratello, ma ero troppo tesa per riuscirci. “Ho paura che mi licenzieranno” ammisi con un sospiro. Era egoistico da parte mia pensare al lavoro, quando quel ragazzino avrebbe anche potuto essere immerso nei guai fino al collo, ma effettivamente se l’era meritato comportandosi in quel modo sconsiderato. Se una volta tanto mi avesse dato retta non sarebbe successo nulla. Ed ero troppo arrabbiato con lui per rendermi conto che comunque ero terrorizzata all’idea che potesse essergli successo qualcosa.
“Canta, allora”.
Guardai Robin, sorpresa. “Come?”
“Canta. Avevi ragione, noi non avevamo più paura in cantina” rispose, semplicemente.
Lo osservai per un po’ e sorrisi. Poi il sorriso si trasformò in un vero e proprio riso. E allora risi come una matta, tanto che piansi. Lacrime dovute alle risate, lacrime dovute alla tensione e al nervosismo. Una risata isterica, si potrebbe pensare, ma non lo era. Era spontanea, liberatoria,vera. Ridere di cuore più di così era impossibile.
Fu grazie a quella risata che trovai la forza di trascinare i bambini in cucina e preparare loro da mangiare. Mentre attraversammo l’aia notai l’assenza della motoretta e mi allarmai. Poi però mi ricordai di una delle abitudini di Sperdutolandia che non riuscivo proprio a metabolizzare: la totale e cieca fiducia nel prossimo. Nell’entusiasmo per l’arrivo del pacco di George, avevo dimenticato di togliere le chiavi dal ciao. Evidentemente Terrence era passato e l’aveva preso su senza chiedere. Sperdutolandia voleva insegnarmi a donare fiducia al prossimo, okay, ma questo comportamento era un po’ esagerato. Avvisare, almeno.
E se … ODDIO! E se invece l’aveva presa Johnny?!
Per poco non mi venne un malore a quel pensiero. E se aveva preso il motore e aveva avuto un incidente? Quel ragazzino l’avrebbe pagata, dannazione! Mi doveva uno stomaco nuovo, perché il mio si stava sfondando a forza di colpi di ansia e preoccupazione!
Quella fu sicuramente una delle giornate peggiori della mia vita. O per lo meno fino a quel punto della mia vita. Seconda solo a quando mi era stato presentato George come ‘il mio futuro papà’. (Sì, non era stata una grande idea usare quelle parole, considerato che già a quel tempo ero terribilmente arrabbiata con mia madre per aver lasciato mio padre).
“Sei una catastrofe, lasciatelo dire!”
Mi voltai a lanciare a Dean un’occhiataccia. “Anche se non te lo lasciassi dire lo diresti comunque” commentai, per poi lanciare le scarpe in un angolo del corridoio e iniziare a salire lentamente le scale.
“Hai passato ogni limite questa volta!”
Lo ignorai, troppo affrante per poter dire qualcosa. La verità era che mi sentivo uno schifo. Mi avevano licenziata, ovviamente. Come avrebbero potuto non farlo? Hayley era stata anche troppo gentile ad inventarsi la scusa della cugina che tornava dall’estero e avrebbe potuto occuparsi dei ragazzini.
Alla fine Johnny aveva vinto. Mi auguravo che almeno lui fosse soddisfatto. Aveva vinto lui: mi avevano cacciato.
Dean però sembrava non capire la mia voglia di pace e autocommiserazione. Mi seguì su per le scale, forse più arrabbiato di me. “Hai perso uno dei ragazzi!”
“Non l’ho mica fatto di proposito! È scappato mentre non c’ero!” cercai di scusarmi, rivolgendogli un’ occhiataccia. “E per inciso, avresti anche potuto riaccompagnarlo a casa, anzichè cacciarlo!” Perchè sì, quel ragazzino era scappato con la mia motoretta ed era arrivato fino alla fattoria Fletcher, da Dean. Era furbo, indubbiamente. Quale miglior modo di fregarmi se non fare come gli avevo chiesto?
