28 marzo 2011

Viento.

Sobre tus alas volan las hojas,
bailan y juegan por el aire.
Sin aviso te encallas y las abandonas.
Conduces los sonidos como veleros
en un oceano de sentimientos.
Si te arrestas, no existen mùsica o ruido.
Gritas tu poderoso canto en las noches oscuras,
asustas los niños que no puedon dormir.
Pero no te importa: eres grande y soberbio,
curvas los arboles suspirando.
Tampoco el peor de los cìnicos
puede permanecer en su escepticismo
enfrente de tu
magnificencia.


Sulle tue ali volan le voglie,
ballano e giocano per l'aria.
Senza preavviso ti incagli e le abbandoni.
Conduci i suoni come velieri
in un oceano di sentimenti.
Se ti fermi, non esistono musica o rumore.
Gridi il tuo potente canto nelle notti scure,
spaventi i bambini che non riescono a dormire.
Ma non ti importa: sei grande e superbo,
pieghi gli alberi sospirando.
Nemmeno il peggiore dei cinici
può rimanere nel suo scetticismo
davanti alla tua
magnificenza.


Yvaine (probabilmente la prima ed ultima!)

27 marzo 2011

Ritrovate 4 terzine di Dante relative al canto 34esim




I filologi hanno accertato, poche settimane fa, l'autenticità e la collocazione delle quattro terzine perdute: si tratterebbe della descrizione dettagliata della pena di Lucifero, nel 34° canto dell'inferno dantesco.
L'angelo caduto sembrerebbe condannato, oltre alla prigionia nel Lago ghiacciato Cocito, a subire le spiegazioni continue di una certa insegnante di italiano.
La lettura non stop delle poesie (probabilmente del Petrarca, l'autore di ''Alla Vergine'') causerebbero un senso di mancamento tale a Dante da farlo voltare ''verso la sua spalla'', cioè a girarsi in segno di sofferenza.
E' strano pensare alla commiserazione del principe delle tenebre da parte del Sommo poeta; si direbbe, però, che il fiorentino volesse sottolineare la pesantezza e l'insostenibilità del 'supplizio massimo' riservato all'imperatore delle tenebre e ai tre traditori che conteneva nelle sue fauci.
Ecco le terzine ritrovate


'l supplizio massimo lui lacera,
così quand'io lo vidi, lagrimai
pella pena che uomo macera.

In angolo scuro Strocchi notai
e si dibattea per fuggir dalla
lezion Lucifer, come capirai


Incessante Franca leggeva ''Alla
Vergine'' e poi altre canzoni
sicchè volsi 'l viso sulla mia spalla

E Lùcifer: ''Tu che sfingi e monsoni
non vedesti, nimica di viaggi,
odi e senti: c'hai rotto i coglioni!!''



Dedicato a Franca S., la mia insegnante di italiano

26 marzo 2011

Antigone al liceo, capitolo quinto

Vorrete scusarmi se comincio una serie di racconti partendo dal quinto capitolo.
Frequento un corso di scrittura creativa organizzato dal Liceo, dal professor Antolini e dal Gianfranco Lauretano, anche vicedirettore della rivista ClanDestino.
Per incitare gli studenti a scrivere, Lauretano ci ha proposto due trame di romanzi da sviluppare, e quella che ho scelto io era l' 'Antigone al Liceo'. In pratica abbiamo cercato di contemporaneizzare la tragedia greca di Sofocle, immaginandoci la trama e le varie scene.
La vicenda parla, in breve, di un'amica di Antigone muore in un incidente d'auto, e il liceo è in tumulto per questa sua scomparsa.
Si sa però che la ragazza ha lasciato un diario in una certa aula, ma il preside ha deciso di vietare l'accesso per calmare quest'apprensione. Per il resto tutto se la si gioca sulla morale dell'Antigone: le leggi degli Dei (parafrasando, le leggi del cuore) sono più alte delle leggi degli uomini.
La trama è molto spoglia, me ne rendo conto, ma è la trama che ci si aspetta da un corso di scrittura creativa.
Non vi anticipo nient'altro :)
Buona lettura, grazie per l'attenzione :)



