30 maggio 2012

Father to daughter - I'm gonna tell you something


FATHER TO DAUGHTER
I’M GONNA TELL YOU SOMETHING
Giulia quel giorno si sentiva a pezzi. Se ne stava rannicchiata sul divano di casa sua facendo zapping avvolta nella coperta di lana (s)cucita da sua madre.
Francesco osservava la figlia dalla poltrona, dove sedeva col computer portatile sulle ginocchia. I capelli biondi della ragazza erano legati, arruffati ed elettrizzati, niente a che fare con la solita chioma ordinata e accuratamente acconciata; aveva le borse sotto gli occhi e un’espressione apatica che non le aveva visto in volto nemmeno quando aveva scoperto di essere stata bocciata. Era facile anche per uno che, come lui, di sentimenti non se ne intendeva capire che qualcosa non andava.
«Tutto bene, tesoro?»
Giulia sospirò e scosse il capo come unica risposta. Altro segno eloquente del cattivo umore della ragazza. Sua figlia aveva diciotto anni, era bella, bionda, spensierata e sempre sorridente. Non c’era nulla di più raro che vederla starsene impassibile e silenziosa a far nulla. Fin da bambina era stata iperattiva e da quando aveva imparato a parlare, farla star zitta era stato un bel problema.
Francesco prese un respiro profondo e osservò a lungo la figlia. «Vuoi parlarne?»
«A cosa servirebbe, papà?» brontolò Giulia, contrariata. Non ce l’aveva col padre, non se la sarebbe mai presa con lui. Con sua madre, piuttosto, ma aveva un debole per Francesco e gli avrebbe permesso e perdonato qualunque cosa. Lui, dal canto suo, si rapportava allo stesso modo con la figlia. Tra loro c’era un rapporto speciale, che Sophia un po’ invidiava – o meglio ammirava. 
L’uomo si strinse nelle spalle. «Giulia, non sono un esempio da seguire per tanti motivi, ma sono al mondo da ormai... be’, non diciamo quanti anni o il mio fascino ne verrebbe compromesso. Comunque, ho imparato a conoscere il mondo, credo di saperne abbastanza per darti qualche dritta. Anche qualcuna non molto ortodossa, se necessario. Che ne dici, facciamo due chiacchiere?»
La ragazza rise, incapace di rimanere impassibile di fronte all’inguaribile narcisismo del padre. Annuì, sentendosi già un po’ meglio, e prese un respiro profondo. «È per via di Giorgio. Ancora. Proprio non ne vuole sapere, papà. Non capisco cosa io abbia di sbagliato! Ho una montagna di difetti, lo so, ma do sempre il meglio di me quando c’è lui».
Fin da quando aveva sentito il nome del ragazzo in questione a Francesco si era congelato il sorriso incoraggiante sulle labbra. «Ancora lui, Giulia?»
Lei arrossì un po’, sotto lo sguardo esasperato del padre. Aveva una cotta per Giorgio Semi da anni e anni, non sapeva nemmeno dire da quanto tempo le piacesse. Eppure non c’era verso di farsi notare da lui, nonostante fosse il fratello della sua migliore amica. «Non posso farci niente, l’amore funziona così!»
Sì, Francesco riusciva a capire cosa volesse dire la figlia. Quando aveva incontrato Sophia all’università, aveva fatto presto ad innamorarsi di lei. Avrebbe fatto qualunque cosa, allora, per conquistarla e piacerle, e lo avrebbe volentieri sempre fatto. Da diciotto anni a quella parte, poi, aveva un motivo in più per amare sua moglie: si chiamava Giulia e aveva gli occhi di sua madre.
«Lo so, – Eppure non credeva che quello della ragazza per il giovanotto in questione fosse vero amore. – ma pensare di avere qualcosa di sbagliato è l’errore più grande che tu possa fare. Per quanto io stimi Steve, suo figlio deve essere proprio un imbecille se non ti trova attraente. Non che questo mi dispiaccia, intendiamoci, preferisco che nessuno scansafatiche ti faccia la corte».
«Per quanto riguarda Gio non c’è pericolo che accada...» sospirò la ragazza, sprofondando sempre più sul divano e nella propria tristezza.
Francesco non riuscì a trattenere una risata, guadagnandosi un’occhiataccia da parte della figlia. «Scusa, Giuly, ma mi sembra di vedere tua madre qualche anno fa».
«Che c’entra mamma?» chiese Giulia, sempre più spaesata. Suo padre non stava operando esattamente nel migliore dei modi, non faceva che dire sciocchezze quel giorno. Che non riuscisse più a comprenderla, improvvisamente? Si stava scoraggiando sempre più.
«La mamma era innamorata di me».
Giulia gli rivolse una seconda occhiataccia. «Non mi dire?»
Francesco rise di nuovo. Sentire il sarcasmo uscire dalle labbra di sua figlia, come scoprire che persino Rocco Agostini si era laureato, era uno di quegli eventi che lasciava allo stesso tempo spiazzati e sul punto di scoppiare in una grossa e grassa risata. Francesco, in entrambi i casi, si abbandonava al riso.
«Credi forse che io e tua madre siamo sempre stati fidanzati?» domandò retoricamente.
Giulia lo guardò confusa. «Be’, no, ovviamente. Non ci credo in certe cose: principe azzurro e il primo amore che dura per tutta la vita. Le brutte esperienze sono necessarie» rispose.
L’uomo si chiese per quale motivo, allora, Giulia si preoccupasse tanto. Sapeva come andavano le cose, sapeva che nella vita bisognava soffrire, eppure se ne stava seduta sul divano con l’aria distrutta e deprimente di uno zombie. Pensò, tuttavia, che fosse saggio non dire nulla in proposito e continuare con il discorso che aveva in mente.
«Voglio raccontarti una storia, Giuly. – proclamò con un sorriso indecifrabile. – Quando avevo la tua età ero un grandissimo stronzo».
Giulia sgranò gli occhi con incredulità: «Papà!» esclamò con aria sconvolta.
Francesco rise di gusto per la sorpresa della figlia. Era naturale che per lei lui fosse una sorta di eroe, un uomo meraviglioso e infallibile, ma la realtà non era esattamente quella. Era tuttavia lusingato dall’alta stima che Giulia nutriva nei suoi confronti. «Lo so, è incredibile, ma...»
La figlia scosse il capo. «No, non è questo. Insomma, è credibilissimo che tu sia stato uno stronzo, – puntualizzò, lasciando il padre con un palmo di naso. – ma hai detto una parolaccia!»
Questa volta fu Francesco a rimanrci di sasso. La guardò qualche istante senza capire, poi scoppiò nuovamente a ridere. «Oh, Giulia, sei spettacolare! – esclamò. – Ho smesso di usare certi termini quando sei nata, solo perché non volevo che tu li imparassi. Non sai che fatica è stato smettere, passavo più tempo a mordermi la lingua che a parlare. Davvero tu riesci a credere che io sia stato un cattivo ragazzo?» domandò poi, incapace di trattenersi.
La figlia si strinse nelle spalle, sistemandosi la coda di cavallo – cosa che fece ben sperare Francesco sul miglioramento del suo umore. «Sì. Cioè, sei biondo, bello e hai gli occhi azzurri. È un classico, no? Bello e stronzo. Tutte le ragazze adorano gli stronz-»
«Ora smetti di ripetere quella parola, però» la rimproverò Francesco, in parte infastidito dalla confessione dalla figlia e in parte dal continuo sentir ripetere quella parolaccia. Aveva passato mesi a mordersi la lingua e a inventarsi esclamazioni pittoresche con cui sostituire le imprecazioni, lo irritava vedere che la sua fatica fosse stata sprecata.
Giulia ridacchiò con aria colpevole e il padre riprese il racconto. «Dicevo? Ah, sì. Alla tua età ero un ragazzo ‘poco simpatico’, ecco. Tuo zio Alex mi odiava con tutto se stesso,  ancora più di oggi».
«Lo zio non ti odia! – puntualizzò la ragazza. Suo padre continuava ad insistere con quella storia, ma era una sciocchezza che si era inventato. – Se ti odiasse non ti avrebbe mai permesso di badare i gemelli, no?»
Francesco fece una smorfia, pensando che, al contrario, era proprio perché lo odiava che lo costringeva a tener d’occhio quelle insopportabili pesti che aveva per nipoti, tuttavia glissò sull’argomento. «Quando andavo al liceo, non portavo rispetto per nessuno, tantomeno per le persone che non conoscevo. Su una cosa ci hai visto giusto, Giulia: piacevo ad un sacco ragazze, ma a me non importava di nessuna, non seriamente. Un giorno sentii una ragazzina più piccola gridare qualcosa di evidentemente riferito a me. Non ricordo le parole esatte, ma so per certo che fecero tanto ridere Rocco».
«Ma d’altra parte ogni cosa lo fa ridere – commentò la figlia. – Era la mamma, vero?»
Francesco sorrise. «Esatto. Aveva detto che ero brutto, o qualcosa di simile. Ovviamente non si aspettava che io avessi sentito, ma di fatti era così. La incontrai da qualche parte il giorno seguente e poi ancora. Non mi aveva fatto una particolare impressione: era bassa, goffa e portava l’apparecchio ai denti. Insomma, niente di particolarmente interessante; a quel tempo in una ragazza guardavo solo le...  – si schiarì la voce, imbarazzato. – il fisico, insomma. Non avevo nemmeno notato quei meravigliosi occhi di cui mi sarei poi, anni dopo, innamorato. Sei davvero fortunata ad avere i suoi occhi, Giulia» le assicurò, non riuscendo a trattenere un sorriso innamorato.
La figlia solitamente si sarebbe esibita in una smorfia disgustata, ma non quel giorno. Soffriva per pene d’amore e sentire la voce di suo padre così piena di sentimento le fece sorgere spontaneo un sorriso. Avrebbe mai un uomo raccontato con tanta emozione a sua figlia di come aveva incontrato lei?
«Vai avanti» lo intimò.
Francesco non se lo fece ripetere due volte, ormai immerso nei ricordi. Sembravano passati secoli da allora, ma ancora si sentiva male quando pensava al suo comportamento. «Feci una scommessa con mio cugino. Gli avevo raccontato di averla udita starnazzare a proposito di quanto fossi normale e non avessi nulla di particolare. Mi sfidò a farla innamorare di me e poi piantarla... e io naturalmente lo feci».
Giulia rise. «Sembra un film! Poi, ovviamente, tu ti sei innamorato davvero e hai cercato di riconquistarla» indovinò.
L’uomo sospirò con un sorriso amaro. «Non esattamente. Io feci ciò che mi era stato detto e Sophia si prese una gran bella cotta per me. Poi io smisi di farmi vivo. La evitavo nei corridoi della scuola e cercavo di starle sempre alla larga per farle capire che era tutto finito. Lei evidentemente era un po’ tarda e continuava di chiedere di me a Steve e Rocco. Cavolo, li aveva catturati tutti con la sua personalità gentile e spontanea. Io ero l’unico idiota che non si era accorto di quanto fosse meravigliosa... Ad ogni modo, ad un certo punto capii di doverle dire le cose come stavano. Ci rimase malissimo. Rimasi in quella scuola per ancora un paio d’anni, poi mi bocciarono. Per tutto il tempo lei mi evitò come la peste, cercando di dimenticarsi della mia esistenza. Ma continuava a soffrire, tanto che riuscì a farmi sentire in colpa. Ecco perché, al momento della bocciatura, decisi di cambiare scuola: non volevo frequentare la sua stessa classe. Be’, quello e la totale assenza di una qualunque voglia di studiare» puntualizzò.
«Cosa che ho ereditato – ridacchiò Giulia. – Eri proprio stronzo, eh!» sbottò poi, oltraggiata dal comportamento del padre da giovane.
Francesco arrossì per la vergogna. Sì, lo era davvero stato. «Si sbaglia quando si è giovani. Eppure qualche anno dopo l’ho ritrovata e me ne sono innorato perdutamente. Avrei fatto qualunque cosa per lei. Non credevo che sarebbe riuscita a perdonarmi per ciò che le avevo fatto e invece lei non mi aveva mai portato rancore».
«Che stupida!» osservò Giulia sconcertata.
«Ehi, non insultare tua madre, bambina!» la rimproverò il padre divertito.
«Ma è una cosa stupida! – obiettò Giulia, ostinatamente. – Tu l’hai trattata malissimo, io ti avrei odiato a morte!»
Francesco si schiarì la gola, come a ricordare alla ragazza che stava sempre e comunque parlando di lui. «Sì, ma Sophia è fatta così. È una persona buona. Con questo non voglio dire che tu non lo sia, ovviamente, ma tua mamma lo è davvero molto. Esistono poche persone come lei».
«Scusa, ma non vedo il suo comportamento come qualcosa di positivo. Proprio non ci riesco. E tutto questo cosa c’entra con me e Giorgio?»
Francesco sbuffò, chiedendosi quando lei si sarebbe tolta quel tizio dalla testa. Tutto questo non c’entrava nulla con Giulia e il figlio di Steve, era un modo come un altro per distrarla e farle capire che «Non tutto è perduto solo perché ora va male, Giulia. – disse con estrema serietà. – La ruota gira: oggi va male, domani meglio, dopodomani ancora peggio di prima e fra un settimana tutto sarà perfetto. Si soffre, ma non bisogna mai arrendersi, bisogna sempre andare avanti e fare del proprio meglio. Non bisogna lasciarsi scoraggiare dalle avversità, sono proprio quelle a rendere rendere migliore la prospettiva della felicità. Capisci?»
La ragazza rimase in silenzio. Distolse lo sguardo da quello del padre e respirò a fondo. Rifletté sulle parole appena udite. «Quindi, magari, - azzardò la ragazza, alzando lentamente gli occhi per incontrare quelli di suo padre. – fra qualche anno Gio si accorgerà di me?»
Francesco sospirò.  «O magari troverai un altro ragazzo, uno migliore, uno che ti ami e ti faccia sentire importante. – tossicchiò. – Un ragazzo serio. Ehm, il più lontano possibile nel tempo, magari» specificò. Non aveva intenzione di vedere sua figlia in mano ad un ragazzo scapestrato solo per sostituire Giorgio; proprio come non voleva che qualcuno gli portasse via la sua bambina tanto presto. L’avrebbe protetta dal mondo il più a lungo possibile, perché, con quella conversazione se ne era reso conto più che mai, ne aveva davvero bisogno.
«Oh, non fare il geloso, papà!» trillò la ragazza, ridendo. Si alzò di slancio e corse ad abbracciare l’unico uomo che, ne era certa, sarebbe sempre stato lì per lei. «Ti voglio bene» gli disse, schioccandogli un bacio sulla guancia.
Francesco la abbracciò di rimando, sperando che non tutti i ragazzi fossero come lui, che non tutti avessero bisogno di far del male ad una ragazza prima di capire quanto fosse meravigliosa. «Te ne voglio anche io, bambina» rispose, sorridendo tra sé.