“Io dovevo lavorare, non posso mica badare a tutti i mocciosi che ti fai scappare!” abbaiò, gettandosi a sedere sul letto.
Questa volta non stava semplicemente cercando di farmi saltare i nervi, era palesemente incazzato nero. Come se fosse stato lui ad essere stato licenziato per colpa mia e non il contrario. Voleva impartirmi una lezione, voleva farmi pentire del pasticcio che avevo combinato -come se il mio licenziamento lo riguardasse in qualche modo- e ci stava anche riuscendo. Ogni sua parola era un giro di quel coltello ancora infilato nella piaga.
“Secondo te cosa avrei dovuto fare? Quegli altri si lagnavano come dannati, lui si era impuntato e non voleva venire con noi a cercare Terrence!”
“C’è una cosa che devi capire, principessa” e quella voltà c’era più disgusto del solito in quell’appellativo. “quando fai un casino, la colpa è la tua, non degni altri, okay? Devi prenderti le tue responsabilità e basta! Come ti è saltato in mente di lasciare le chiavi nel Ciao?!” sbottò, appoggiandosi allo stipite della porta della mia stanza.
Mi gettai a sedere sul letto, sperando che quella paternale finisse presto. Anche perchè non aveva alcun diritto di trattarmi come la bambina di turno. Non dopo che per uno stupido puntiglio personale aveva contribuito al mio licenziamento. “Me le sono dimenticate. Non è che io mi diverta cercando di farmi licenziare, di solito. Ho altri hobby.”
“Già, combinare casini!” commentò, freddo.
“Senti, è colpa mia, ora sono stata licenziata e mi sta bene. Okay? Felice? Mi troverò un altro lavoro, in qualche modo! Ora puoi lasciarmi in pace?!” soffiai, lasciandomi cadere all’indietro, stesa. Afferrai il cuscino e me lo premetti sulla faccia. Dopo un po’ lo tolsi e lanciai un’ occhiata alla porta, sperando che Dean se ne fosse andato. Lui tuttavia era ancora lì, a guardarmi in cagnesco, la mandibola contratta. Sbuffò e assestò un pugno al muro. “Sai qual’è il tuo problema? Non capisci niente! E non capisci niente perchè nella tua testa ci sei solo tu!”
Lo fissai per qualche secondo, sentendo la rabbia salire. Mi tirai su a sedere. “Sai qual’è il mio problema, Dean? Che se a me stessa non ci penso io, non lo fa nessuno!” gli gridai, furiosa, poi distolsi lo sguardo, stringendo i denti. “Adesso vattene e lasciami in pace!” conclusi con uno sbuffo, stendendomi a pancia di sotto con la faccia affondata nel cuscino.
Non so se rimase lì o se ne andò subito. Non mi voltai a controllare, troppo immersa nella mia autocommiserazione e nel distruttivo ricordo di quella giornata. Avrei voluto scrivere subito a Emily. Avrei voluto telefonarle e sfogarmi con lei. Ma non potevo. Non potevo scrivere perchè era inutile, lo avrebbe letto chissà quanto tempo dopo. E non potevo chiamarla perchè quello stupido ragazzino mi aveva finito la benzina nel ciao –e non solo- con quella sua dannata fuga.
Quando Terrence, dopo pranzo, era finalmente giunto a casa Lucas, gli avevo spiegato, nel panico, la situazione e lui era andato a cercare Hayley al lavoro, cosa che avevo convenuto fosse la soluzione migliore. Hayley avrebbe saputo cosa fare. Di fatti lei era tornata il prima possibile, dopo meno di un’ora e aveva portato i suoi figli nel saloon, dove li aveva affidati a Ginger. Poi io, lei, Terrence e un paio di quindicenni disoccupati di cui non avevo afferrato il nome avevamo iniziato le ricerche. Fu uno dei due ragazzini a trovarlo che spingeva motoretta lungo la strada verso casa. Aveva finito la benzina, e aveva anche bucato una gomma, motivo per cui non stava pedalando. Il ragazzino aveva accompagnato Johnny al saloon e poi era corso a cercare Hayley e noi altri. Giunti tutti al bar, Hayley aveva severamente rimproverato suo figlio e poi si era voltata verso di me, licenziandomi con l’attenuante della cugina di ritorno dall’estero e disposta a prendersi cura dei bambini.