Occhi fissi sulla scrivania, una mano sulla tempia.
Il Preside così si interrogava sulla moralità delle sue azioni. Una vita spesa al servizio dell'istruzione, dei giovani che bene lo ricompensavano abbondantemente nei voti e, nei limiti, nell'affetto (il lettore ben capirà che tipo di rapporto si può avere con un Preside).
Così quella che era la pietra miliare di tutto un liceo, un punto di riferimento, si accigliava, rimuginava, indagava se stesso: non sapeva più a chi chiedere consiglio circa una questione tanto delicata. Delicata. La parola è una crocifissione per il rispettabilissimo Preside. Delicata.
Era delicata, quella ragazza morta in seguito ad un incidente? Già le sue gote di ragazza, le sue speranze ed i suoi sospiri erano volati via. Come una piuma di colomba, strappata all'abbraccio della carne, veniva trasportata dal vento, allo stesso modo un'anima viaggiava verso chissà quale luogo, passando per una morte tragica.
Un incidente involontario, una reazione peggiore portavano un uomo rispettabile a disperarsi, a volere male a se stesso.
Gli occhi fissi sulla scrivania. Una foto del figlio. E se fosse stato lui, a morire, anzichè una sua studente? Il primo a dargli il nome di padre, su una strada grigia, coperto da un'atmosfera tragica. E invece no, una sconosciuta, una studente che non aveva neanche mai incrociato per i corridoi, se ne stava stesa sull'asfalto, e mentre un cuore non batteva più, l'altro si agitava e picchiava sul petto di un uomo meno forte di quanto si credeva.
Ma com'era successo? Tornando a casa, dopo la presentazione del libro di un amico, guidava neanche troppo veloce; era da solo, senza che sua moglie lo assillasse con le solite storie. 'Vai piano' gli diceva, 'stai attento', gli ripeteva. Come se almeno una volta fosse stato tanto incauto da sorpassare un limite di velocità.
Nonostante fosse di indole docile, il Preside, uomo rispettabile e composto, si sentiva libero da quella vita che, dopo la bellezza di trent'anni, cominciava a stargli stretta.
Erano anni che non provava qualcosa del genere. Una vita passata a studiare nozioni di latino e greco, i pomeriggi passati sugli specchietti di grammatica mai lo avevano ripagato quanto lo voleva. Le gioie dategli dal figlio ben bilanciavano i rimproveri di una moglie che prima amava, ma ora, non amava più.
Un bicchiere di troppo, sì disse, certo non cambierà la vita a nessuno. E si divertiva, alla festa, come un ragazzo: ma quale ragazzo? Lui giovane davvero non lo era stato mai. Comportatosi da vecchio durante l'adolescenza, si permise per almeno una serata di brindare ancora e ancora per riprendere il tempo perduto.
La serata era finita, e si dirigeva a media velocità, dritto sulla strada, accanto ad un motorino che non voleva quasi farlo passare. La ragazza si sposta sulla sinistra, lui accellera, le è accanto, il vino sdoppia l'immagine, un attimo di confusione, un flash, la urta. La ragazza, avventatamente, come se qualcuno che non era nè lei nè il Preside, avesse architettato un piano macabro, non si era allacciata il casco come si deve. Il Preside, persona rispettabile, si riprende. Trova un corpo sulla strada, non capisce neanche lui la dinamica dell'accaduto, e capisce di essere il colpevole. Il volto della ragazza guardava il cielo, e quegli occhi ormai spenti quasi sembravano guardare le stelle.
Come è tornato a casa, neanche lui se lo ricorda.
E se il figlio gli avesse chiesto com'era andata? Avrebbe confessato un delitto? Delitto, in latino scelere, anche azione turpe, infame, indicibile. Oh, piano con la fantasia! Cos'era successo poi? L'aveva voluto lui? Semmai si fosse scoperto qualcosa, se i poliziotti che avevano considerato l'accaduto un semplice incidente, avessero scoperto la verità, e il figlio gli avesse fatto domande, avrebbe saputo benissimo cosa dire: avrebbe raccontato la verità. Non era colpa sua, infatti. Era come se un destino avverso ed una serie di coincidenze beffarde fossero stati complice nel legarlo ad una croce nella sua adolescenze, e fossero tornati per finire il lavoro. Lo volevano morto, sì. Lui, infatti, il bere non lo toccava mai, e per strada era attento. Come sarebbe potuto succedere altrimenti? Affogava le risposte per lui scomode con un sospiro.
Ma, realisticamente, nè suo figlio nè le forze dell'ordine potevano fargli delle domande. Dopo che aveva messo in circolazione la voce del suicidio della ragazza, dopo che nessuno aveva neanche sospettato della sua colpevolezza, chi mai avrebbe potuto chiedergli nulla? E, d'altra parte, non era colpevole di nulla.
Mentre si convinceva di una falsità tanto evidente, cercava di tacere la sua parte più obbiettiva sacrificando la dignità che si era guadagnato. E sorgeva, nel suo cuore, una lotta.
Nel frattempo, una ragazza meno disillusa dalle angustie della vita, armatasi di coraggio, si intrufola nel suo liceo aiutata dalla notte e dal suo desiderio di verità.