18 maggio 2012

Peldicarota Steve



Peldicarota Steve
Ovvero come innamorarsi nonostante il proprio – profetico – pessimismo cronico.




Steve Tanner era un giovane uomo come tanti; aveva numerosi conoscenti, un solo vero amico e una cotta stratosferica per una ragazza poco adatta a lui. Studiava in un prestigioso college, come gli era stato imposto dai genitori, e appena ne aveva la possibilità schizzava a casa, dove poteva vedere la famiglia, il suo migliore amico Matt e aveva buone possibilità di incontrare la sua Mariah Thompson.
Era il ragazzo della porta accanto, quello un po’ sfigato ma leale. Quello che, cinque anni prima, quando arrivava l’estate e la città si svuotava, usciva in cortile e teneva compagnia alla vicina di casa tredicenne, salvandola dalla noia che rischiava di uccidere entrambi.
Steve aveva diciotto anni quando l’aveva conosciuta e, allora, i suoi compagni di classe si divertivano a trovare mille motivi per sfotterlo: non aveva mai avuto una ragazza, tanto per cominciare. Aveva un’assurda ossessione per i numeri e la matematica, lunghi capelli rossicci alla Axel Rose –ritenuti assolutamente ridicoli – e soffriva d’acne. Peldicarota Steve, così lo chiamavano. Il fatto che passasse tanto tempo con “una strana ragazzina dall’aria stupida” non migliorava la sua situazione. Steve non era mai stato molto sicuro di sé, ma aveva la certezza matematica – o quasi – che le cose, prima o poi, sarebbero andate per il verso giusto, quindi aveva continuato per la sua strada e si era beato del tenero ottimismo di Mariah finché aveva potuto. Poi era andato al college e da allora era cambiato tutto, era cambiato lui. Era cresciuto e lo sfigato che era stato lo aveva portato ad essere qualcosa di meglio: la sua ossessione per la matematica gli aveva procurato una borsa di studio, l’acne era a poco a poco guarita e i capelli color carota – opportunamente tagliati – avevano attratto diverse ragazze niente male. Non era diventato popolare, ma si era guadagnato una reputazione accettabile rimanendo sempre se stesso. Lo stesso non si poteva dire, a quanto pareva, della piccola e sognatrice Mariah. Anche lei era cambiata, a quanto dicevano i suoi informatori – ovvero Matt, il suo sempre fedele amico, che nonostante le proteste gli riferiva tutte le voci che circolavano su di lei. Si diceva che fosse diventata una squilibrata, un’ubriacona. Una sostenitrice accanita dello sballo in tutte le sue forme. L’unico appellativo che le mancava sembrava essere “ninfomane” e Steve, nonostante il suo storico pessimismo, aveva tirato un sospiro di sollievo scoprendolo: almeno qualcosa della ragazzina che aveva conosciuto si era salvato.
Nonostante cercasse continuamente informazioni su Mariah e continuasse ad avere un debole per lei, Steve aveva una mentalità piuttosto fredda e disillusa e per questo aveva scelto di non buttar via quegli anni della sua vita aspettando una ragazza che non aveva mai mostrato alcun interesse per lui. Era stato fidanzato più volte durante i cinque anni trascorsi lontano da lei, ma ogni volta che tornava a casa e la incontrava tutti i suoi buoni propositi andavano a farsi friggere assieme alla sua relazione del momento. E, ogni volta,si dava dell’idiota al momento di sorbirsi la scenata della sua neo-ex-ragazza, ma non riusciva a resistere a quegli occhi azzurri dall’aria perennemente meravigliata. Si era innamorato come un fesso, non c’era nulla da fare.
Un bel giorno di fine estate, poi, lo stomaco di Steve si era stretto in una piacevole morsa, mentre controllava la casella di posta elettronica. C’era un’email di Mariah, che lo invitava alla sua festa di compleanno per i diciannove anni.
“No”, era stato il suo primo pensiero. “Quella ragazza sta monopolizzando fin troppo la mia vita, non ci andrò!”.
Eppure due giorni dopo era nella sua città natale e metteva a dura prova i nervi della sorella minore di Matt, offertasi di aiutarli a trovare un regalo adatto a una ragazza. Il suo migliore amico non riusciva più a smettere di ridere e di prenderlo in giro, la povera Judie stava per gettare la spugna e Steve era sull’orlo di una crisi isterica, per quanto calmo a pacato fosse usualmente.
«Senti, io ci rinuncio! - sbottò la ragazza, fermandosi nel bel mezzo della strada. Puntò il dito indice sotto il naso di Steve, corrucciata. – Non puoi farti andare bene qualcosa?Non sarà grazie al regalo di compleanno che cadrà ai tuoi piedi, vuoi capirlo?»
«Io non ho intenzione di...»
«No, certo, tu non vuoi farla cadere ai tuoi piedi. Anche quest’anno la saluterai poi te ne starai in un angolo a osservarla strusciarsi contro il ragazzo di turno – suggerì Matt, scettico. Gli mise una mano sulla spalla, poi continuò, serio: – Amico, smettila di farti del male, ok?»
Steve si passò una mano tra i capelli rossicci e sbuffò. «La tua premura è commovente, davvero» berciò, come unica risposta. Alzò gli occhi al cielo e ricominciò a camminare, senza una vera e propria meta. La realtà era che sapeva benissimo di non aver speranze con lei. Matt aveva ragione, se ne sarebbe stato in disparte, a declinare le attenzioni di qualunque ragazza interessata a un tipo più grande e a rosicare vedendo Mariah con qualcun altro. Che altro avrebbe potuto fare? Era un amico di vecchia data, non era nemmeno più il migliore perché, com’era ovvio che fosse, in cinque anni lei si era trovata nuovi amici. Amiche, per fortuna, o Steve temeva che sarebbe seriamente caduto in depressione vedendo qualche ragazzo girarle attorno con la stessa confidenza che si era guadagnato lui negli anni.

Judie rivolse un’occhiata interrogativa al fratello, vedendo l’altro bighellonare con le mani in tasca e l’aria da cane bastonato. Matt le fece segno di lasciare perdere: «Siamo entrati in fase “Chissà se si ricorda di me”» spiegò a bassa voce, scrollando il capo.


«Anche tu sei imbucato, quindi?»
«Non propriamente. Il signorino qui presente è un invitato e mi ha costretto a venire. Ha una stratosferica cotta per la sign-...»
Ci mancava solo che Matt si mettesse a raccontare all’amichetta della sua bella i fatti suoi. Molto carino da parte sua. Si meritava pienamente la gomitata nelle costole che gli aveva appena rifilato.
«Ahia!»
Steve finse indifferenza, continuando a fissare con aria assorta il barista preparare un cocktail. «Eh? Hai detto qualcosa, Matt?»
«Ma dico, sei scemo? Mi rompi una costola!»
Il solito esagerato. «Ossa di pasta frolla, amico?»
La ragazza – Pam, si chiamava, o forse Pan – scoppiò a ridere di gusto e Steve si sentì vagamente soddisfatto di se stesso. Qualcosa di buono era riuscito a fare, quella sera. Prima che potesse dire qualunque cosa, qualcuno chiamò il nome di Pam – o Pan che fosse – e lei si voltò.
Steve non ne ebbe il bisogno di farlo. Non conosceva quella voce, ma non era stato difficile notare lo sguardo di Matt farsi vacuo e la sua schiena irrigidirsi. Questo significava solo una cosa: la dolce ragazza dai capelli turchesi era nei paraggi.
Rimase qualche istante a osservare l’amico, divertito, poi assestò un calcio allo sgabello su cui era seduto. Lui gli rivolse un’occhiata truce e Steve scoppiò a ridere. «Comunque Matt non vedeva l’ora di vedere quella Lily, checché ne dica» specificò a voce piuttosto alta, in risposta alla verità quasi spifferata poco prima.
Il ragazzo cercò di spingerlo giù dalla sedia, mentre Pam borbottava qualcosa di incomprensibile. «Hai detto qualcosa?» si informò Steve, aggrappandosi al bancone per non crollare, ma la brunetta in questione stava già correndo via di fretta, schizzando tra la gente.
«Che ragazza strana» osservò, sistemandosi sullo sgabello.
«È una tipa a posto – confermò Matt. – Al contrario tuo» sottolineò, vagamente divertito.
Steve lo spintonò leggermente a sua volta. «Oh, avanti, sei un infame, amico! Capisco che tu voglia essere simpatico alla confidente di Emma, ma non c’è bisogno di raccontarle i fatti miei».
«Ma smettila, a chi vuoi che lo dica?! – L’altro scrollò forte il capo, schizzandolo con i capelli bagnati. – Comunque si chiama Emily.»
Gli schizzi ricordarono a Steve il motivo per cui erano entrambi bagnati fradici. «Mi devi una birra».
Matt si alzò in tutta la sua – mediocre – altezza e lo guardò sconcertato. «E perché mai?»
«Perché mi hai fatto volare in piscina!»
«Capirai! Cosa sei, una ragazzina?»
«A Pam l’hai pagata!»
«Ma è amica di Lily!»
«Scegli, buffone, o la birra o il cellulare - trattò allora Steve, estraendo dalla tasca il telefonino ormai tragicamente fuori uso. – Morto affogato una sera che potrebbe essere la più bella della mia vita!» infierì teatralmente, reprimendo a stento una risata.
«Certo che ti accontenti di poco. Ma non metterti a frignare, ora! – Matt rise e attirò l’attenzione del barista. – Ehi, scusa! Un’altra birra per la lagna, qui, offro io!»
Quando gli venne consegnata la sua bottiglia di birra e l’altro si accinse a pagarla, Steve iniziò a sghignazzare senza alcun ritegno. «Che pensiero gentile, amico, non dovevi!»
«Non tirare troppo la corda, secchione» gli suggerì l’altro con superiorità, per poi sorseggiare il proprio cocktail con aria annoiata.
«Altrimenti che fai, mi affoghi?» prese una sorsata dalla bottiglia, chiedendosi cosa stesse facendo in quel momento Mariah. Sperava solo che non fosse da qualche parte, ubriaca, con uno schifoso ninfomane di quelli che si imbucavano alle feste per rimorchiare facilmente.
«Scusa, mi fai un Coca e Rhum?» Le viscere di Steve si annodarono e lui rischiò di mandarsi di traverso la birra. Conosceva quella voce, l’avrebbe riconosciuta tra mille. Posò in fretta la bottiglia sul bancone, sotto lo sguardo interrogativo e divertito di Matt. Lui gli rivolse un’occhiata di rimprovero: poteva anche togliersi quell’espressione indisponente dal volto, una volta tanto, con lui quell’aria da angioletto non attaccava.

