07 ottobre 2011

Cows and jeans. 16


16

Quella mattina si stava scatenando l’inferno, di fuori. Il cielo era continuamente squarciato da lampi che sbottavano la loro potenza, mentre tutte le lacrime versate dagli uomini sulla terra e poi salite in cielo si rituffavano al suolo con una violenza inaudita. Tutto ciò poteva anche dirsi comune temporale estivo, ma la versione coniata da nonna Margareth era molto più bella e cupa, si adattava quindi meglio al mio nero umore.
Era stato un tuono a svegliarmi. Maledizione a lui!

Con uno sbadiglio mascherato da sbuffo, mi strappai i muti auricolari dalle orecchie, rendendomi conto con stizza che l’mp3 si era scaricato. Pessima, pessima cosa. Mi alzai e arrancando nel buio cercai a tastoni il caricatore sulla scrivania e tornai al letto per attaccarlo alla presa dietro il comodino. Dopodiché diedi un’ occhiata al cellulare per controllare l’ora e notai che era scarico anche quello. Sbuffai e mi gettai nuovamente sul letto, sconsolata. Non c’erano abbastanza prese in quella casa per ricaricare tutto. Perchè non era solo il telefono, nè l’mp3, quanto più la mia autostima, la mia voglia di fare qualunque cosa, il mio entusiasmo e semplicemente me stessa ad essere a corto di energia.
Rimasi a poltrire –in piedi in mezzo alla stanza come uno zombie- commiserandomi per un po’ di tempo, poi un tuono mi risvegliò dal mio torbido non pensare e mi decisi ad andare ad attaccare anche il cellulare ad una presa per controllare l’ora. Decidendo che non era poi così tardi e che il nonno e Dean si sarebbero svegliati da un momento all’altro, mi trascinai fino al piano di sotto a preparare stancamente la colazione.
Continuai a rimuginare a lungo, afflitta da un totale senso di ineguatezza. Sembrava ogni momento di più che Dean avesse ragione; che fossi una principessina egoista e piena di sé. Tutto ciò che facevo aveva un unico complemento di termine: me stessa. Cucinavo per mangiare, pulivo per non abitare in un porcile, lavoravo perchè davo del mio meglio per non sentirmi una fallita. Anche se di fatti lo ero. Tutto ciò che facevo sembrava destinato a venir distrutto, tutto ciò che dicevo a non aver senso, tutto ciò che pensavo ad essere frutto del vittimismo di una ragazzina adulta solo davanti alla legge. E per quanto quel futile diciotto potesse essere ufficiale, non era che uno stupido numero che mi sbeffeggiava ogni volta che mi veniva in mente.
Cosa avrei fatto ora?
Cosa mi avrebbe detto Abraham? Non avevo nemmeno avuto il coraggio di affrontarlo, ancora.
Come avrei spiegato la mia stupidità?
Come avrei fatto a scontare la delusione che gli avevo arrecato?
Ero un pasticcio, ecco. Un particcio di idee, caduto a terra e rimesso nel contenitore nella speranza che nessuno si accorgesse del danno fatto. Bruciato, per di più. Come il latte che preparai a colazione. Era evidente che avessi lo strano e indesiderato potere di perdermi nei miei pensieri nel momento meno opportuno. In quel caso, mentre scaldavo il latte. Ma soprattutto avevo la capacità paranormale di bruciare il latte! Come si poteva essere così idioti?!
“Buongiorno”. Velata presa in giro di Dean –che aveva un dannato tempismo per beccarmi nei momenti peggiori!- alla vista di un’idiota che gettava nel lavandino il contenuto di una brocchetta di metallo.
“ ’Giorno”. Il bofonchiato saluto di Abraham.
Dean annusò l’aria assomigliando vagamente ad un cane. “Che cosa hai combinato?” Sogghignò.
Stava già gongolando. Che razza di...
Non avevo voglia di rispondergli, quindi rimasi in silenzio mentre sciacquavo il contenitore e vi versavo altro latte.
“Allora?”
“Non chiedermelo”.
“L’ho già fatto. Pensi che risponderai?”
“No”.
Sbuffò. “Senti, principessa...” incominciò.
“Ho bruciato il latte, ok?!” sputai, stizzita. Attesi poi che giungessero le velenose parole che seguivano ogni mio errore, conscia che tutto ciò che avrebbe potuto insinuare sarebbe molto probabilmente risultato veritiero.
Ma la cascata di acidità non arrivò.
Lo guardai, cauta, chiedendomi il perché e lo vidi abbozzare un sorrisetto che non prometteva niente di buono, lanciando un’occhiata di sottecchi a mio nonno.
Abraham si era paralizzato in mezzo alla cucina nell’atto di sedersi, la mano sulla sedia e lo sguardo perso nel vuoto. Si ricompose subito sotto i miei occhi e si sedette. Poi mi guardò severo.