21 marzo 2011

(1)

Nicholas avanzava a passo sicuro nel corridoio.
Non c’era niente che potesse fermarlo. Capelli castani, occhi blu, fisico atletico. Era oggettivamente un gran bel ragazzo. Era il capitano della squadra di pallanuoto, aveva tutta la scuola ai suoi piedi. Tuttavia il suo buon carattere non era stato intaccato dalla popolarità, rimaneva un tipo gentile e simpatico. 
Si guardava intorno, sorridente e salutava quasi tutti, mentre il suo sguardo –ora più sicuro e deciso che mai- cercava una biondina in particolare. Scorse la sua amica, Kate, che, seduta sulla scrivania dei bidelli, osservava il fondo del corridoio. Tamburellava le dita sulla superficie legnosa, frenetica.
Stava aspettando qualcuno. Stava aspettando lei. 
“Prendi il coraggio a quattro mani, Nick” gli avevano detto i suoi amici. “Sei il ragazzo più popolare della scuola. Vai e prenditela. Usa uno dei trucchi di Ian”. Sorrise tra sè. Sì, avrebbe usato uno dei trucchi di suo cugino, di cui aveva ereditato il posto. 
Passò di fronte a Kate e si diresse lungo il corridoio che portava ai bagni. Lei doveva essere là, da qualche parte. 
‘Eccola’, esultò mentalmente, vedendola. Avanzava timida come sempre, splendida nel suo minuto e delicato aspetto. Era così piccola che veniva voglia di proteggerla. E l’avrebbe protetta lui, da ogni cosa.
Il sangue gli pulsava nelle orecchie mentre le andava incontro.
Non avevano mai parlato, non aveva mai osato violare la riservatezza di lei con le sue futili parole. Si limitava ad osservarla da lontano, da cinque lunghi anni. Osservare i lunghi lisci capelli biondi. Le arrivavano fino al fondo schiena. La pelle diafana, perfetta. Sembrava una bambola di porcellana, fragile, impassibile. 
Non parlava mai con nessuno. Sempre timorosa ed irrequieta. Un pulcino spaventato. 
Teneva costantemente lo sguardo basso e quando lui le passava vicino, o per una fortunata coincidenza incrociavano gli sguardi, sulla piccola fronte di lei si formava una tenera ruga d’espressione.
Lei era diversa da tutte le altre. Diversa da tutte quelle che lo osservavano sognanti e cercavano di comprarsi le sue attenzioni facendo gli occhi dolci e ridacchiando continuamente, civettuole.
Lei era diversa. Meritava il suo rispetto, le sue attenzioni. 
Lui era forte, premuroso, perfetto per lei. Voleva proteggerla dagli sguardi, altrui. Difenderla dalle cattive voci, dai giudizi e dai male intenzionati. 
Voleva farla sentire amata e al sicuro. Voleva farle capire che non doveva aver alcun timore di stare al mondo, perchè c’era lui lì con lei.
Ecco. Era giunto il momento. Finalmente erano a pochi passi l’uno dall’altra. 
Lei sembrava agitata. Nicholas vide spuntare la piccola ruga, come sempre. 
Gli aumentò il battito cardiaco. Il sangue gli pulsava nelle orecchie. 
Cinque passi. Quattro passi. Tre passi. 
Erano l’uno di fronte all’altro. 
Avrebbe usato il vecchio trucco numero ventisei, era deciso. Era la cosa migliore e sicuramente la più efficace. 
Si fermarono. 
Fecero entrambi un passo a sinistra.
Un passo a destra.
Un altro a sinistra.
Lei si fermò di nuovo e lui la imitò. Nicholas le porse un sorriso di scuse. 
La osservava dall’alto, lei gli arrivava solamente al torace. Lui era alto, lei era minuscola. Aveva una voglia matta di abbracciarla.
Lei, che aveva tenuto lo sguardo basso tutto il tempo alzò il capo. Puntò i dolci occhi da cerbiatta, color nocciola, nei suoi. 
Il cuore di Nicholas perse un battito. Le sorrise, sforzandosi di essere forte e non farsi prendere dall’emozione. Vide le sottili e chiarissime sopracciglia piegarsi in un’espressione corrucciata. Era così... così minuscola. Una bambina offesa. Tremendamente tenera.
- Ti levi dalle palle?! -
Quattro parole. Voce fredda, severa e perentoria. Un ordine stizzito. La prima volta che gli rivolgeva la parola. Un momento magico. Avrebbe dovuto essere un momento magico. Il sangue gli si era gelato nelle vene. - Smettila di seguirmi ovunque vada, razza di dannato maniaco! Sono cinque anni che non fai che fissarmi! Sei fastidioso! – aggiunse, a voce forte e chiara. Decisa, forte, iraconda. Scartò il ragazzo e raggiunse l’amica imprecando a mezza voce come uno scaricatore di porto. 
Nicholas era impietrito. Fissava il vuoto, sconcertato. 
Il suo pulcino indifeso...