Matt aggrottò le sopracciglia, sorpreso dall’occhiataccia dell’amico e, incuriosito, seguì il suo sguardo, che andò a posarsi su una ragazza dai lunghi e mossi capelli corvini.

Era lì. “Certo che è qui”, pensò, “è il suo compleanno, imbecille”.
Steve si costrinse a guardare da un’altra parte, poi tornò inevitabilmente a mangiarsi con gli occhi la generosa porzione di gambe messa in mostra da quei pantaloncini neri davvero – davvero – corti. Se Mariah stava cercando di farsi saltare addosso, era sulla buona strada, indubbiamente.
Si sporgeva sul bancone puntellandosi sugli avambracci. Steve ringraziò il cielo – anche se una parte di lui lo malediva – di non poterla vedere da davanti, o chissà cosa le avrebbe fatto. Il suo storico realismo (tendente al pessimismo) gli ricordò che non le avrebbe fatto proprio nulla, perché lei non si sarebbe nemmeno lasciata avvicinare. Il pensiero del suo seno, però, non era semplice da cacciare...
Matt gli tirò un pugno sul fianco.
«Che c’è?» sbottò Steve, costretto a distogliere lo sguardo e voltarsi verso di lui.
«Fai il guardone o la saluti?»
«Non è fare i guardoni quando le ragazze girano mezze nude» sussurrò, puntiglioso. Era sempre assurdamente saccente – e rasentava l’isteria – quando era nervoso. E in quel momento lo era, tanto. Troppo, a dire il vero, era quasi imbarazzante.
L’altro stava per ribattere, ma Steve gli fece cenno di aspettare. Prese un respiro profondo, poi fece ruotare lo sgabello e vi saltò giù. Azzardò qualche passo verso di lei, molto meno distante di quanto a lui non sarebbe servito per calmarsi.
Poteva farcela. Che sarebbe stato mai? Aveva ventitre anni, lei solo diciannove. Era praticamente una bambina, sarebbe stata lei a doversi sentire una Mentos dentro una bottiglia di Coca Cola. E invece...
“Guarda il lato positivo, Steve, se fai la figura dell’idiota almeno la farai ridere. Forse”. Il ragazzo sbuffò: dannazione a lui e al suo pessimismo cronico!
Prese coraggio e andò ad appoggiarsi al bancone, di schiena, proprio accanto a Mariah. «Pensavo che le diciannovenni bevessero qualcosa di più sofisticato» se ne uscì, fissando la massa di gente che si dimenava di fronte a lui, senza davvero vederla. Fu mentre si stava intimamente rimproverando per aver cercato di attaccar bottone con una frase così idiota, che il volto sorpreso di Mariah comparve nel suo campo visivo. Si era piegata indietro per vederlo in faccia. Era così vicina e aveva quegli occhi così azzurri. Pregò di non essere arrossito.
«Peldicarota Steve! – esclamò lei, meravigliata. – Sei venuto!»
Sbang. Uno schiaffo sarebbe stato meglio di quello sfigatissimo soprannome.
Avrebbe potuto studiare per tutta la sua vita e diventare il ragazzo più bello del continente, ma sarebbe rimasto sempre e comunque il secchione dai capelli rossicci. Peldicarota Steve. Tanto valeva cambiar nome e trasferirsi in Alaska.
«Un Peldicarotasteve anche per me, grazie!» esclamò, rivolgendosi al barista. Se doveva essere un buffone a vita, tanto valeva far divertire qualcuno ed essere utili alla società. Quando Mariah scoppiò a ridere di gusto, gettando indietro il capo, il cuore gli fece una capriola e non potè fare a meno di sorridere. Si ritrovò a sperare che la frase “facendo ridere una ragazza sei a metà dell’opera” fosse vera.
«Questo si chiama senso dell’umorismo! – osservò la ragazza, piegando il capo da un lato. – Finalmente te ne sei procurato uno!»
Abbozzò un sorriso. Continuava ad accoltellare la sua autostima. Steve osservò il suo sorriso dolce e sincero e si disse che in fondo non gli importava nulla dell’autostima, era una cosa così futile in confronto a lei.
Se essere sfigato l’avrebbe fatta ridere ancora, lui avrebbe fatto il secchione a vita. «C’era il trenta per cento di sconto a un supermercato. Ho calcolato che su mille euro ne avrei risparmiati trecento, quindi ho dedotto che fosse davvero conveniente...» lasciò la frase in sospeso, rendendosi conto di quanto dovesse sembrare ridicolo. Matt lo avrebbe deriso a vita. Doveva smetterla, era un uomo ormai. Se a lei di lui non importava, avrebbe dovuto arrendersi e basta. Perché continuare a umiliarsi ogni volta che la vedeva?
Mariah rise di nuovo. «Non credevo saresti tornato quest’anno, sai? – ammise, afferrando il bicchiere che le porgeva il barista. – Grazie. – sussurrò, affabile, per poi rivolgersi di nuovo a Steve. – Insomma, sei una persona importante, ora. Tua madre non fa che parlare dei tuoi ottimi voti e del tuo futuro, sai?»
Il ragazzo si grattò il mento. Sua madre era imbarazzante, come al solito. Era necessario sbandierare la sua nerdaggine? «Sì, be’, sai come sono fatte le madri: esagerano sempre! La mia in particolare...» si schermì, ridacchiando come un idiota. Era destinato a fallire. Come poteva conquistare una ragazza se continuava a comportarsi da bambino?
Mariah prese un sorso dal bicchiere, osservandolo con gli occhi sgranati. Non era stupore, era semplicemente il suo buffo modo di prestare attenzione, Steve lo sapeva bene. Nonostante il passare del tempo e i cambiamenti avvenuti, continuava a saper interpretare con esattezza ogni suo gesto. «Sei eccezionale, Steve, non è possibile esagerare sul tuo conto» gli assicurò con tanta serietà che lui non potè non arrossire. Scoppiò a ridere, non sapendo come altro reagire a una frase del genere. «Rettifico: anche tu esageri!» bofonchiò, alzando gli occhi al cielo.
La ragazza gli fece una linguaccia, senza tuttavia insistere su quell’argomento che, era lampante, lo imbarazzava. «Allora – iniziò, allegra. – Vieni a fare quattro salti?»
Steve aprì bocca per rispondere, ma non fece in tempo, perché lei lo aveva già preso per un braccio e lo stava trascinando verso la massa di corpi che si dimenavano a bordo vasca. «Ah! Mary! Ma non devi finire di bere? Non è il caso, insomma... quante probabilità ci sono che Peldicarota Steve sappia ballare?» Non gli piaceva l’idea di dimenarsi in mezzo ad altra gente. L’occasione per farlo c’era stata molte volte negli anni e quando la sua ragazza del momento a una festa decideva di ballare, Steve non aveva mai osato rifiutare. Eppure con Mariah era diverso. Il pensiero di stare vicini, sfiorarsi e magari abbracciarsi gli mandava in pappa il cervello. Era matematico – Dio solo sapeva quanto! – che avrebbe perso la testa e avrebbe fatto qualcosa di stupido. Come arrossire e ridacchiare come un idiota o magari baciarla.
Mariah rise, prendendo un altro sorso dal bicchiere che reggeva nell’altra mano. «Perché, credi forse che io abbia preso lezioni di ballo?»
«Certo che l’hai fatto, in seconda liceo!», puntualizzò Steve con la voce acuta di quando era nervoso. Lei riconobbe al volo quel tono e rise. «Non devi farti tanti problemi, basta divertirsi!»
Sì, certo, bastava che si divertisse. Il problema era che anche lui era uno di quei decerebrati per i quali divertirsi con una ragazza per cui avevano una mostruosa cotta da un vita significava finire come minimo col pomiciare. Non che Steve fosse uno di quei farfalloni con il pallino del sesso ma era pur sempre un uomo e, per quanto rispettasse Mariah, vedendola trotterellare in giro con le gambe quasi del tutto nude non riusciva a trattenere qualche pensiero poco galante.
Mariah però non demordeva. Odiava che il pudore privasse la gente di sano e semplice divertimento. «Falla finita, Steve! Da quando ti fa paura la musica? Un tempo vantavi uno stile da Axel Rose che...»
«E va bene, e va bene, hai vinto! Non lamentarti se ti farò sfigurare, però!» ammiccò lui, ostentando una sicurezza di sé che in quel momento decisamente non aveva. E neanche se ti pesterò un piede, pensò, arresosi al di lei volere.