Mi aveva licenziata davanti ai bambini, davanti a Abraham.
Era stato umiliante, oltre che estremamente avvilente.
Non so come mi sentissi esattamente, in quel momento, stesa nel letto col cuscino a separarmi dal mondo esterno. Ero troppo confusa e soprattutto provata per rendermi conto pienamente di ciò che era successo. Sapevo solo di non volere avere a che fare con nessuno. Motivo per cui quando Abe mi urlò che la cena era pronta risposi di non aver fame.
Mi alzai a fatica e andai a chiudere la porta. Afferrai l’mp3 3 inforcai le cuffie, tuffandomi di nuovo sul letto con la faccia nel cuscino.
Nelle mie orecchie la voce di Vasco Rossi annunciava la sua voglia di trovare un senso alla vita, quando realizzai che forse quello della mia era rovinare puntualmente ogni cosa con la mia totale incapacità di stare al mondo.
“Sei una catastrofe, lasciatelo dire!”
Mi voltai a lanciare a Dean un’occhiataccia. “Anche se non te lo lasciassi dire lo diresti comunque” commentai, per poi lanciare le scarpe in un angolo del corridoio e iniziare a salire lentamente le scale.
“Hai passato ogni limite questa volta!”
Lo ignorai, troppo affrante per poter dire qualcosa. La verità era che mi sentivo uno schifo. Mi avevano licenziata, ovviamente. Come avrebbero potuto non farlo? Hayley era stata anche troppo gentile ad inventarsi la scusa della cugina che tornava dall’estero e avrebbe potuto occuparsi dei ragazzini.
Alla fine Johnny aveva vinto. Mi auguravo che almeno lui fosse soddisfatto. Aveva vinto lui: mi avevano cacciato.
Dean però sembrava non capire la mia voglia di pace e autocommiserazione. Mi seguì su per le scale, forse più arrabbiato di me. “Hai perso uno dei ragazzi!”
“Non l’ho mica fatto di proposito! È scappato mentre non c’ero!” cercai di scusarmi, rivolgendogli un’ occhiataccia. “E per inciso, avresti anche potuto riaccompagnarlo a casa, anzichè cacciarlo!” Perchè sì, quel ragazzino era scappato con la mia motoretta ed era arrivato fino alla fattoria Fletcher, da Dean. Era furbo, indubbiamente. Quale miglior modo di fregarmi se non fare come gli avevo chiesto?
“Io dovevo lavorare, non posso mica badare a tutti i mocciosi che ti fai scappare!” abbaiò, gettandosi a sedere sul letto.
Questa volta non stava semplicemente cercando di farmi saltare i nervi, era palesemente incazzato nero. Come se fosse stato lui ad essere stato licenziato per colpa mia e non il contrario. Voleva impartirmi una lezione, voleva farmi pentire del pasticcio che avevo combinato -come se il mio licenziamento lo riguardasse in qualche modo- e ci stava anche riuscendo. Ogni sua parola era un giro di quel coltello ancora infilato nella piaga.
“Secondo te cosa avrei dovuto fare? Quegli altri si lagnavano come dannati, lui si era impuntato e non voleva venire con noi a cercare Terrence!”
“C’è una cosa che devi capire, principessa” e quella voltà c’era più disgusto del solito in quell’appellativo. “quando fai un casino, la colpa è la tua, non degni altri, okay? Devi prenderti le tue responsabilità e basta! Come ti è saltato in mente di lasciare le chiavi nel Ciao?!” sbottò, appoggiandosi allo stipite della porta della mia stanza.