19 marzo 2011

Convinzioni

Entra Nerone matricida,
il sangue sulla veste
la spada nella mano

Primo uccide Petronio,
uomo di fiducia,
compagno di laidità

Il ferro il cuore del maestro
veloce trapassa, e ne rimane
solo lo sguardo, la voce spezzata

Nè l'amicizia che a Seneca
lo legava, nè la fiducia Nerone
risparmia e non massacra

Ne rimane solo lo sguardo,
gli occhi sgomenti e traditi

Petrarca apre la porta,
vede la morte prendere
la madre, e impietrisce

Nè le speranze di bambino,
nè la felicità che gli apparteneva
la falce lascia sulla terra

Prende svelto la penna,
scrive in latino versi
che prima non scriveva

eppure, non le parole,
non le riflessioni e
gli anni in monastero

gli riportano la madre
gli cancellano il dolore
gli sanano il cuore

Gli uomini vivono attorniati
dalle illusioni,
e quando vi si affezionano,
le chiamano convinzioni

18 marzo 2011

Cows and jeans8



"Quanto può essere difficile badare dei bambini?”

Probabilmente tutti conoscono la frase “le ultime parole famose”. Ecco.
Non sapevo come definire la mia situazione.
Drammatica?
Fantascientifica?
Comico-parodica?
Farsa giullaresca?
Probabilmente avevo –e non è detto che non cel’abbia tuttora- un’ enorme freccia fluttuante, addobbata da luci intermittenti, accompagnata da una graziosa scritta a caratteri cubitali che invitava la sfortuna a ‘colpire qui’ sulla testa. Non c’era altra spiegazione.
Non so, forse ero una specie di disastro della natura. Ogni volta che mi illudevo che qualcosa potesse andare per il verso giusto ogni mia speranza si frantumava facendomi sprofondare nello sconforto.
Come ho già detto altre volte: la sorte era una bambina dispettosa e capricciosa aveva scelto me come bersaglio per i suoi tiri mancini. Quantomai astuti nonostante la giovane età. E credetemi se vi dico che in quel momento non esisteva paragone migliore.
Si era già fatto buio quando Abe parcheggiò l’auto nel capanno dietro casa. Mi guardò di sottecchi e scese.
Ero semplicemente stravolta, e la mia espressione diceva ‘lasciatemi in pace, mordo’. Ero allucinata, stanca e davvero tanto arrabbiata. Provata fisicamente –come non potevo esserlo dopo quella giornata?- e soprattutto psicologicamente.
Seguii Abraham in casa e, prima ancora che potessi ricordarmi della sua esistenza, Dean mi guardò e scoppiò a ridere sguaiatamente. Ridere di me. “E’ stato divertente, eh?”
“Chiudi quella fogna” sbottai, appendendo la giacca. Non so perchè me la fossi presa su quella mattina, nonostante fossimo in estate. Forse era nella mia natura seguire i consigli di mia madre solo quando lei non era nei paraggi, non poteva vedermi e non poteva scoprirlo. O forse ero solamente una stupida ragazzina che faceva le cose a caso.
“Hai resistito tutto il giorno, complimenti”
“Lasciami in pace”
Lui mi ignorò. O meglio ignorò le mie parole, perchè in realtà non aveva alcuna intenzione di ignorare me, come invece speravo. “Chi ti ha dato più filo da torcere? Robin? Johnny?”
Lady Cocca? Sir Biss? Il principe giovanni?
Che diavolo voleva da me!? Non ero dell’umore giusto per sentire le sue... fesserie!