È curioso come a volte le situazioni si evolvano in maniere bizzarre, senza alcuna logica apparente.
Steve era steso sul letto e osservava beatamente il soffitto, sentendo la gioia riempirgli il torace e la testa. Iniziava a credere che fosse stato tutto un sogno ma, a dirla tutta, non aveva affatto voglia di pensare. Non gli importava scoprire se si fosse inventato tutto o meno.
Non avrebbe mai immaginato che una cosa simile sarebbe successa veramente, eppure era stato così.
Aveva trascorso l’intera serata con Mariah. Tutta la serata.
Avevano ballato e riso fino alle lacrime dei propri ridicoli passi improvvisati. Lui le aveva offerto da bere ed erano rimasti ore a parlare del passato, delle avventure vissute insieme e separati.
Si erano poi resi conto di aver fatto davvero tardi: il locale si era vuotato e la gente rimasta si appartava o rimetteva l’anima in piscina. C’era stato un «Dai, ti accompagno a casa, tanto la strada è la stessa», seguito da un sorriso gentile. In macchina avevano cantato a squarciagola le canzoni più commerciali del momento, ridendo come non mai dei testi insulsi e ripetitivi. Al momento dei saluti, poi, Mariah l’aveva baciato.
Steve realizzava in quel momento che, se avesse dovuto prendere lui l’iniziativa, non sarebbe mai successo. Aveva sempre pensato che non ci fossero possibilità che accadesse, non aveva mai preso in considerazione l’idea che potesse essere lei a unire le loro labbra per la prima volta.
Il suo primo pensiero era stato “Cazzo!”, il secondo “Dev'essere ubriaca, devo andarmene”, mentre il terzo “No che non lo è, al diavolo il pessimismo!”. Così Steve aveva risposto con trasporto al bacio e lei lo aveva trascinato in casa.
Il ragazzo sorrise, sentendo Mariah mormorare qualcosa: si stava svegliando.
Il sole entrava dalla finestra, filtrato dalle tende bianche. Lui non era mai stato in quella stanza prima di allora, ma non assomigliava all’idea che la gente della città si era fatta di lei, non descriveva la Marijuana Thompson di cui gli erano arrivate notizie. Era arredata in modo semplice e disordinatamente ordinato. C’erano decine di fotografie incollate alla rinfusa sull’armadio. C’erano i genitori di Mariah, gli animali domestici che aveva avuto negli anni, vecchie immagini di quando lei era piccola. C’erano le sue amiche e c’era anche lui.
Bastava guardarsi attorno per capire che lei era rimasta la sua Mariah di sempre, quella spontanea e bizzarra, quella a cui non importava nulla di ciò che gli altri pensavano di lei.
Steve infilò i boxer (ancora umidi dal tuffo in piscina della sera prima) e andò a guardare le fotografie da vicino. Osservò il se stesso di qualche anno prima, rendendosi conto di quanto sarebbe stato difficile che qualcuno non lo considerasse un barbone. Con l’etichetta di sfigato se l’era cavata ancora bene!
Ridacchiò tra sè, strofinando la mano contro il mento.
«Oh mio Dio!»
Steve si voltò, sentendo Mariah trasalire. Era seduta sul letto e si copriva con il lenzuolo. Lui arrossì sotto il suo sguardo sorpreso, non sapendo come comportarsi. Non era esattamente come svegliarsi nella stanza della propria ragazza dopo una notte brava, con lei era tutta un’altra storia.
«Ehm... buongiorno!» azzardò, sorridendo con aria terribilmente impacciata. Steve sentiva chiaramente Matt ridergli dentro la testa: l’avrebbe preso in giro a vita, se solo l’avesse visto in quel momento!
Lei distolse lo sguardo, incerta. «Cavolo, l’ho fatta grossa», la sentì commentare sottovoce.
A Steve quelle parole non piacquero per nulla. «Cosa vuoi dire?»
Mariah si alzò portando con sé il lenzuolo. Camminò in giro per la stanza alla ricerca di qualcosa, poi afferrò una maglia troppo grande per lei, con su stampato il logo dei Guns N’ Roses. «È tua questa?» domandò frettolosamente.
«No, è tua. È il mio regalo di compleanno. È enorme, lo so, ma pensavo... – Steve sbuffò, rendendosi conto di essere stato solo un povero illuso pensando che lei sarebbe andata a letto con lui da sobria. - ... non lo so, che pensavo» concluse, improvvisamente furioso con se stesso. Si era fregato con le proprie mani, avrebbe dovuto dare ascolto al suo buon senso, la sera prima.
«È bellissima, in realtà. Perfetta in questo momento» lo corresse Mariah. Si gettò il lenzuolo sulla testa e infilò la maglia al riparo da occhi indiscreti, che avevano già avuto modo di scorgere ogni cosa durante la notte. Le stava grande, enorme, ma copriva tutto ciò che ora il pudore rendeva conveniente nascondere.
«Sicuro» commentò, scettico. Steve osservò l’involtino primavera umano raggiungere il cassetto del comodino e prendere un paio di mutandine. Distolse lo sguardo per lasciarle un minimo di privacy e ne approfittò per indossare i propri vestiti.
Quando tornò a guardarla, Mariah aveva gettato via il lenzuolo e lo guardava timidamente, dondolando sui talloni. «Mi sa che ho fatto un casino, eh?»
Aveva gli occhi lucidi, i capelli scompigliati, una maglia di diverse taglie più – avrebbe potuto essere sua – e le gambe nude. Steve non poté fare a meno di notare quanto fosse bella in quel momento. Non rispose, continuò ad osservarla, senza riuscire a ragionare lucidamente.
Lei sospirò. «Steve, io...»
Lui la zittì con un gesto della mano. «Non importa, ok? Scommetto che non ti ricordi nulla di ieri sera».
Mariah aprì bocca per rispondere, aveva l’aria confusa. Abbassò il capo con aria triste e lui la prese come una conferma. «Bene. Anzi, benissimo. Insomma, sarebbe difficile da spiegare alla mia ragazza, non trovi? Non sono più Peldicarota Steve, non me la faccio più con le ragazzine». Sputò quelle parole con astio, come se quella menzogna potesse sostituire la realtà. Lui una ragazza non ce l’aveva e, anche se l’avesse avuta, a quel punto non avrebbe più retto il confronto. Immaginarlo era una cosa, ma fare l’amore con la ragazza di cui era innamorato era tutta un’altra storia. Non sarebbe più stato lo stesso ora, con nessuna. Si era rovinato da solo.
La ragazza non rispose, limitandosi a sedersi sul letto con aria dispiaciuta.  
Avrebbe voluto insultarla, inveire, rinfacciarle gli anni trascorsi pensando solo a lei e le giornate spese a sentirsi uno sfigato – Peldicarota Steve – pur di starle accanto. Avrebbe voluto elencare ogni presa in giro subita, ogni ragazza mollata per lei. Ma non lo fece.
Raccolse le sue cose, schiumando di rabbia e la salutò freddamente.
Mariah non disse nulla, si limitò ad attendere in silenzio il rumore della porta d’ingresso che si chiudeva. Ascoltò la portiera dell’auto di Steve aprirsi, poi chiudersi e la macchina partire. Perché lui non sarebbe andato a casa, non quella mattina, non in quelle condizioni.
Si gettò con la faccia sul cuscino e si abbandonò alle lacrime. Si sentiva uno schifo, si sentiva fragile. Aveva sopportato per anni menzogne sul proprio conto, ma in quel momento non sarebbe riuscita a sostenere nemmeno il peso della maglietta che indossava. Le sembrava che tutti gli insulti che le avevano affibbiato nel tempo le calzassero a pennello.
Portò un lembo della maglietta che indossava al naso, sperando di percepire il suo odore. Ma non avrebbe mai potuto profumare di Steve, era stata acquistata in un negozio, non era mai appartenuta al ragazzo.
Era stata una stupida, aveva rovinato tutto. Per cosa, poi? Lui era fidanzato e lei si era illusa – illusa come la ragazzina che era – che potesse esserci qualcosa di più. In una sola notte era stata capace di rovinare un’amicizia durata anni.