“Quanto?”
“Una tazza, più o meno” risposi, senza capire.
Lui annuì, paziente e posò gli avambracci sul tavolo. “Niente latte per te, questa mattina”.
Lo stomaco manifestò il suo scontento con un doloroso crampo. Annuii, sconfitta, abbassando il capo.
Il nonno per qualche motivo non parve soddisfatto di ciò che aveva già detto, quindi continuò. “Qui tutto quello che hai costa sforzo. Devi imparare che c’è sacrificio dietro a tutto ciò che possiedi, per questo non bisogna sprecare nulla. Ti punisco per questo, sia chiaro. Il fatto che tu sia appena stata licenziata non c’entra nulla”.
Se prima non mi era nemmeno passata per la mente quell’eventualità, con quella frase ebbi la certezza che il vero motivo di quella piccola privazione era proprio quello. Con un rinnovato senso di sconforto annuii e afferrai due mele dal cesto al centro del tavolo e uscii di casa. Mi sedetti al tavolo sotto il porticato, dove rimasi immobile a pensare a tutto e niente. Pioveva che Dio la mandava. C’era davvero poco da dire, fare o pensare. Era tutti inutile. Tutto ciò in cui mi impegnavo finiva per andare in fumo. Ormai tutti si erano accorti di quanto fossi impedita. Persino quello stupido manuale di sopravvivenza era inutile, il quale fra tutte le idiozie che la mia mente avesse mai partorito era forse la ciofeca più grande mai nata! Serviva solo a rimandare la crisi di nervi, dannazione!
Quel tempaccio si adattava schifosamente bene al mio umore.
I tuoni e i fulmini si erano stufati di movimentare la situazione e tutto ciò che era rimasto a quel punto era solo un demotivante diluvio. Il quale poi se ne sarebbe presto andato, al contrario del mio desolante e desolato umore nero.
Prometteva di essere una di quelle tristi e noiose giornate in cui non facevo che mugugnare monosillabi ogni qual volta mi si rivolgeva la parola. Giornate in cui non volevo far altro che sguazzare nel mio pessimismo in perfetta solitudine. Giornate in cui non cercavo niente e nessuno, da cui però puntualmente Emily mi salvava –era solo in quelle occasioni che non sentiva il campanello nè il telefono squillare, non poteva non insospettirsi. Ma questa volta non mi avrebbe lanciato alcun salvagente. Volevo affogare nel mio fallimento, non avevo voglia di essere aiutata.
Rimasi lì da sola finchè non smise di piovere. Poi iniziai a sgranocchiare le mele e una volta sazia –relativamente-, decisi che perdere tempo a far nulla non avrebbe migliorato la mia situazione, ma anzi mi avrebbe fatto guadagnare altri rimproveri. Ci volle poco perchè il nonno e Dean uscissero a dar da mangiare agli animali, ma per quel momento mi feci trovare armata di pennello, vernice e malumore a finire di dare la prima mano alla staccionata.
Dopo pranzo ci riunimmo in salotto per fare l’elenco della spesa, momento drammatico che avevo visto solo nei reality show in tv, situazione che ogni volta in onda mi aveva fatto ringraziare il cielo di non essere mai stata chiamata in causa quando toccava a mia madre e mio fratello decidere cosa comprare quando mi mandavano al supermercato accompagnata da George in versione autista. Non feci alcun intervento durante la placida discussione tra i due, mi limitai ad ascoltare qualche frase in silenzio. Poi, quando mi parve il momento opportuno, menzionai il ciao e le riparazioni che occorrevano.
“Domani vado a ritirare la tua paga dal signor Lucas. Con quei soldi pagherai i danni alla motoretta. Nel frattempo nel capanno c’è una bicicletta che puoi usare”.
Normalmente mi sarebbe venuto un colpo al pensiero dei quindici chilometri di strada ghiaiosa e irregolare che mi separavano dal paese, ma non avevo voglia nemmeno di pensarci in quel momento. “Fra poco parto, allora. Ho paura di non riuscire a tornare entro sera altrimenti”. Anche perchè la telefonata a casa era d’obbligo ogni giorno. Papà e Felicity –mia madre- erano stati chiari: avrei dovuti chiamarli senza possibilità di obiezione. Non era importante chi dei due, ma uno doveva avere mie notizie quotidianamente.
Abraham annuì, poi chiese a Dean di passare l’aspirapolvere. Mentre lui si alzava con uno sbuffo, io tornai in cortile e camminando tra le pozzanghere con le infradito entrai nel capanno per cercare la bicicletta.