Lo trucidai con lo sguardo, mentre entravo in bagno per lavarmi le mani, nella speranza di allontanarlo da me almeno qualche istante. Non avevo voglia di essere presa in giro, lo avevano fatto già abbastanza quei piccoli demoni.
Abe chiese se la cena fosse pronta e l’irritante biondino rispose di sì, un attimo prima di raggiungermi nella stanza con quel suo sorrisetto irrisorio in volto.
“Che vuoi?” sbottai dopo un po’ che mi osservava ridendo sotto i baffi.
“Hmn. Dalla tua espressione direi decisamente i gemelli”
“Lasciami in pace”
“No. Johnny. Oh, il cane!”
“Non hanno un cane” sbuffai sconsolata. Magari lo avessero avuto. Almeno ci sarebbe stato qualcuno di civile in quel posto.
“Giusto. Allora decisamente Johnny”
“Chiudi il becco”
Rise di me. Ancora. “Ti sei cacciata proprio in un bel guaio”
“Senti un po’, gongolare è la tua specialità, vero?” sibilai, mentre mi asciugavo le mani. Strofinai così violentemente la salvietta contro la pelle che quando la riposi avevo la mani tutte arrossate.
L’asicugamano cadde.
Mi morsi la lingua per non mettermi ad urlare.
Persino la biancheria della casa era contro di me, cavolo!
Dean rise mentre la raccoglievo.
“Che ti hanno combinato?”
Gli lanciai un’occhiataccia. “Niente”
“Rob ha di nuovo finto un malore?”
Battei un piede per terra. “FINISCILA!”
Mi precedette in cucina sghignazzando. “Bingo. E’ sempre geniale quel trucco”
“Non è geniale. È infantile.” Brontolai sedendomi a tavola.
Era stato terribile. Quei cinque non erano bambini, erano bestie indemoniate! Come Hayley –loro madre- se ne era andata avevano iniziato a correre ovunque e ad urlare, mettendo tutto a soqquadro sotto i maligni ordini del fratello maggiore, Johnny.
Avevo sopportato il disordine e il rumore assordante delle loro continue e immotivate grida per tutta la mattina, seguendo le istruzioni che la loro povera madre mi aveva lasciato prima di correre al lavoro.
Dopo pranzo avevano cercato di lanciarmi addosso un martello e qualche tonnellata di frutta che avevano trovato in giro per la casa e il giardino, ma questo posso accettarlo. Il momento peggiore, la situazione più angosciante che avessi vissuto in vita mia, si era manifestata intorno alle quattro, quando Robin era stramazzato al suolo. Le altre quattro canaglie si erano zittite e avevano iniziato a fissarmi, singhiozzando. Johnny mi aveva detto che suo fratello soffriva di cuore e a quel punto mi era preso un colpo.
Non ho mai preso lezioni di pronto soccorso, avevo solo un vago ricordo di un vecchio libro in cui un uomo si era sentito male e un’infermiera aveva prestato il primo soccorso mentre giungeva l’ambulanza. Tutto ciò però non bastava, non avevo la minima idea di cosa fare.
Le bambine si erano attaccate alle mie gambe e mi imploravano di aiutare loro fratello, Johnny correva in giro nel panico, mentre Thom piangeva.
Il maggiore dei fratelli mi disse che non avevano un telefono e quando mi ero accorta che il cellulare non prendeva nemmeno lì ero entrata in panico. Ero corsa fuori dalla casa gridando aiuto, senza sapere nemmeno dove andare. I bambini sembrava piangessero –bestiole dannatamente astute.