10 maggio 2012

Cows and jeans. 19



19


“Dove vuol che me la metta una scopa?! Basta, è definitivo: detesto questo posto! Cosa ci faccio qui? Combino guai e quando non ho fatto niente, arriva una stupida vecchia bigotta a darmi della ladra! A me! Cristo Santo!”
Furiosa. Ero a dir poco furiosa.
Che fossi un’incapace era ormai risaputo, ma ladra mai! Con che faccia tosta quella donna mi incolpava?! Nemmeno mi conosceva!
“Pan!” mi chiamò qualcuno.
“Muori!” risposi, stizzita, senza nemmeno voltarmi o chiedermi chi ci fosse.
Solo allora mi accorsi vagamente dei passi nello sterrato, dunque di qualcuno che correva dietro di me.
“Non è carino da parte tua!”
Kameron comparve al mio fianco, ma non accennai a fermarmi. Carino? Carino??! Cosa me ne fregava di ciò che era carino o non lo era, in quel momento?! Tanto ero una schifosa ladra, no?! Non mi curavo di ciò che era carino! “Non me ne frega niente” risposi, senza nemmeno accorgermi che non era stato lui a parlare.
“Fermati, dai! Non sei stata tu!” intervenne la stessa voce dello stupido commento sulla mia cortesia.
“Oh, questo lo so, Robin!” dissi, brusca. “Che cosa ci fai tu qui, poi?! Fila a casa, tua cugina ti starà cercando!”
Entrambi si fermarono, forse, perché sparirono per qualche istante dal mio campo visivo; poi però tornarono a trottarmi attorno come stupidi cani troppo allegri, ignorando l’insegna luminosa che svettava sulla mia testa: Sono una cavolo di ladra, lasciatemi in pace o vi fregherò le mutande!
Tutto ciò era assurdamente indecente. Se qualcuno aveva ancora una buona opinione di me, ora sicuramente non l’aveva più. Mi sentivo furiosamente frustrata, ma anche umiliata. E impotente. Non avrei potuto più decidere del mio destino, non avrei potuto scegliere come comportarmi, che impressione dare agli altri di me stessa. No, aveva scelto Cassie, sbagliando per giunta, e ora non potevo più cambiare le cose, se non con un’immane fatica. Presto tutti avrebbero parlato di me come di una poco di buono e considerate le dimensioni del paese forse lo stavano già facendo.
Tutto ciò solo perché una nevrotica vipera non aveva esitato a puntare il dito contro di me quando aveva perso la sua stramaledetta zappa!
“Pan, calmati!”
“No, Kameron, non mi calmo proprio per niente! Odio che mi si diano colpe che non ho! E ne ho tante, per la misera, perché inventarsene altre!?”
“Neanche a me piace …” convenne Robin a mezza voce.
“A nessuno piace!” tagliò corto l’altro. “Ma noi non pensiamo che sia stata tu!”
“No, no!” lo appoggiò il ragazzino.
“Oh, grazie, ma le cose non cambiano! Quella schizzata avrà già chiamato la polizia!” sbottai, non molto rincuorata. “Il punto è, Kameron, che non me ne sta andando una giusta! Anzi, le cose peggiorano sempre di più!” sbuffai di nuovo. “Robin, adesso basta, vai a casa! Tua cugina si caccerà in un mare di guai se non ti trova!” Sapevo bene come ci si sentiva, e non avrei augurato a nessuno –neanche alla ragazza che aveva preso il mio posto- di patire quell’angoscia che si prova nel sapere di aver perso un bambino e nel preoccuparsi per lui fino quasi a farsi venire l’ulcera.
“Il signor Lucas sa che Rob è con me, non preoccuparti” spiegò Kameron.
“Senti, so di essere egoista, ma non è per lui che mi sto preoccupando. Sono un tantino impegnata ad autocommiserarmi e a mandare accidenti, in questo momento! Ma l’hai sentita quella? Secondo lei ho rubato una zappa! Ma, dico, che diavolo ci faccio io con una zappa?! Magari adesso pensa anche che…”
“Nessuno pensa che sia stata tu!”
“Cassie sì!”
“Ma non ha prove!”
“Oh, bè, questo cambia molte cose. È la sua parola contro la mia, chissà di chi si fiderà la gente! Della piccola e viziata principessa combina guai – che sembra il titolo di un cartone animato, porca miseria! - o della vecchia Cassie che vive qui da anni e tutti conoscono?” continuai, decisamente scettica.
Kameron mi si parò davanti, facendomi inchiodare sul posto per non schiantarmi contro di lui. “Stai zitta un secondo?!”
Lo guardai, esterrefatta. Non potevo nemmeno sfogarmi? Che diritto aveva lui di seguirmi e poi anche intimarmi al silenzio? Incrociai le braccia con stizza, per manifestare la mia posizione di protesta ininterrotta nonostante l’obbedienza.
Robin rise della mia espressione e Kameron sorpirò. “Non c’è motivo per imbestialirsi così, va bene?”
No, non andava bene proprio per niente! Ma non mi diede il tempo di strillarglielo in faccia.
“Cassie non si fida di nessuno e una volta al mese esce in piazza a sbraitare contro una congiura ai suoi danni! Ormai non le crede più nessuno!”
Sbuffai. Convincente, ma troppo poco per calmarmi. “Ammesso e non concesso che tu abbia ragione, “sibilai, “questa situazione rimane comunque avvilente e degradante!”
Robin lanciò un’occhiata confusa a Kameron, che doveva avere più o meno la sua stessa età cerebrale. Avrei dovuto procurarmi un ‘Brain Training’ e un NintendoDS per verificarlo, mi dissi con un’imponente e giustificata dose di acidità.
“Cosa vuol dire?”
“Significa che è arrabbiata lo stesso” tradusse l’altro, con un sospiro. “E dai, Pan!”
Dai, Pan? Dai, Pan, COSA??!
Mi avevano fatto passare da ladra davanti a mezzo paese e, secondo lui, non avrei dovuto prendermela? Santo cielo. Santo cielo! Buono quanto volete, ma Kameron sfiorava dei picchi di deficienza che pochi esseri umani avevano mai raggiunto!
Mi limitai a lanciargli un’occhiata in tutta risposta, per non dover mandare a quel paese l’unica persona che potevo considerare amica in quel posto.
Respirai a fondo un paio di volte, cercando di calmarmi.
Robin rise e sentendolo non potei evitare di sorridere.
“Come mai siete qua?” Me ne uscii, infine, riuscendo a soffocare almeno un po’ la rabbia.
Kameron sorrise, dimostrando di apprezzare il mio enorme sforzo. “È nato un vitello da una delle vacche” intercettò la mia occhiataccia. “Ehm, scusa, mucche- e volevo portare Robbie a vederlo”.
No, un attimo un... “Un vitellino?” Ebbene sì, mi ero appena illuminata più di quanto sicuramente non avesse fatto il suddetto ragazzino alla stessa notizia, nonostante tutto.
“Già!”
“Posso venire anche io?” domandai, arrossendo leggermente per l’imbarazzo. Era ridicolo, lo sapevo, avanzare una proposta simile e cambiare totalmente atteggiamento dopo una sfuriata come quella. Ero così infantile alle volte...
“Sì, dai, tanto non ha nient’altro da fare, Kam: è disoccupata!” approvò Robbie, con aria allegramente esperta.
Gli lanciai un’occhiata. “Grazie, per un istante me ne ero quasi dimenticata...” commentai con amarezza.
I due stupidi risero e Kameron mi diede una pacca di incoraggiamento sulla spalla, a cui risposi con un sorriso tirato.
“Forza, andiamo a prendere il pick-up, allora!”
Mi irrigidii. L’ultima cosa di cui avevo bisogno era tornare in paese e affrontare Cassie e tutti gli altri. Magari anche il nonno. Mai sarei riuscita a sopportare sguardi di biasimo e rimprovero camminando tra la gente. Sapendo di non meritarli, per giunta.
Sentii gli occhi iniziare a pizzicare e voltai loro le spalle. “Ho bisogno di stare un po’ da sola, andate voi, io vado un po’ avanti a piedi...”
“No, dai! Vieni!” protestò Robin.
“Va bene, a dopo” lo contraddisse Kameron, con molto tatto.
Mi voltai a guardarli solo quando sentii i loro passi abbastanza lontani.
Il ragazzo gesticolava, mentre spiegava qualcosa al bambino, il quale si voltò a guardarmi. Certa che da quella distanza non potesse vedere le lacrime, mi sforzai di sorridere e lo salutai con la mano. Poi ricominciai la mia pigra marcia senza meta.
Continuavo ad asciugarmi le lacrime dicendomi che non avrei dovuto piangere, che non avrei dovuto farmi trovare così da Kameron e Robin al loro ritorno, che poteva avvenire da un momento all’altro. Ma era difficile; ero stata licenziata tre volte nel giro di due settimane scarse e l’ultima mi avevano anche dato della ladra. Come se io avessi mai potuto fare una cosa del genere! Non prendevo nemmeno più di un tovagliolino in gelateria per non approfittarne! E mi incolpavano di rubare una zappa – che oltre a non servirmi e a non sapere come avrei potuto portarla via senza farmi scoprire, non sapevo nemmeno esattamente come si usasse!
Alzai lo sguardo dai ciottoli della strada sterrata e mi guardai attorno.
Rabbrividii.
Mi sentivo assurdamente insignificante nel bel mezzo della vastità dei campi.
C’era un punto –quello- nel sentiero che portava alla fattoria del nonno da cui il paese pareva incredibilmente piccolo, lontano e sperduto; dalla parte opposta le strade erano particolarmente rade e lontane dalla strada. Tutto ciò che c’era lì intorno erano campi. Vaste distese di piante il cui frutto era stato ormai del tutto raccolto. Lì mi sentivo sempre particolarmente insignificante.
Mi fermai,gustandomi quella sensazione che normalmente avrei fuggito, ma in quel momento non riuscivo a voler abbandonare.
Se sono piccola ogni mio errore non è poi così enorme, no?Di solito cercavo di distrarmi. Non era piacevole quel senso di impotenza, mi aveva sempre spaventato.
Ma questa volta era diverso. Mi inquietava, sì, ma quella situazione mi rappresentava: non solo mi sentivo, ma ero realmente piccola e impotente. Quasi irrilevante. Una bambina nel mondo dei grandi, come Pin**, un bambino vecchio e fuori luogo in un mondo troppo adulto e brutale. Piccoli e insignificanti, ci muovevamo entrambi tra le campagne trovando un posto adatto a noi. Un luogo che forse non c’era.
Il suono di un clacson mi riscosse dai miei pensieri, spaventandomi.
Sobbalzai e vedendo Robin e Kameron ridere attraverso il finestrino mi ritrovai a fare lo stesso.
Il pick-up si fermò e, prima che potessi aprire la portiera, la testa bionda di Agatha si sporse dal cassone. “Qua dietro, principessa! Lasciamo ai bambini i comodi sedili!”
E così mi ritrovai di nuovo a farla ridere nel tentativo di rimanere seduta più o meno stabilmente, sulla strada per casa Towell dove mi aspettavano dei meravigliosi bovini.
“Io nemmeno volevo venire” mi disse Aggie mentre mi aiutava a scendere, una volta arrivati. “poi però Kam…-eron ha detto che c’eri anche tu e ho pensato che sarebbe stato divertente”.
Sorrisi, colpita da quella frase. “Grazie!” esclamai, con spontaneità.
Lei rise. “Intendevo che sarebbe stato divertente perché ti comporti come una bambina quando vedi le vacche, ma …prego!”
“Sei… tremenda!” boccheggiai, scoppiando poi a ridere per l’imbarazzo. “Proprio come tuo fratello.” Aggiunsi, in un borbottio. Con orrore mi ricordai che al mio ritorno a casa, Dean sarebbe stato lì a prendersi gioco di me. Non sapevo come lo avrei sopportato, ma per quel momento decisi di non pensarci. Mi bastava sapere che almeno Kameron, Agatha e Robin si fidavano di me. Questo mi dava coraggio. Un bel po’.
“Muovetevi!” strillò Robin correndo avanti a tutti.
Aggie mi lanciò un’occhiata e allungò il passo, sorridendo.
La seguii e quando fummo davanti alla porta della stalla mi fermai un istante per respirare a fondo. C’era un contrasto emotivo pauroso, dentro di me. In parte non stavo nella pelle all’idea di poter finalmente vedere il vitellino di cui mi avevano parlato; ma soprattutto ero travagliata da pensieri negativi su colpe non mie, umiliazione, rabbia e incertezza. Non sapevo cosa avrei potuto fare l’indomani e avevo un folle timore di ciò che avrebbe pensato mio nonno una volta udite le voci che certamente erano già giunte nel saloon. Chiusi gli occhi cercando di calmarmi prima di farmi prendere del tutto dal panico.
“Pan!”
“Arrivo!” sospirai e varcai la soglia.
Venni investita dall’odore della stalla, che se prima notavo appena, ora era impossibile da ignorare. Mi lasciai pervadere da una sensazione improvvisa di calma. Prendetemi per pazza, non lo negherò –e come potrei farlo? -, per me quella puzza era profumo di serenità e infanzia. Era legato a pensieri e ricordi positivi che quell’odore risvegliava nel mio inconscio infondendomi pace e un pizzico di nostalgia. Ma di nostalgia buona, quella che fa sorridere.
Avanzai lentamente verso l’ultimo box, quello più grande, salutando prima la cara e vecchia Agatha e poi sfiorando il naso di tutte le altre mentre passavo.
“Ma guardala” ridacchiò Aggie, prendendomi in giro. “sembra un bambino in un negozio di caramelle”.
Kameron mi lanciò un’occhiata divertita e io feci loro una linguaccia per ripicca.
Quando vidi il cucciolo, mi venne naturale scoppiare a ridere. Era estremamente buffo: goffo, allampanato e rossiccio.
“È un maschio?” domandai.
Kameron alzò bruscamente la coda della povera bestia e annuì. “Proprio così!”
“Spudorato!” lo rimproverai, vagamente divertita.
Robin rise, senza tuttavia aver capito la parola –ne ero sicura.
“Che c’è?” Agatha parlò per Kameron che mi guardava confuso.
“Nessuno ti tira giù le mutande per vedere se sei maschio o femmina, Kameron!” replicai, con ovvietà.
“Ah, fate pure! Per me non c’è problema!” scoppiò a ridere sguaiatamente.
La neo-madre muggì infastidita dal fracasso.
“Tanto non c’è nulla da vedere” Agatha lo freddò con un sopracciglio inarcato e la sfida negli occhi.
Robin e io ridemmo, mentre Kameron lanciò un’occhiata truce all’amica, severo.
Questo mi fece ridere ancora di più. Come c’era da aspettarsi, Kam non poteva essere sempre sereno e spensierato, non poteva trovare tutto divertente, doveva pur averlo un punto debole! E di fatti ora lo conoscevo: odiava essere colpito nel suo orgoglio di uomo. Dietro quel volto da bambino allegro si nascondeva un grande e grosso ragazzo orgoglioso della sua virilità. Prevedibile, ma inaspettato. Oh, quanto mi sarei divertita a stuzzicarlo!
Tornai presto a concentrarmi sul vitello, che ora veniva allattato dalla madre. Li osservai a lungo, talmente assorta che mi accorgevo appena dei due che continuavano a battibeccare a mezza voce e delle risate di Robin.
“Come si chiama?” me ne uscii, interrompendo la sfida verbale – senza contare che tanto avrebbe vinto Agatha, non c’era storia.
Kameron mi guardò per qualche istante, prima di uscire dalla fase devo-avere-io-l’ultima-parola-perché-sono-un-uomo-e-sono-più-forte e metabolizzare la domanda. E la mia, diciamocelo, era complicata, come richiesta.
“Non ha un nome, ancora, Molly l’ha partorito da pochi giorni e nessuno si è preso la briga di…”
Scoppiai a ridere come una scema, interrompendolo e attirando i loro sguardi interrogativi.
Non ero impazzita del tutto, no. Il punto era questo: goffo, allampanato, rossiccio, la madre Molly. Ormai mi conoscete, fate i vostri conti!
“Non si può che chiamarlo Ron, allora!” sghignazzai.
Dopo qualche istante di confuso silenzio, Agatha e Kameron risero, presto imitati da Robin, che, come tutti i bambini, se c’era da ridere rideva, anche se a volte non ne capiva il motivo.
Fu in quella intensa giornata che il mio umorismo potteriano ebbe il suo debutto in società, e risultò persino simpatico a tutte le persone che contavano. Perché era così, a parte mio nonno, le uniche persone che per me significavano qualcosa per me, erano Kameron, Agatha e, sì, anche Robin. A partire da quel momento mi fu sempre estremamente chiaro.