Mi gettai a sedere sul letto, sperando che quella paternale finisse presto. Anche perchè non aveva alcun diritto di trattarmi come la bambina di turno. Non dopo che per uno stupido puntiglio personale aveva contribuito al mio licenziamento. “Me le sono dimenticate. Non è che io mi diverta cercando di farmi licenziare, di solito. Ho altri hobby.”
“Già, combinare casini!” commentò, freddo.
“Senti, è colpa mia, ora sono stata licenziata e mi sta bene. Okay? Felice? Mi troverò un altro lavoro, in qualche modo! Ora puoi lasciarmi in pace?!” soffiai, lasciandomi cadere all’indietro, stesa. Afferrai il cuscino e me lo premetti sulla faccia. Dopo un po’ lo tolsi e lanciai un’ occhiata alla porta, sperando che Dean se ne fosse andato. Lui tuttavia era ancora lì, a guardarmi in cagnesco, la mandibola contratta. Sbuffò e assestò un pugno al muro. “Sai qual’è il tuo problema? Non capisci niente! E non capisci niente perchè nella tua testa ci sei solo tu!”
Lo fissai per qualche secondo, sentendo la rabbia salire. Mi tirai su a sedere. “Sai qual’è il mio problema, Dean? Che se a me stessa non ci penso io, non lo fa nessuno!” gli gridai, furiosa, poi distolsi lo sguardo, stringendo i denti. “Adesso vattene e lasciami in pace!” conclusi con uno sbuffo, stendendomi a pancia di sotto con la faccia affondata nel cuscino.
Non so se rimase lì o se ne andò subito. Non mi voltai a controllare, troppo immersa nella mia autocommiserazione e nel distruttivo ricordo di quella giornata. Avrei voluto scrivere subito a Emily. Avrei voluto telefonarle e sfogarmi con lei. Ma non potevo. Non potevo scrivere perchè era inutile, lo avrebbe letto chissà quanto tempo dopo. E non potevo chiamarla perchè quello stupido ragazzino mi aveva finito la benzina nel ciao –e non solo- con quella sua dannata fuga.
Quando Terrence, dopo pranzo, era finalmente giunto a casa Lucas, gli avevo spiegato, nel panico, la situazione e lui era andato a cercare Hayley al lavoro, cosa che avevo convenuto fosse la soluzione migliore. Hayley avrebbe saputo cosa fare. Di fatti lei era tornata il prima possibile, dopo meno di un’ora e aveva portato i suoi figli nel saloon, dove li aveva affidati a Ginger. Poi io, lei, Terrence e un paio di quindicenni disoccupati di cui non avevo afferrato il nome avevamo iniziato le ricerche. Fu uno dei due ragazzini a trovarlo che spingeva motoretta lungo la strada verso casa. Aveva finito la benzina, e aveva anche bucato una gomma, motivo per cui non stava pedalando. Il ragazzino aveva accompagnato Johnny al saloon e poi era corso a cercare Hayley e noi altri. Giunti tutti al bar, Hayley aveva severamente rimproverato suo figlio e poi si era voltata verso di me, licenziandomi con l’attenuante della cugina di ritorno dall’estero e disposta a prendersi cura dei bambini.
Mi aveva licenziata davanti ai bambini, davanti a Abraham.
Era stato umiliante, oltre che estremamente avvilente.
Non so come mi sentissi esattamente, in quel momento, stesa nel letto col cuscino a separarmi dal mondo esterno. Ero troppo confusa e soprattutto provata per rendermi conto pienamente di ciò che era successo. Sapevo solo di non volere avere a che fare con nessuno. Motivo per cui quando Abe mi urlò che la cena era pronta risposi di non aver fame.
Mi alzai a fatica e andai a chiudere la porta. Afferrai l’mp3 3 inforcai le cuffie, tuffandomi di nuovo sul letto con la faccia nel cuscino.
Nelle mie orecchie la voce di Vasco Rossi annunciava la sua voglia di trovare un senso alla vita, quando realizzai che forse quello della mia era rovinare puntualmente ogni cosa con la mia totale incapacità di stare al mondo.