Avevo una gran voglia di piangere anche io, mi sentivo così inutile e impotente... una bambina immersa in una situazione più grande di lei e perdipiù privata di ogni possibile via di fuga. Di soccorso, in questo caso.
Non so come, ma dopo pochi minuti di interminabile attesa costellati di terrore, uno degli uomini che lavoravano lì intorno era corso da noi e gli avevo mostrato il bambino. Il quale, come da copione, si era rialzato, aveva salutato l’ospite e poi si era messo a ridere coi fratelli.
L’esperienza più terribile della mia vita, in assoluto. Non mi ero mai sentita così male, nè così stupida e presa in giro.
Non mangiai quasi niente a tavola. Dean continuava a ridere di me facendomi battutine di tanto in tanto, mentre Abraham si limitava ad uno scocciato silenzio.
Hayley, la madre di quei demòni, era stata così cordiale con me. Una donna squisita. Dolce e apprensiva. Ora capisco perchè mi avesse augurato buona fortuna. E ovviamente anche perchè Abraham mi avesse chiesto se fossi in grado di badar loro.
Avvisare le persone prima, no, eh?! Troppo facile lasciare in compagnia di quegli animali una povera innocente che non sospetta nulla!
“Sei un caso disperato. Riuscirai mai a farne una giusta?”
“Tu cos’avresti fatto?” sibilai, sfidandolo con lo sguardo mentre asciugavo il mio piatto, dopo cena.
“Non ci sarei cascato”
“Buon per te”
“E sai perchè? Perchè io li conosco.”
“E come diavolo pensi che potessi conoscerli, io?”
“Non potevi, principessa. Ecco perchè avresti dovuto evitare di prenderti quell’impegno. Hayley domani dovrà cercarsi una nuova baby sitter. Perchè non te ne stai dove non combini casini?”
Mi bloccai, fissando il nulla. Mi sentivo improvvisamente svuotata di tutto. “Mi stai dicendo che dovrei tornarmene in città?” Non riuscii a dire ‘a casa’. Dove abitavano i miei non era casa mia. Nemmeno quel posto era casa mia, però. Ero una minuscola adolescente dispersa nel mondo. Smarrita.
Lui diede un’alzata di spalle, completamente disinteressato. “Tu l’hai detto”.
Mi morsi il labbro inferiore.
Era stupido, ma mi sentivo ferita. Ferita dalle parole di uno stupido esaltato che si credeva Dio in terra.
In un attimo mi sentii pervadere dalla rabbia, di nuovo.
Che diritto aveva lui, un ragazzo che nemmeno conoscevo, di dirmi cosa dovevo fare? Che diritto aveva di rimproverarmi, darmi lezioni o cacciarmi dalla casa di mio nonno?
Non gliel’avrei data vinta, no. Non gli avrei dato alcuna soddisfazione, mai.
L’avevo presa sul personale, sì. Mi ero arrabbiata e quel che intendevo fare era fargli vedere di che pasta ero fatta.
Una combinaguai, una buona a nulla? Gli avrei fatto il culo a stelle strisce, gli avrei mostrato chi era la principessa. E di certo non ero io, poteva starne certo.
Pan Fletcher gli avrebbe dimostrato chi era.
Strinsi i denti e finii le mie faccende, senza più proferire parola.
Prima di annunciare che sarei andata a dormire, avevo già deciso cos’avrei fatto nei dettagli.
Senza rispondere alle sue provocazioni, senza dargli più alcuna soddisfazione, avrei dimostrato a lui, ad Abraham, a quei bambini indemoniati, ai miei genitori e a me stessa di che pasta ero fatta.