Quando circa un’ora dopo Kameron riaccompagnò Robbie a casa, prima di andare a raccogliere i frutti alla fattoria dei Thompson, mi feci accompagnare e scesi con il ragazzino. Mi fermai a salutare brevemente i bambini e a fare una linguaccia liberatoria a Johnny -ora che finalmente potevo fare ciò che mi pareva senza che ne andasse del mio lavoro-, poi camminai sovrappensiero fino al saloon.
Una volta capito che per la maggior parte delle persona che per me contavano io ero innocente, avevo deciso che era inutile piangersi addosso. Dovevo andare avanti, sopportare, e migliorare la mia posizione più che potevo. Senza contare che non avrei potuto fare molto altro: prima o poi avrei dovuto affrontare mio nonno, Dean e tutto il resto del paese. Inoltre non potevo rimanere con le mani in mano, disoccupata. Anche volendo, non mi sarebbe stato permesso. Ma non lo volevo, poiché i miei genitori, delineando i patti, erano stati chiari: sarei rimasta a Sperdutolandia –yuppie!- almeno finché non avrei imparato a cavarmela da sola, con le mie forze, con i miei soldi. E questa equazione era facile persino per me, che ero una cretina con la C maiuscola: niente lavoro, niente soldi; niente soldi, niente ritorno permanente a casa.
Entrai meccanicamente nel saloon, senza sapere cosa aspettarmi o non aspettarmi, tenni lo sguardo ostinatamente basso, vergognandomi al solo pensiero di ciò che si era sicuramente detto di me, quel giorno. Mi pareva di sentire i commenti meschini che ognuno dei presenti pensava.
Sedendomi al bancone evitai accuratamente di guardare verso il solito posto in cui sedeva Abe, non volevo incontrare i suoi occhi e leggervi delusione.
Presi coraggio e salutai timidamente la donna dietro al bancone. “Ciao, Ginger”. Feci un enorme sforzo per guardarla in faccia, ma fu una fortuna che io l’avessi fatto. Il suo sorriso –lei sorrideva sempre- era sincera, non nascondeva rimprovero né disprezzo, solo compassione e soprattutto solidarietà.
Che nemmeno lei mi considerasse una ladra? Che ci fossero speranze di vivere ancora in pace, e magari trovare persino un lavoro senza doversi inginocchiare, implorare e giurare fedeltà eterna?
“Ciao, Pan. Capitano tutte a te, eh?” mi salutò, cercando di tirarmi su il morale. “Vuoi qualcosa da bere? Una coca-cola?” domandò, gentilmente.
Sospirai, abbozzando un sorriso per metà amaro. “Sì, grazie” risposi. Estrassi dalla tasca qualche moneta che mi ero portata al lavoro, per poter comprare il pranzo proprio lì, nel bar. “Non lo so, Ginger, me ne capita una dietro l’altra. Poi, andiamo!, anche a rigor di logica, per quale motivo dovrei rubare una zappa se faccio la commessa? A cosa mi serve? Anzi, no, il punto è proprio questo: perché dovrei rubare qualcosa?? Non sono una ladra! Non ho mai nemmeno usato i bagnoschiuma nei bagni degli alberghi perché non erano miei!” Le parole mi fluirono dalla bocca da sole, sgorgando come lava dal cratere di un vulcano che non aveva ancora finito di eruttare e non aveva intenzione di acquietarsi troppo presto. “Sono solo enormemente sfigata. No, anzi, non è nemmeno questione di fortuna o di una dannata sorte o chissà che. Il problema è che sono un’idiota. Sono una piccola e stupida incapace. Ho fatto un sacco di errori che avrei dovuto evitare e Dio solo sa quanti altri ne combinerò!”
“Ehi, ehi, ehi, per favore calmati, va bene?” mi frenò Ginger, ridendo. “Non dire certe cose. Capita a tutti di sbagliare, l’importante è impegnarsi per rimediare”.
Sospirai, scontenta. Certo, la faceva facile! Non era lei ad essere stata accusata di furto davanti a mezzo paese, non era stata lei ad aver mandato a quel paese il suo capo –con ragione, tornando indietro l’avrei rifatto mille volte!-, non era stata lei ad essere stata licenziata. “Come si rimedia a una zappa rubata, ad un’accusa di furto e ad un licenziamento?”chiesi, imbronciata.
Ginger aprì una lattina di coca, ci mise una cannuccia gialla e la posò sul bancone. “Si cerca un nuovo lavoro e ci si mette tutti insieme alla ricerca della zappa”.
Azzardai un’occhiata verso Abe che ci osservava da sopra il giornale. Mi voltai di nuovo verso Ginger, mettendomi a giocherellare con la cannuccia, gli occhi sgranati e lo scetticismo nello sguardo. “E chi assume una presunta ladra?”
“Chi non pensa che lo sia”.
La guardai, interrogativa. “Chi non pensa che io abbia rubato quel coso? Insomma, voi vi fidate tutti gli uni degli altri, io spunto dal nulla, faccio danni e se qualcosa sparisce è chiaro che la colpa venga data a me. Sono esterna a questo mondo di fiducia reciproca, non mi conoscete!”
Nella foga di parlare tolsi la cannuccia dalla lattina schizzandomi e facendo piovere goccioline di coca-cola sul bancone. “Ecco” brontolai, scontenta di me stessa.
Ginger sorrise comprensiva, prese un tovagliolino di carta e asciugò rapidamente la superficie. “Con te ci vorrebbe qualcuno di paziente”.
“Immagino di sì: sono un disastro dalla lingua biforcuta!”
La donna rise, lanciando un’occhiata a qualcuno alle mie spalle. “La lingua biforcuta dev’essere una caratteristica di famiglia”.
Abbozzai un sorriso, immaginando Abe che sicuramente si stava esibendo in una delle sue solite smorfie che dicevano tanto ‘bah, chiudi il becco’. “Già”.
“Io, Pan”.
Cosa? Lei aveva la lingua biforcuta? A meno che non si trattasse di una menomazione fisica, la faccenda era preoccupante se pensava di essere acida quanto me. Solo nonna Margareth era stata più paziente di lei! “Come?”
“Oh, è facile, ne ho già parlato con mio marito, immaginavo che sarebbe stato l’ideale. Anche lui lo crede”.
Erano in due a essersi rimbambiti, allora! Ginger acida? Va bene che prendersi in giro in una coppia rende le cose più divertenti, ogni tanto, ma qui qualcuno iniziava a crederci sul serio!
“Che ne dici, ci stai?” continuò.
Un momento.
Dovevo essermi persa qualche passaggio. “Non sono sicura di aver capito di cosa parliamo”ammisi, mordicchiando la cannuccia, di nuovo immersa nel liquido dentro la lattina.
La donna scosse il capo, divertita, e sorrise. “Vuoi lavorare qui con noi, Pan?”
Sgranai gli occhi per la sorpresa. Diceva … “Davvero?!”
“Perché no?”
“Non mi stai prendendo in giro, Ginger?”
Mi alzai in piedi, senza sapere il perché. Era vero? Era forse troppo facile, era … ma chi se ne fregava se era facile o no! Non avrei potuto chiedere di meglio, non avrei nemmeno saputo cosa chiedere di meglio! Ginger era la persona più gentile e paziente che avessi mai conosciuto –eccetto la nonna-, sembrava essere in grado di comprendermi più di quanto non facesse mia madre da anni, ormai. Era fantastico!
Rise. “Ti brillano gli occhi. Anche se avessi avuto intenzione di scherzare, a questo punto non avrei proprio il cuore di negarti questo posto di lavoro!”
“Oddio, grazie!” mi tuffai in avanti per abbracciarla da sopra il bancone e, così facendo, rovesciai la lattina, che Ginger rimise in piedi prima che l’intero contenuto si versasse.
Mi ritrassi, costernata. “Sono un disastro!” soffiai a mo’ di scusa.
Sentii Abe bofonchiare la sua esasperata approvazione e mi incupii di più. Forse non meritavo quel lavoro. Non meritavo che qualcuno fosse così gentile con me, non con tutto il mio egoismo e tutta la mia stupidità. Avrei fatto qualche danno anche quella volta, me lo sentivo.
“Oh, non fare quella faccia. Migliorerai. Iniziamo subito col pulire questi schizzi, ok? Tu che dici, Abe?”
Mi voltai a guardarlo, senza sapere cosa aspettarmi. Il nonno abbassò nuovamente il quotidiano con un sospiro. “Siete maggiorenni e vaccinate, dovete saperlo voi quel che volete fare!”
Vecchio burbero balordo! Mi raccomando, non incoraggiarmi troppo!
Gli feci la lingua, per manifestare il mio disappunto dovuto al suo disinteresse, nonostante sapessi che dietro quelle parole si nascondeva un’approvazione. Abraham aggrottò le sopracciglia in un modo che mi ricordò terribilmente papà quando io e Joshua cercavamo di convincerlo che nella dispensa ci fosse un mostro –lo facevamo per divertimento, di tanto in tanto, convinti che lui potesse crederci.
“Sono d’accordo. Quindi ci vediamo qui tutti i giorni alle otto, tranne il venerdì e il sabato”.
Sul mio volto si era allargato un sorriso così ampio che probabilmente mi si vedevano anche i denti del giudizio –non ancora cresciutimi, per altro. Volevo comunicarle con quel sorriso tutto l’entusiasmo, la gratitudine e la speranza che mi stavano scoppiando dentro, senza dover mettermi a strillare come una di quelle galline che nei film strillano di entusiasmo per qualunque cosa.
“Rischi una paralisi, così” bofonchiò Abe, tornando a nascondersi dietro il suo giornale.
Questa volta scoppiai a ridere di gusto, trovando nelle risa il modo più bello ed efficace per sfogare la mia esplosione emotiva.
Ginger fece lo stesso, contagiata dalla mia risata, e mi strinse a sé in una abbraccio decisamente materno, di quelli che non ricevevo dalle medie, cosa che aumentò la mia voglia di ridere e di ricominciare tutto da capo, senza inutili errori, questa volta.


Note:
*Nella prima riga Pan parla di una scopa. È sempre la zappa del capitolo precedente, ma nella foga ha sparato un nome a caso, senza curarsene troppo. Tanto, ricordiamolo, sta parlando da sola –o come si suol dire, sta farneticando.
**Pin: è il protagonista di Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino. Libro che ho adorato, ve lo consiglio. :3 Parla della guerra partigiana.

01 maggio 2012

Cows and jeans. 18


18


Il sabato mattina ero nel saloon, immersa in un’esilarante sensazione di dejavou, accanto a Ginger, con davanti la stessa bacheca di qualche tempo prima, pullulante di post it su cui erano scribacchiate le richieste dei paesani.
“Bene, vediamo cosa c’è di buono” commentò Ginger, mentre trattenevo le risate. Perché, ok, la sensazione di dejavou poteva essere anche vagamente divertente ma di certo non sarebbe stato opportuno scoppiare a ridere quando ero appena stata licenziata. Dubitavo che qualcuno potesse pensare a me come ad una persona anche solo vagamente intelligente, ma un minimo di contegno dovevo comunque tenerlo, giusto per non degenerare del tutto.
“C’è un posto dal veterinario” disse.
Ridacchiai, immaginando si trattasse di uno scherzo, e attesi che mi proponesse qualcosa di sensato.
Passò quasi un minuto, durante il quale lei continuò ad osservarmi paziente, ma la seconda proposta non arrivò quindi alzai lo sguardo su di lei, sgranando gli occhi. “Ma io non sono in grado! Cioè, bisogna essere laureati, io vado ancora al liceo!” esclamai, spaventata.
La donna aggrottò le sopracciglia poi scoppiò a ridere. Qualcosa non quadrava.
"Penso che tu non abbia capito. Intendevo come assistente, non come veterinaria!”
Mi balenò nella mente un’immagine di una sala operatoria in cui i muri erano tutti schizzati di sangue e un pazzo medico –che per qualche motivo mi apparve con la faccia di mio fratello- strillava i nomi degli assurdi strumenti di tortura che avrei dovuto passargli, mentre operava a cuore aperto un elefante.
"In che senso?”
Ginger mi sorrise, con un sorriso che sembrava intimarmi alla tranquillità. E di fatti mi calmai.
“Dovrai solo gestire la sala di attesa.”
Fu con quelle parole che il secondo capitolo di quello che assomigliava sempre più ad un assurdo videogioco – di quelli in cui si ricominciava dallo stesso punto ogni volta che si perdeva una vita – ebbe inizio.


