13 gennaio 2011

Symphathy for the devil

Symphathy for the Devil
Symphathy for the devil è una canzone dei Rolling Stones del '68.
Come il lettore avrà potuto, a torto, interpretare, la canzone è l'ennesimo inno satanista.
In realtà, il testo è stato scritto da Mick Jagger, frontman del gruppo ed interessato alla letteratura russa e, in particolare, al libro 'Il Maestro e Margherita', un simpatico tomo sulle 700 pagine che comincia con la presentazione del diavolo. Anche negli anni '70 si giudicavano le canzoni dai titoli, traducendo l'inglese alla bell'e meglio.
Il resto della canzone non si ispira più di tanto al libro, Mick prende giusto l'ispirazione, ma parla in prima persona, interpretando il diavolo, riesumando i capitoli più abominevoli della vita umana.
Da un punto di vista prettamente ateo, il diavolo perde pian piano, nel corso della canzone, il suo significato esoterico e diventa la personificazione del male dell'uomo  (Gridai:"Chi uccise i Kennedy?"quando dopotutto fummo voi ed io).
La canzone, che forse a sentirla rende di più che con un semplice commento di un fan degli Stones, non è certo un inno satanista, ma un rifiuto, celato da un tono ironico, di tutti gli omicidi, le stragi, e soprattutto le ipocrisie degli ignavi: viene condannato Pilato, come chi ha alimentato l'odio contro i Kennedy.
Symphathy for the Devil, a benvedere, rispetta tutti i punti del movimento Flower Power successivo alla Seconda Guerra Mondiale, racchiudendo dentro di sè un forte odio, ed una forte abnegazione per la guerra (il diavolo era un generale di una non specificata fazione, forse quella nazista), le strage degli innocenti (i trovatori di Bombay), le rivoluzioni 
sanguinose ( a San Pietroburgo, quelle di Febbraio e di Ottobre.
Ovviamente, dovremmo soffermarci su ognuno di questi punti, ma richiederebbe più tempo di quanto lo scrittore vorrebbe ed aiuterebbe meno di quanto il lettore vorrebbe, e, forse, potrebbe avere l'effetto contrario.
Se c'è una cosa vera, però, e che la canzone è, di fatto, un testo poetico soggetto ad interpretazioni, e nessuno, qui, ha intenzione di forzarle.
Vi lascio con il testo della canzone

08 gennaio 2011

Cows and jeans.6

La mattina seguente mi svegliai a causa di qualcuno che assestava forti colpi alla porta della mia stanza. “Muoviti, principessa!”
Lo stordimento post-riveglio, che solitamente mi accompagnava fino a metà mattinata, svanì in un istante. Il solo appellativo “principessa” pronunciato o meno con scherno bastò a farmi ricordare di non essere a casa mia. Quella semplice parola aveva attivato il mio cervello facendo sì che i ricordi della giornata precedente mi si riversassero addosso come una secchiata d’acqua gelata. I sentimenti negativi che la notte aveva fatto assopire si ridestarono in un batter d’occhio e vestirono in fretta gli abiti di una profonda rabbia ornata di frustrazione. Svanito l’effetto più o meno rilassante della doccia, era inevitabile che questa tornasse a farmi visita, e in un certo senso fu un bene. Preferivo decisamente la rabbia alla tristezza che mi bloccava il cervello in una fase di pessimismo e inattività. Con la furia invece, ero sempre portata a reagire. Ora nessuno poteva impedirmi di prendermela col mondo intero.