La mattina successiva mi alzai alle quattro e tre quarti, con una rinnovata forza di volontà. Nonostante l’ora fosse assurda, avevo puntato io la sveglia del telefono per il solo gusto di svegliarmi prima di Dean.
Mossa dalla voglia di rimboccarmi le maniche, mi vestii in fretta e andai in bagno a sistemarmi, mentre a casa tutti ancora dormivano –sole compreso.


Richiusi accuratamente la porta della mia stanza alle mie spalle per avere la soddisfazione di sentire il biondino bussare alla stanza vuota e cercare di svegliarmi, mentre ero già in piedi e avevo già iniziato le faccende domestiche. In realtà all’inizio avevo pensato di svegliarlo io, ma sarebbe stato più fine e soddisfaciente fare la mia vita senza sbandierare rozzamente che la guerra era ufficialmente aperta.
Sgattaiolai, il più silenziosa possibile, al pian terreno e mi diedi alla preparazione della più accurata colazione che quei due avessero mai visto da mooolto tempo a quella parte.
Dei miei nonni avevo solo qualche vago ricordo. Quando eravamo piccoli, a volte io, mamma, papà e Josh venivamo in campagna dal nonno per il weekend. La nonna preparava le frittelle e la pasta fatta in casa per pranzo. Per merenda ogni giorno avevamo una torta nuova. Era una brava cuoca. Come tutte le nonne, forse, ma lei era davvero eccezionale.
Mentre cercavo di imitare le sue frittelle sbirciando nei libri di ricette che Abe aveva accuratamente riposto sulla mensola sopra il tavolo da pranzo, ricordai tutti gli odori, i sapori di un’ infanzia felice. Era tutto così semplice quando c’era la nonna.
Era tutto così semplice quando non conoscevamo George, e c’erano solo papà e mamma.
Mi sentii cogliere da una piacevole malinconia, da un’ ondata di ricordi che erano stati sepolti dalle preoccupazioni e dalle ansie, dai continui litigi tra i miei genitori e con mio fratello. Dal costante tentativo –prima di una bambina, poi di una ragazza- di farsi apprezzare o quantomeno notare, mentre tutti avevano altro a cui pensare. Bei ricordi rimasti a lungo sepolti sotto solitudine e innumerevoli pagine di grossi tomi trovati un po’ ovunque.
Non so esattamente come riuscii a preparare qualcosa di soddisfaciente, non so nemmeno cosa mi spinse a seguire quella linea di pensiero mentre me ne occupavo.
Tendevo a cuocermi nel mio brodo, non mi rifugiavo mai nei ricordi passati. Non avevo mai pensato che immergermi in una vasca di momenti sfuocati, vissuti quando ero così piccola da far sembrare la stessa cucina in cui stavo armeggiano un immenso laboratorio in cui una grande e morbida nonna dai capelli di zucchero filato preparava le migliori delizie che si potessero assaggiare, potessero farmi tornare il sorriso dopo una nottataccia di sogni agitati e due giorni di insofferenza generale nei miei confronti.
Però così fu.
Era strano rivivere quei momenti che credevo di aver dimenticato.
Mentre apparecchiavo e servivo la colazione –nonostante tutti ancora dormissero- avevo la testa fra le nuvole. Ero completamente assente. La mia mente viaggiava a destra e a sinistra, non ricordo esattamente nemmeno dove passò e dove la venuta del nonno interruppe i miei vaneggiamenti.
So solo che quando Dean entrò in cucina mi salutò con un’ occhiataccia frustrata, che mi riempì di una nuova e risanante soddisfazione. In quel momento rinnovai la promessa che avevo fatto a me stessa: avrei dimostrato a quel tipo, a mio nonno, ai miei genitori e a me stessa chi ero veramente. Non una bambina, non la principessa degli gnomi, non la nipote cacciata di casa dai genitori, non una sfaccendata, non un vecchio libro reso fragile dal tempo e dalle interperie. Ero Pan Fletcher, e la mia operazione di restauro era appena iniziata.