“Di solito l’ambulatorio è tranquillo, ma capitano giorni in cui è sovraffollato e allora non c’è modo di lavorare senza che mi scoppi un mal di testa allucinante” stava spiegando Mr. Sorrow grattandosi distrattamente una guancia sotto la barba folta e bruna.
Annuii distrattamente, mentre osservavo l’ambulatorio veterinario. La sala d’aspetto era effettivamente minuscola, non dubitavo che affollata fosse un qualcosa di insopportabilmente rumoroso. Specie se ogni persona aveva con sé un animale lamentoso.
Abraham mi lanciò un’occhiataccia, accorgendosi che stavo prestando attenzione solo in parte lo sconclusionato discorso del veterinario. In realtà avevo ascoltato le spiegazioni più utili – l’elenco dei miei compiti, gli orari di lavoro e le istruzioni sul lavoro – ma tutti i commenti sul mal di testa e le noiose notazioni scientifiche sull’anatomia animale – o qualcos’altro, non ne ero sicura – non mi importavano molto. Così ignorai anche l’occhiataccia del nonno, certa che nemmeno lui fosse interessate ai due terzi di quello che il veterinario vomitava allegramente.
“Quando posso iniziare?” domandai, quando Mr.Sorrow parve aver finito di parlare a vanvera.
L’uomo si grattò di nuovo la barba, osservandomi pensieroso. Che ci fosse tanto da pensare? Eppure non mi pareva una domanda tanto complicata. Sarei dovuta stare più attenta a ciò che chiedevo, forse.
“Anche subito!” se ne uscì, con un’alzata di spalle.
 Sorrisi, cordiale, e annuii. “E sia!”
Un quarto d’ora dopo era seduta dietro la minuscola scrivania della sala d’aspetto del veterinario, a guardarmi intorno confusa. La stanza era microscopica e anche essenzialmente vuota. Persino ad una persona pigra come me sembrava assurdo non-lavorare in quel modo. C’erano quattro sedie di legno di fronte a me e un porta ombrelli. Stanza vuota, sedie vuote, portaombrelli vuoto. Ambulatorio dannatamente silenzioso. Che il signor Sorrow si fosse addormentato? Lo invidiavo.
L’unica cosa pericolosamente rumorosa era la mia mente, che ciarlava, ciarlava, ciarlava e ciarlava –un po’ come aveva fatto il veterinario poco prima – mentre la mia mano scarabocchiava con una bic nera su un post it. E quando dico che scarabocchiava non si tratta di falsa modestia volta a celare il mio idilliaco talento nell’arte del disegno. Intendo dire proprio che scarabocchiavo: spirali, righe – storte–, cerchietti –ondeggianti-, croci, quadrati anneriti e sbilenche faccine di ogni tipo. Oh, e ovviamente anche gli epici mascheroni neri che sovvenivano quando la noia prendeva totalmente il sopravvento su qualunque mia capacità di autocontrollo e devastavo con quella sorta di nera maledizione tutto il post it appena riempito. Dopodiché lo buttavo nel cestino e ricominciavo da capo con un altro.
Noia.
Noia con la N maiuscola.
N – o – i – a.
Che lavoro era, se non dovevo fare altro che imbrattare foglietti e contenere la mia insofferenza? Perché sì, ero un tipo pigro, ma non soffrivo la noia. (Come tutti, effettivamente). Non mi annoiavo facilmente, fedele com’ero al dolce far nulla, ma quando capitava ero insopportabile.
Sbuffai, iniziando a dondolare sulle gambe posteriori della sedia, una mano a farmi da appoggio sul piano del tavolo.
La porta dell’ambulatorio si aprì di scatto proprio in quel momento seguito un’assordante belare. Inutile dire che caddi sulle quattro gambe della sedia per lo spavento, con un’espressione sciccata in volto.
“Signorina, c’è Mr. Sorrow?” gridò nel panico una donna dai ricci capelli bianchi. Sembrava stremata, poverina.
“Sì, certo” mi alzai in piedi e scattai verso la porta che separava la sala d’aspetto dall’ambulatorio vero e proprio. “Signore, c’è bisogno di lei, qui. È arrivata una signora con una pecora e stanno strillando entrambe. Ma dormiva?!”
L’uomo, seduto alla sua scrivania con la testa posata sulle braccia, a loro volta adagiate sul piano del tavolo, mi lanciò un’occhiata truce. “Certo che no!” si alzò in piedi. “Falle entrare, presto!”
Lo guardai scettica per un istante, mentre spalancavo la porta e invitavo la donna ad entrare con la sua pecora. Poi la richiusi e tornai alla mia scrivania, domandandomi quale fosse il problema di quello stupido animale.
Certo che non la invidio, mi ritrovai a pensare dopo poco. Oltre alla malattia, quella povera bestia aveva dovuto sopportare la gigantesca umiliazione di farsi trascinare al guizaglio per tutto il paese, partendo da chissà dove, poi. Se non la ucciderà la malattia –qualunque essa sia-, lo farà la vergogna, pensai.
Persino i condannati all’impiccagione, che come lei avevano una corda legata al collo, avevano più dignità di quella pecora. Almeno loro avevano un motivo per opporre resistenza, almeno i condannati avevano anni vissuti e da vivere a cui pensare e qualcosa per cui struggersi. Lei invece era inerme e impotente e non poteva nemmeno decidere della sua sorte. Che sventurato ovino. Anche se era un animale stupidamente indisponente mi dispiaceva per lei. Che poi probabilmente era un lui, non lo sapevo. Come si distinguevano le pecore femmina dalle pecore maschio? A parte una sbirciatina nelle parti intime, ok. Ma mi sembrava una cosa tanto barbara andare nella sala medica e guardare sotto ad un qualunque animale. Sì, avevo sempre pensato che fosse una mossa profondamente maleducata. Un po’ di pudore, insomma, non guastava. Se avessero riservato lo stesso trattamento agli uomini, per capire se si trattava di maschi o di femmine?
Avrei dovuto chiedere a qualcuno indicazioni su come distinguere il sesso di un ovino. Al veterinario, magari, così avrebbe potuto vomitare fiumi di parole un pelo interessanti, una volta tanto. La giornata infatti non prometteva di voler vivacizzarsi particolarmente, anche i gemiti scontenti della pecora non si udivano più attraverso la porta –che l’avessero soppressa? Quale terribile barbarie!
Meno di mezzora dopo, tuttavia, la vecchia signora, ora molto meno isterica, fu spinta in sala d’aspetto assieme alla sua povera pecora dalla zampa fasciata. Il dottore le seguì, ciarlando ovviamente: “Non si preoccupi, presto il suo animale starà bene. Dovrà solo evitare di costringerla a fare lunghe passeggiate almeno per un po’, altrimenti quella slogatura non guarirà mai” stava rassicurando l’anziana. “Ora vi troviamo un passaggio per tornare a casa. Pan, vai al saloon e manda Terrence a chiamare il signor Gilbert. Abbiamo bisogno del suo furgone o la signora non potrà tornare a casa assieme alla pecora.”
Mi alzai in piedi, annuendo, sollevata di poter finalmente fare qualcosa. “Subito!” confermai schizzando fuori dall’ambulatorio. Qualunque cosa pur di abbandonare quel noioso luogo infestato dalla puzza della noia. (Non so esattamente che tipo di odore abbia la noia, ma quando lo si respira lo si riconosce. È un po’ lo stesso fetore che riempie l’aria quando sei chino sui libri mentre fuori c’è un sole che spacca le pietre, l’estate è alle porte e sotto la tua finestra ci sono mandrie di bambini urlanti che giocano beati senza la minima preoccupazione per la tua interrogazione di chimica del giorno seguente). Senza contare che comunque quello era il mio compito: dare una mano al veterinario.
Quindi, chiedendomi per quale motivo la vecchia avesse portato in paese la pecora al guinzaglio quando la poveretta aveva una zampa dolorante, corsi per le stradine di Sperdutolandia Town ed entrai al bar, dove con un fiatone da inespertissima maratoneta –quale ero- biascicai a Terrence le istruzioni datemi da Mr.Sorrow.
Fu presto evidente, però, che avessi omesso qualcosa, poiché il dato signor Gilbert si presentò tre quarti d’ora dopo davanti alla sede veterinaria con la sua tremolante alfa romeo di un’altra epoca, talmente piccola da non avere nemmeno i sedili posteriori e quindi totalmente inabilitata al trasporto di una vecchia con la sua bestia.
La strigliata che mi beccati dopo che la belante coppia se ne fu andata a bordo del furgone –che il signor Gilbert aveva avuto il buon senso di tornare indietro a prendere- fu la più noiosa e petulante che io avessi mai udito in diciotto anni e quasi quattro mesi di vita. Quel posto di lavoro era la sede della noia e probabilmente io ero stata assunta per tenere compagnia proprio a questa che si stava stancando di essere ignorata e di ascoltare le chiacchiere di quel barbuto oratore da strapazzo. Ma quel lavoro mi serviva. Non potevo perderlo e fui immensamente grata al veterinario di non avermi buttato fuori, che rimasi sveglia fino a tardi a scrivere sul diario un riassunto dettagliato della giornata (per Emily) e a organizzare una tabella di marcia mentale per dare del mio meglio e non sbagliare più. La quale suonava un po’ come un continuo incitamento alla concentrazione.
Ma ovviamente il giorno seguente ne combinai una delle mie. Stanca com’ero per essere andata a letto tardi, mi feci accompagnare da nonno Abe al lavoro in anticipo, temendo di arrivare tardi, e fu così che attesi più di venti minuti l’arrivo di Mr.Sorrow, impalata davanti alla porta. Anche quel giorno l’inattività fu assolutamente snervante, tanto che, giusto per far qualcosa, mi addormentai con la faccia appoggiata su uno dei post it che stavo imbrattando. Quando un ragazzino, che doveva vaccinare il suo cane, entrò sbattendo la porta, mi svegliò. Inutile dire che quando mi alzai di scatto a guardarlo come se fosse stato un’Acromantula, sfoggiando una riproduzione di una montagna di smile scocciati (-.-, per intenderci) sulla guancia. Inutile dire che rise fino alle lacrime, inutile dire che mi sfregai la faccia per un’ora per fare andare via quei segni neri. Utile, invece, segnalare che rimasi intontita tutto il pomeriggio per colpa di quel sonnellino fuori orario e quando mi venne chiesto di far qualcosa –visto che mi pagavano- usai l’AnitraWC per lavare i vetri delle finestre e la vetrina, lasciando tutte le superfici riflettenti ricoperte da comici quanto demoralizzanti aloni bianchi.
Questo fu ovviamente uno solo dei tanti errori che commisi durante quella settimana. Non a caso, quando al mio secondo lunedì di lavoro arrivai all’ambulatorio –in ritardo, questa volta-, trovai un’anziana signora seduta al mio posto e quando chiesi spiegazioni, Mr. Sorrow attaccò con una sorta di opera di ciceroniana di infinita lunghezza che, una volta tanto, mi ritrovai ad ascoltare dall’inizio alla fine, esterrefatta. Il succo del discorso era che aveva assunto nuovamente la sua precedente assistente. Non capivo per quale assurdo motivo dovesse continuare a girare attorno ad una cavolo di rotonda immaginaria a suon di metafore, aneddoti e intercalari, quando poteva andare dritto al punto. “Devi ammettere, inoltre, che non è normale finire tre blocchi di post-it e continuare a dimenticarsi tutte quelle cose” mi disse. Non feci una piega, pensando invece che avrei dovuto usarne molti di più, solo per dispetto. “Quella vecchia è un decisamente noiosa, devo ammetterlo, ma almeno sa fare il suo lavoro senza fare disastri. Senza rancore, eh?”
Misi su un sorrisetto strafottente, che probabilmente gli sembrò solo forzato. “Non si preoccupi, la capisco: so cosa voglia dire lavorare con vecchi noiosi! Arrivederci” lo salutai, lasciandolo lì a grattarsi la barba come al solito.
E fu con (mia) stizza che venni licenziata per la seconda volta. Questa volta, più che demoralizzata, ero furiosa. Con me stessa, con quel soporifero lavoro, con quel decerebrato di un veterinario e con quello schifo di Sperdutolandia.
Quel posto mi detestava, era lampante e in parte anche reciproco. Ma io non avevo intenzione di cedere. Anche solo per dispetto, a quel punto non avrei mollato.
Di fatti varcai la soglia del saloon con un sorriso colpevole in volto e, dondolando sui talloni, un po’ in imbarazzo, chiesi a Ginger se avesse qualche minuto per me.
Lei, sorridente e disponibile come sempre, posò sul bancone lo strofinaccio con cui stava asciugando e mi seguì fuori dal locale.
Le spiegai timidamente la situazione, evitando lo sguardo di Abraham che mi scrutava attraverso la porta di vetro e mi scusai ripetutamente per il disturbo che le stavo arrecando.
“Non preoccuparti, Pan, devi trovare il lavoro giusto per te. È normale fare un po’ di fatica, all’inizio”.
Non le credetti per niente, ma mi limitai a sorriderle grata. Era sempre così gentile che non riuscivo ad essere acida con lei. Senza contare che non avrei avuto nè motivo nè diritto. “Grazie, Ginger, sul serio, non saprei cosa fare senza di te” dissi, a mezza voce, mentre questa volta consultavamo la bacheca direttamente fuori dal locale, senza nemmeno portarla dentro.
“E’ giusto così: bisogna aiutarsi a vicenda per vivere bene in paese. Sembra che tu fatichi a trovare il lavoro adatto a te, ma non ci diamo per vinte, giusto?”
Sorrisi, ammirata. “Giusto”, confermai, mentre la donna scartava qualche foglio alla ricerca di quello adatto. Per caso mi cadde l’occhio su un’annuncio, diceva che si stava cercando una commessa al negozio di articoli da giardinaggio –da lavoro, trattandosi di Sperdutolandia, dove gli hobby non esistevano! “E questo?” proposi, con scarso entusiasmo.
“Da Cassie? Sì, si può fare. Solo...”
“Solo?”
“Dovrai lavorare sodo per ottenere la sua fiducia. Non si fida facilmente delle persone, ci ha messo molto per adattarsi qui in paese. I primi tempi pedinava tutti i clienti che entravano nel suo negozio, temendo che le rubassero qualcosa. È molto meticolosa nel suo lavoro, quindi dovrai darti da fare. Pensi di farcela?”
“Parla tanto quanto Mr. Sorrow?” domandai.
"No, è un tipo taciturno”.
“Penso che andremo d’accordo, allora” risposi, speranzosa. Bastava non dover sopportare tanta noia come la settimana passata!
Ero pronta a tutto.
Senza contare che le parole tutto sommato buone che Ginger aveva speso per descrivere questa Cassie, mi davano speranza.