“Sta’ zitto!” brontolai, affondando il volto nel cuscino, cercando di ricordarmi come si usava il mio corpo. Quelle semplici parole bastarono a far capire a Dean che era riuscito nel suo intento, che quello fosse svegliarmi o farmi arrabbiare prima ancora di prendere conoscenza.
Mentre cercavo di capire come fare per riuscire a muovermi come una persona normale anzichè come un gorilla scoordinato e mi rivestivo in fretta, capii che se non volevo passare una giornata come la precedente mi sarei dovuta appoggiare al mio Manuale di Sopravvivenza e così feci.
Regola numero uno: non piangere.
Ero abbastanza sicura di non star piangendo. Anche perchè ero più arrabbiata che disperata, in quel momento. Tuttavia mi tastai le guance e battei le palpebre più volte, testando che le prime erano asciutte, mentre gli occhi erano privi di quel senso di “secchezza” che li riempiva dopo aver pianto.
Capii di non aver pianto nemmeno nel sonno e ne fui soddisfatta. La piccola Pan, forse, stava riuscendo a farsi forza e ad affrontare la vita come un’adulta.
Respirai a fondo per far fronte anche alla seconda delle regole, e recuperai un po’ di calma. Decisi di aprire la finestra per cambiare aria, mentre mettevo in moto il cervello per trovare i tre fattori positivi nella situazione. Quella era la fase più importante del procedimento, in modo da riuscir sempre a vedere con ottimismo ogni situazione e non sprofondare nello sconforto.
Spalancai i vetri e guardai fuori, respirando a fondo. L’aria fresca e pulita mi riempì i polmoni, mentre la luce rosea e celeste del sole non ancora sorto mi riempiva il cuore. Non mi ero mai svegliata così presto da vedere il sole sorgere.
Guardai rapidamente l’ orologio a muro e scoprii che erano le cinque e mezza.
No, mai così presto in vita mia.
Inspirai a pieni polmoni nuovamente, godendomi quel senso di pulizia che l’aria pura lasciava nella mia mente e dentro il mio torace.
L’ultima volta che avevo assaporato aria così limpida era stato in montagna, durante una delle vacanze annuali della mia famiglia in hotel di lusso. Avevo sempre pensato che andare a vivere in campagna fosse la cosa più bella del mondo. Questo ovviamente prima che fossi spedita come un pacco postale a Sperdutolandia, dove la vita procede scandita dalle regole di un vecchio scorbutico  privo di tatto, la doccia va fatta fredda e breve –come se fosse umanamente possibile stare a lungo sotto un getto d’acqua gelida!- e gli errori vengono puniti lasciandoti senza mangiare ...Ma, miseriaccia, nemmeno nel Medioevo! E che cavolo!
Sbuffai e guardai l’orizzonte. Il paesaggio era indubbiamente stupendo a quell’ora, con la luce rosea del sole non ancora sorto del tutto a pitturare la terra e il cielo come in una fiaba.
Come poteva quel luogo stupendo essere il mio girone dell’ Inferno? Di certo la mia pena non era stata scelta per contrappasso, visto che la solitudine della città mi aveva seguita fino a là, e anche il senso di inadeguatezza.
Ma dove diavolo era il posto adatto a me? Ero destinata a passare da un luogo ad un altro, spedita come un pacco postale da persone stufe della mia apatica e noiosa presenza?
Diedi un pugno al davanzale. Non potevo permettermi di farmi prendere dallo sconforto fin dalla mattina presto. Riportai con la forza la mente al mio Manuale di sopravvivenza e sospirai.
Non era giusto riutilizzare gli elementi positivi del giorno precedente, quindi misi in moto il cervello per trovarne altri tre nuovi. Il primo era sicuramente non essermi lasciata prendere da una delle mie crisi di pianto. Ne trovai altri due decisamente poco validi: avevo visto l’alba e non ero in ritardo per la colazione. Non ancora, almeno. Non erano abbastanza per costituire gli ultimi due elementi favorevoli, quindi decisi di unirli per formare insieme il secondo. Per quanto riguardava il terzo...
Persi lo sguardo nell’orizzonte finchè non sentii un rumore provenire da sotto di me.
Mi sporsi dal davanzale e vidi il nonno camminare goffamente fino al pollaio –che fortuna!, era proprio sotto alla mia finestra- e aprire il chiavistello facendo uscire le galline.
Alzò lo sguardo e mi vide.
Indugiò qualche istante poi abbozzò un sorriso tipico di chi non è abituato ad essere gentile. Chissà perchè non l’avrei mai messo in dubbio.
“Buongiorno” borbottò, imbarazzato dal tentativo di gentilezza.
Mi sforzai forse più di lui per non chiudere la finestra senza rispondergli e lo salutai con la mano, incerta. Insomma, non volevo che pensasse fossi un’ingrata, era pur sempre mio nonno. Però ero arrabbiata. Ma... oh, e che cavolo! Ero lunatica, ok? Il fatto che mi avesse riservato quella minuscola attenzione –nonostante sapessi che il saluto non si nega a nessuno- mi aveva riempito di nuova speranza.
Richiusi la finestra e sorrisi tra me. Bene, se quella piccola scintilla di speranza –che ovviamente era diventata il mio terzo punto positivo- si era riaccesa l’avrei alimentata io, e l’avrei sfruttata per illuminare un po’ quella zona ombrosa che mi circondava. Non potevo di certo considerarla oscurità, alla fine non era così tanto tragica la situazione.