Anche quella mattina Abraham mi caricò sull’auto per portarmi a casa di Hayley. Come c’era da aspettarsi, nonostante Dean avesse detto che la donna avrebbe dovuto cercare una nuova baby sitter, io avevo deciso di riprovare. No, non di riprovare, di riuscirci. Come tutti i bambini, anche quelle canaglie dovevano avere un punto debole, no? Per le mutante di Merlino, persino Fufi si addormentava con un po’ di musica! Potevano essere peggio di un cane gigante a tre teste, quei piccoli... esseri?
Mentre osservavo rapita le minuscole sagome dei bovini al pascolo, attraverso il finestrino, Abraham tossicchiò per attirare la mia attenzione. “Ti sei alzata presto, oggi”.
Sorrisi per mostrare che avevo sentito e per puro dovere morale. Dopodichè non potei evitare di rivolgergli un’ occhiata indagatrice di sottecchi. Magari era scortese da parte mia, ma non riuscivo a non chiedermi se stesse per rimproverarmi qualcosa. “Ho fatto rumore? Mi dispiace, se ti ho svegliato” misi le mani avanti.
“No, ...no”.borbottò, scuotendo leggermente il capo. Continuava a fissare la strada, senza rivolgermi uno straccio di sguardo. La cosa da un lato mi irritava, dall’altro mi incuriosiva.
Si schiarì nuovamente la voce, piano. “Solo, mi chiedevo...”.
Mi voltai appena per osservarlo meglio. Era forse la prima volta che di sua spontanea volontà intavolava un discorso, seppure a fatica. Era anche la prima volta che lo sentivo tossicchiare a quel modo.
Era sotto l’effetto di una strana pozione, o di una maledizione imperium?
(Quanto mi sarei decisa a smettere con questi bizzarri paragoni?)
O forse la mia speranza di instaurare un rapporto civile con il mio parente più vicino stava solo per essere nuovamente smontata?
Qualcosa dentro di me strinse i pugni e chiuse gli occhi, pronto al colpo che stava molto probabilmente per giungere. Da fuori, rimaneva la solita Pan, un po’ stupida, un po’ malinconica, un po’ acida.
“Sei piuttosto indipendente” osservò, continuando a tenere gli occhi fissi sulla strada.
Sì, in effetti era anche normale che lo facesse. Ma non avevo mai visto nessuno prestare così poca attenzione alla persona con cui stava discorrendo e così tanta alle regole stradali. Era un pensiero vagamente ridicolo, in effetti. Ma la vita in città molto spesso era assurda. Ai miei occhi sempre. A quelli degli altri io lo ero.
Lanciai un’ occhiata di fronte a noi. Il paese era vicino, la casa di Hayley anche di più. Ormai eravamo arrivati, la nostra conversazione stava per finire. Non sapevo se sperare di sentire come sarebbe continuata o che si interrompesse così da evitare anche la più piccola delusione.
Sospirai, capendo che sarei dovuta essere io a non porre fine al nostro breve scambio di battute. In altre parole: Abe sembrava non aver intenzione di dire altro.
“Non che sia mai stata troppo dipendente da altri. Mi ci vuole solo un po’ di tempo per regolarmi l’esistenza nelle nuove situazioni” replicai, una vena di amarezza nella voce. Avrei voluto fosse scontato, avrei voluto allo stesso tempo che ‘un po’ di tempo’ fosse già interamente passato.
Ora, a distanza di anni, sono consapevole del fatto che fosse esagerato aspettarsi che in soli due giorni mi fossi completamente ambientata. Ma, cercate di capirmi, non me ne andava una giusta. Allora non vedevo l’ora che la fase delle difficoltà lasciasse il posto a quella in cui si poteva vivere senza trattenere le lacrime in continuazione, senza la costante paura che nemmeno quello fosse il posto adatto a me.
Abraham si schiarì nuovamente la voce. Mi preparai al colpo. Non gli rimaneva che premere il grilletto, ormai, ne ero certa.
Click.
“Nel capanno degli attrezzi c’è ancora la vecchia motoretta di tuo padre”.
Sbang.
“Oh”. Mi costrinsi ad annuire, puntando gli occhi leggermente sgranati sulla maniglia scassata del bauletto portaoggetti.
Non sapevo cosa pensare. Dovevo prenderla come un informazione positiva o negativa? Dovevo sentirmi delusa, arrabbiata, contenta, speranzosa?
Il problema fondamentale era uno: che diavolo era una motoretta?
Nella mia mente prese forma l’immagine di una sottospecie di trattore in miniatura, con me stessa alla guida. Poi mi chiesi se quello del nonno non fosse dolo un invito ad intraprendere qualche altra faccenda domestica, e la piccola Pan nella mia fantasia cadde dal mezzo fin dentro un secchio. Poi senza nemmeno uscirne iniziava a strofinare la carrozzeria rossa ormai arrugginita con uno straccio e un’ espressione confusa.
Aggrottai le sopracciglia, frustrata. Mi vergognavo a chiedere al nonno di cosa si trattasse. Temevo mi prendesse per stupida. Allo stesso tempo, però, ero certa che già mi ritenesse una stupida e del fatto che non reagire in alcun modo alla sua affermazione non potesse che confermare la sua tesi. Che era poi anche la mia, intendiamoci.
Mi lanciò una rapida occhiata di sottecchi, probabilmente per scorgere la mia reazione. “Stasera te la faccio vedere”.
“Ottima idea” commentai, annuendo sollevata. Forse sarei riuscita a capire di cosa si trattasse, o magari avrei scoperto nel frattempo cosa il nonno intendesse per 'motoretta'.