Furono tre giorni impegnativi, durante i quali mi resi conto di tante cose. Per prima cosa, ero certa che mi sarebbe venuta un’ernia, prima o poi, a forza di trascinare avanti e indietro sacchi di terra e concime –con un profumino che potete immaginarvi. Secondo, Dean adorava letteralmente vedermi in preda ad una crisi di nervi –motivo per cui mi aveva sfottuta fino all’esasperazione, per essermi fatta licenziare di nuovo. Terzo, Ginger era fin troppo gentile e ottimista: Cassie era la persona più sfiduciosa, sospettosa e burbera che avessi mai incontrato nel mondo reale! Perchè, se proprio dovessi paragonarlo ad un personaggio della letteratura, direi che i Centauri che abitano la Foresta Proibita sono dei gran simpaticoni.
“Muoviti, ragazza, ci sono ancora un sacco di cose da scaricare!” mi esortò la donna. Non poteva avere più di cinquant’anni, quella megera. Doveva essere in menopausa, a giudicare dai picchi di acidità che raggiungeva a intervalli di venti minuti.
“Sì, sto lavorando!” mi lagnai, mentre le passavo di fronte trascinando un sacco da dieci chili di concime.
“Non strisciarlo a terra, si rovina!”
“Cassie, c’è del letame dentro! Non so nemmeno perché tu lo faccia arrivare confezionato, quando qui ci sono mucche dietro ogni angolo! E ne fanno tanta, le mucche!”
La donna mi lanciò una truce occhiata con quei suoi raggelanti occhi azzurri. Insomma, erano raggelanti sul serio. Non avevo mai visto uno sguardo così freddo nascosto dietro iridi di quel colore: solitamente avevano un che di dolce e spensierato, ma in lei non c’era nulla di dolce nè di spensierato. Passava le giornate a rimproverarmi, standomi continuamente col fiato sul collo, attenta ad ogni mio sgarro. Mi metteva tanta pressione, che finivo per far cadere tutto ciò che mi capitava tra le mani. In compenso però, non riuscivo a dimenticare nessun incarico, né a fare grossi errori.
“Tu non capisci.”
No, in effetti non ne capivo il senso, sempre che uno ce ne fosse. Trascinai il sacco dal retro fino all’espositore in negozio. Che poi, a cosa serviva un espositore di concimi? Insomma, era... sterco!
Nonostante ciò, ricominciai a spostare i sacchi, questa volta con il suo aiuto, visto che non voleva strisciassero a terra e si rovinassero. Poi passammo ai vasi e ai vari attrezzi da giardinaggio, fino a svuotare quasi tutto il magazzino. Era già pomeriggio, poiché la mattina la avevamo trascorsa scaricando dal camioncino dei rifornimenti tutti i nuovi arrivi.
Era strano, perché nonostante Cassie fosse un’arpia e sgobbassi come un cammello tutto il giorno, quando tornavo a casa – e grazie al cielo gli orari di lavoro coincidevano più o meno con quelli del nonno e di Kameron, per cui il primo mi accompagnava in paese al mattino e il secondo a casa alla sera, perché ero ancora rigorosamente senza motore – ero tranquilla. Stanca, sì, ma tranquilla. Con il caratteraccio che quella donna si ritrovava, non mi facevo scrupoli a risponderle per le rime, quindi il mio stress veniva in gran parte scaricato in quel modo. Motivo per cui, quando Dean iniziava il suo momento di relax quotidiano e mi rivolgeva le sue frecciatine, ne dicevo quattro anche a lui e mi sfogavo del tutto, o quasi. Inoltre, non appena toccavo il materasso esausta com’ero, mi addormentavo subito e dormivo della grossa fino a quando qualcuno –la sveglia, Abe o Dean- non mi buttavano giù dal letto a pedate.
La mattina seguente, fu sorprendente trovare davanti al negozio di Cassie una piccola folla di persone. C’erano Kameron, il signor Gilbert, Ginger e suo marito, Mr. Sorrow, il signor Lucas con Robin, e una manciata di altre persone che avevo incontrato qualche volta, ma non avrei saputo nominare.
“Che succede?” chiesi, scendendo dalla macchina.
Mio nonno mi lanciò un’occhiataccia. “Non ne ho idea. Sarà una delle solite trovate di Cassie per disseminare panico in paese” borbottò, irritato, dirigendosi come al solito al bar, senza curarsene più di tanto.
Lo guardai entrare, poi mi avvicinai alla folla.
Fui subito accolta da un “E’ lei!”.
Sgranai gli occhi, mentre il mio capo mi indicava, furiosa, e guidava gli sguardi stupiti di tutti i presenti su di me.
Arrossii per l’imbarazzo. “Ciao, Cassie. È successo qualcosa?” domandai, in parte sorpresa, ma soprattutto chiedendomi cosa significasse questo ‘è lei!’. Sì, insomma, ero già stata presentata a gran parte di quelle persone e le altre avevano sentito parlare di me per tutti i danni che avevo combinato ultimamente. Dubito ci fosse qualcuno, comunque, in un paese così piccolo a non sapere chi fossi. Era un po’ inutile fare questa ulteriore presentazione in mezzo alla strada.
“E me lo chiedi pure!?” strillò, furiosa, facendo un passo avanti, verso di me. “Hai anche il coraggio di chiedermelo?!”
“Ehm... sì.” sospirai, mentre capivo quale era stato forse il mio errore. “Ho rotto un sacco di letame, vero? Deve essere caduto dallo scaffale. Lo so, era in bilico, non ci stava, ma tu avevi detto di spostarli tutti... pulisco subito, non preoccuparti!” In fondo ne combinavo una dietro l’altra, era strano che in quei tre giorni non fosse successo ancora nulla.
Cassie rise, vagamente isterica. “Non mi freghi, signorinella!”
“Scusa?” cheisi, senza capire.
Fece un’altro passo verso di me e questa volta, involontariamente, indietreggiai. Sembrava che quella grossa vena orribilmente gonfia e visibile sulla fronte potesse esplodere da un momento all’altro, e la cosa era tanto buffa e comica da risultare inquietante. Insomma, erano cose che succedevano nei cartoni, non nella vita reale!
“Smettila! Smettila subito di fare finta di niente! Vai subito a prenderla! Sei stata tu, ne sono sicura! Non c’è più!”
“Ma cosa?”
Iniziavo terribilmente a sentirmi accusata e non capivo di cosa. Avevo forse perso qualche sacco di merd- ... di concime?
“Quella zappa! Lo so che l’hai presa tu, stupida ragazzina! Non so cosa ti abbiamo insegnato, ma qui non si fanno queste cose! Ora, prima che chiami l’agente Watson, riportami quella zappa!”
E come un fulmine a ciel sereno capii. “Stai insinuando che io abbia rubato qualcosa?!”
“Una zappa! Non lo sto insinuando, lo so per certo!”
“Lo sai per certo?!” Il mio tono aveva giunto il livello dell’isteria. Ero indignata e assolutamente fuori di me. -"Che diavolo sai per certo, scusami?!”
Se Cassie era furiosa come una belva feroce a cui è stato sottratto un cucciolo, io rischiavo di non diventare meno iraconda di lei.
“Lo hai preso tu!” continuava a strillare. “E’ inutile che continui a fare la finta innocente, ragazzina, lo sappiamo tutti che se la colpa di qualcuno è la tua. Ginger ci ha messo secoli per insegnarmi ad aver fiducia di questi zoticoni di campagna e non ho mai avuto ragione di pentirmene! Poi arrivi tu, compari dal tuo treno e butti all’aria la nostra tranquillità con la tua totale incapacità! Chi, ora?! dimmi, chi può avermi sottratto quella zappa, se non una viziata e impertinente ragazzina di città?”
“Mi stai dando della ladra! Sei impazzita? UNA ZAPPA, POI! Ma dove diavolo me la metto una zappa, secondo te?! La incornicio in camera?! O la mando a casa come souvenir!? Dio, Cassie, ma ti hanno detto di berti una dannata camomilla e startene tranquilla, una buona volta?!”
La donna divenne livida di rabbia, e a quel punto iniziò a fare veramente paura. Se non fosse stato che ero così arrabbiata da fregarmene totalmente, forse a quel punto avrei capito che era il caso di chiudere il becco prima che...
“SEI LICENZIATA! LICENZIATA, LICENZIATA, LICENZIATA! Qualuno chiami il signor Watson, questa stupida ladra non deve passarla liscia!”
“Cassie, ma vaffanculo!” sbottai, girando sui tacchi e andandomene a piedi da qualche parte, senza nemmeno sapere dove. Mi limitai ad attraversare la piazza, gesticolando come una stupida, camminando spedita e parlando ad alta voce, da sola.