E così, risollevatami con l’aiuto del mio Regolamento, scesi in cucina prima delle sei e, accertatami che Dean fosse ancora chiuso in bagno, preparai la colazione per tutti e tre.
La prima impressione era stata orribile. Sia la mia su quel luogo, sia quella del luogo su di me, evidentemente.
Mentre consumavamo le frittelle che avevo preparato mio nonno se ne uscì con un “Non sono male” che mi riempì mio malgrado di orgoglio. Insomma, sapevo di non essere una maga ai fornelli, a dirla tutta non cucinavo quasi mai, tranne quando riuscivo a convincere i miei a lasciarmi a casa da sola con la scusa del molto studio mentre loro si trascinavano Joshua da qualche parte per il weekend. Però il fatto che qualcuno mi dicesse che stavo facendo qualcosa di giusto mi diede un’ulteriore carica. Allora non mi rendevo conto di quanto potessi sembrare –o forse anche essere- una ragazza cresciuta con carenze di affetto ed attenzioni.
“C’è altro che sai fare?”
“Per esempio?”
“Oh, disegnare fatine e unicorni, ovviamente.” Fu il commento tagliente di Dean, che si guadagnò la seconda rispostaccia della giornata dopo solo mezz’ora che ero sveglia.
“Io mi limito alle cose esistenti, le creature delle fiabe le lascio a quelli che si fumano lo sterco di pecore” borbottai.
Abraham ignorò la risata di Dean e la mia espressione contrita. “Pulire, fare la lavatrice. Occuparti degli animali.”
Feci una smorfia, tornando a guardarlo. “Che tipo di animali?”
Se mi avesse risposto pecore, lo avrei ucciso. Odiavo le pecore. Erano così … ottuse. Mi ricordavano tanto tutti i ragazzi che seguono le mode senza un minimo di gusto o stile personale. Non che io modificassi le mode secondo i miei gusti, ovviamente. Io non le seguivo e basta.
Inoltre, sinceramente, mi facevano paura. Non so perché, ma le trovavo inquietanti.
“Folletti e gnomi”
“Quelli non sono animali, ma esseri semi-umani” lo corressi, con incuranza, continuando a guardare il nonno in attesa di una risposta.
“Galline e un paio di maiali.”
Grazie al cielo.
“Non abbiamo bisogno di lei, Abe” intervenne  Dean. “Insomma, alle galline ci pensi tu, io ai suini e a tutto il resto. Se vuole lavorare può occuparsi della casa o cercarsi un lavoro. Io non ho intenzione di farmi licenziare, non posso permettermelo.”
Osservai i due riflettere sull’osservazione del ragazzo. Io rimasi in silenzio, in fondo non c’era differenza per me tra lo sgobbare in quella fattoria, in quella vicina o nel bar. Tranne per il fatto che forse da qualche altra parte avrei potuto trovare un telefono o un po’ di gentilezza in più.
Tuttavia in angolo nel mio cervello una vocina stava obiettando che non era giusto che fossi io a trovarmi un lavoro lontano da quella che era casa mia per lasciare il posto al biondino irritante lì presente. Tuttavia, ridacchiando dentro di me per l’infantilità di quella voce, decisi che non era il caso di esprimere quelle parole ad alta voce, specialmente in un momento in cui tutto sembrava piuttosto tranquillo, nonostante la mia rabbia ancora in agguato dietro l’angolo.
“Che ne pensi, Pan?”
“Eh?”
Dean sbuffò sonoramente e alzò gli occhi al cielo. “Come volevasi dimostrare. Cosa ci guadagni a dare un lavoro qui alla principessa degli gnomi al posto mio, quando non è nemmeno in grado di rimanere con la mente presente cinque minuti?”
Gli lanciai un’occhiataccia. “Sempre meglio una con la testa tra le nuvole che un insopportabile pallone gonfiato con manie di grandezza.” Ribattei, acida. Poi mi volsi nuovamente lo sguardo a Abe.
“Preferisci occuparti della casa o cercarti un lavoro in paese?”
Paesepaesepaesepaese! Fatemi andare via di qui, fatemi incontrare qualche essere umano dotato di senso dell’umorismo!
“Be’, come dovrei raggiungere il paese?”
“Volando.” Sbuffò Dean.
Lo ignorai. Capivo che il povero piccolo Dean Thomas amasse il Quidditch e volesse viaggiare costantemente volando sulla sua scopa, ma non mi pareva il caso di svelare a tutti i Babbani di Sperdutolandia l’esistenza del Mondo Magico solo a causa della sua incapacità di contenersi.
Involontariamente ridacchiai e lui pensò che stessi ridendo per la sua orribile battuta e non per il sarcasmo in cui galleggiavano i miei pensieri.
“Io vado in paese ogni mattina alle sette.” Spiegò Abraham. “ti potrei portare in macchina. Oppure puoi comprarti un cavallo al maneggio dei Wolfs.”
Cavallo?
Sgranai gli occhi. Ok le pecore, ma … muoversi a cavallo? Dov’ero capitata, nel far west?
Dalla mia espressione Abe capì che aveva detto qualcosa di sbagliato. “… a meno che qualcun altro non ti dia un passaggio. Non hai una macchina, giusto?”
“No, non ce l’ho … ” sospirai, sconsolata. “Un cavallo…?” articolai a fatica. Non potevo proprio crederci.
“Stava scherzando, Vostra Maestà” soffiò Dean, con disprezzo. Alzò gli occhi al cielo e si alzò a lavare la sua tazza. Ovviamente non aveva nemmeno guardato le mie frittelle e si era limitato al caffè.
“Oh” sussurrai, arrossendo. Che emerita figura del caz- …cavolo! E avevo anche il coraggio di criticare il senso dell’umorismo di quella gente?
Oh, in effetti non è che brillassero di simpatia. Che razza di battuta era quella?
Piantala, Pan. Non cercare di svicolare: hai fatto una figuraccia assurda e devi prenderne atto.
Oh Merlino. Era vero.
Che figura.

Alle sette in punto, Abraham mise in moto la sua sgangherata auto -che non ebbi voglia di identificare- e partì lentamente verso il paese. La macchina si lasciava alle spalle un polverone incredibile, degno di quello che nei cartoni animati si alza dietro ai personaggi che corrono.
Ero seduta sul sedile del passeggero e osservavo il paesaggio: campi, campi, campi, qualche fattoria, pecore, pecore, alcune galline nell’aia di una casa … mucche!
“Sono mucche, quelle?” domandai, realmente interessata.
Quegli animali mi erano sempre piaciuti un sacco. Li trovavo … incompresi, senz’altro. Ma soprattutto dolci. Quando andavamo in montagna, quando ancora papà e mamma stavano insieme, facevamo lunghe passeggiate nei pascoli tra queste bestie e avevamo il permesso di accarezzarle. Mi erano sempre piaciute, sì. Forse per i bei ricordi che erano legati a questi animali, o forse semplicemente perché sono strana e i miei gusti non seguono alcuna logica.
Insomma … odio le pecore e amo le mucche. Non deve esserci per forza un perché, no?
“Ah-ah” annuì Abe. “Quelle laggiù e destra sono dei Towell. Noi abbiamo smesso di tenerle dieci anni fa. Come mai lo chiedi?”
Mi voltai a guardare le piccole sagome degli animali in lontananza, sorridendo. “Adoro le mucche.”
Abraham abbozzò un sorriso, senza schiodare gli occhi dalla strada.
Rimanemmo in silenzio per un po’: il paese ancora non si vedeva da nessuna parte. Secondo Abraham distava giusto dieci minuti dalla sua fattoria.
Ad un tratto tossicchiò attirando la mia attenzione. “Come sta tuo padre?” borbottò, stringendo le mani attorno al volante. “Lui e la Donna non stanno più insieme, vero?”
Rimasi in silenzio qualche istante, voltandomi ad osservarlo. La Donna. Non doveva stargli particolarmente simpatica la mamma.
Mi piaceva!
“No, da un sacco di tempo ormai. Mamma si è risposata” parlavo con voce atona, come se ogni emozione riguardo a quella storia fosse svanita da tempo. Forse era così. Certo, a volte faceva ancora male pensare ai miei genitori quando ancora erano sposati. Allora era tutto più semplice e molti dei miei problemi non esistevano. La nostra un tempo era una famiglia tranquilla, felice. Io e Joshua due bambini sereni e allegri, uno molto vivace, l’altra con la testa perennemente persa nei cartoni animati o nei suoi amati libri. Mi mancavano quei momenti, ma avevo deciso di smettere di starci male. Le cose erano cambiate e niente sarebbe più tornato come prima. Poco male, insomma. Il tempo scorre ,passa. O almeno era quello che mi ero sempre obbligata a credere. “Papà sta bene. Non vive più con noi, ma passa molto tempo a casa nostra. Non vuole che George faccia la parte del padre con noi.” Cosa di cui gli ero immensamente grata. “Non sembra infelice.” Conclusi, con un mezzo sorriso.
Abe annuì. “Parlami di tuo fratello”
Mi trattenni a stento dallo sbuffare. Sempre lui. “Joshua? Ha diciassette anni ed è un cretino. Semplice.”
Abraham rise. “Sei tale e quale a tuo padre” commentò, continuando a sorridere alla strada.
Voltai di nuovo il capo verso il mio finestrino e sorrisi raggiante.
Con quella singola frase il nonno si era meritato tutto il mio favore.
Non sentivo più la rabbia di quella mattina, sostituita da una rinnovata speranza verso quell’uomo e quel posto. Forse un piccolo posticino per me a Sperdutolandia c’era, in fondo.
“Siamo arrivati.” Mi comunicò l’uomo indicando un agglomerato di case in fondo alla strada.
Annuii, cercando di farmi coraggio. Avrei trovato un lavoro da lì a poco. Se avessi saputo che sarei finita a lavorare in un bar del far west o in una fattoria col cavolo che sarei andata al liceo.
Well, Pan. Welcome in Sperdutolandia-Town!