Ci misi almeno un quarto d’ora a capire come toglierla dalle cianfrusaglie sotto cui era rimasta sepolta per chissà quanto tempo e cercare un pompa per gonfiarne le ruote. Quando ebbi finito con quest’ultimo compito, la osservai sconsolata, tenendola in piedi con le mani perché non aveva nemmeno il cavalletto. Era desolante. Vecchia, grigia, sporca, un po’ arrugginita, impolverata, coi freni talmente duri che non avevo idea di come avrei fatto a frenare in caso di bisogno immediato. Era evidentemente da uomo e aveva anche il cannone, e con la mia statura da Minimeo non sapevo come avrei fatto a salirci.
Tornando in casa a prendere uno straccio per –quantomeno- spolverare quel catorcio, notai l’ormai familiare pick-up di Kameron nel vialetto. Di fatti il suo possessore era in piedi in corridoio ad aspettare pazientemente che il suo amico smettesse di fare il casalingo. Anche perché in quel suolo era decisamente poco credibile.
“Hey, ciao!” mi salutò, solare come sempre, cercando di farsi sentire sopra il rumore dell’aspirapolvere nel salotto.
“Ciao” mi sforzai di abbozzare un sorriso e feci una corsa veloce in bagno a prendere uno straccio e inumidirlo.
“Hai bisogno di una mano?” si informò, gentile come sempre.
Pareva assurdo che potessero esistere persone così altruiste e allo stesso tempo persone così stupidamente egoiste -come me- e che le prime offrissero il proprio aiuto proprio agli egoisti peggiori.
“No, no grazie. Devo andare in paese a telefonare ai miei. In bici” specificai, stancamente. Probabilmente avrei bucato a metà streda, perchè al peggio non c’era limite. Specialmente a Sperdutolandia.
Kameron scosse il capo, sorpreso, poi annuì risoluto. “Ti accompagno”.
Sgranai gli occhi. “Cosa? No, non ce n’è bisogno. E poi al ritorno dovrei tornare a piedi. Non preoccuparti, grazie comunque!” Abbozzai un sorriso di ringraziamente e tornai nel cortile con lo straccio umido per spolverare almeno un po’ quella bicicletta.
Kameron tuttavia mi seguì. “Devo andare da un amico, poi ti riporto a casa. Dai, tanto oggi è venerdì, non c’è nulla da fare! Non disturbi affatto, sappilo”.
Mi voltai a guardarlo negli occhi, chiedendomi se parlasse sul serio. Tutti questi favori! Non che mi dessero fastidio, per carità, ma non era giusto scroccare un passaggio ogni volta senza poter mai ricambiare in alcun modo. “Kameron, seriamente non penso sia il caso...” risposi. “E poi sei venuto per Dean, no? Non è giusto che...”.
“Ma Dean sta lavorando e lo distrarrei e basta, restando qui”.
“Lavora sempre, se non passa l’aspirapolvere la passo io, non è un grosso problema”.
“No, non lo farai, perchè starai ancora cercando di tornare a casa arrancando su quella bici. Salta su e non fare storie, nana!”
“Se mi ringrazi un’altra volta al ritorno di lascio a piedi” mi avvisò Kameron, parcheggiando nella piazzetta davanti alla chiesa del paese. Quel giorno i negozi erano tutti chiusi, e non si sentivano che gli schiamazzi di alcuni bambini provenire dalle case. C’era un silenzio innaturalmente tranquillo. In città non c’era nemmeno di notte una quiete come quella.
“Mi piacerebbe non essere considerata un’ingrata, sai?”
“Scommetto che con tutte le volte che mi hai ringraziato ultimamente, nemmeno i nipoti dei pronipoti dei posteri potranno pensare che tu sia un’ingrata!”
Risi. “E va bene, hai vinto: smetto! Però ricomincerò prima che tu mi abbia riaccompagnato a casa!”
Kameron sospirò. “Morirò affogando nei tuoi biglietti di ringraziamento un giorno, me lo sento”.
Risi di nuovo, di cuore.
Se quella mattina mi avessero detto che entro qualche ora sarei tornata tranquilla quasi come se non fossi stata licenziata sarei scoppiata in una risata isterica da far venire i brividi anche a Bellatrix Lestrange. (Ecco, nel caso qualcuno non credesse al mio ritorno ad un umore quasi allegro, la citazione potteriana ne è la prova.) “Ok, mi regolerò. Magari ti manderò anche dei fiori, allora!” dissi, scendendo dall'auto.
Lui fece altrettanto. “...cambio di programma: morirò asfissiata dalla puzza dei fiori”.
“Hey, King Kong, i fiori profumano, non puzzano!”
Lui sorrise sornione. “Non quando ne hai la casa piena zeppa, nana”.
“Continua a chiamarmi così e ti troverai i fiori pieni zeppi di vespe, Kameron” replicai, acida come sempre. La compagnia di Kameron mi aveva distratta molto, come forse avrebbe fatto quella di Emily. Ero tornata quantomeno tranquilla e tutta quella grigia nebbia che mi offuscava la vista e i pensieri se ne era andata. Come mi aveva ripetuto Kameron almeno tre volte, durante il tragitto: la bacheca del saloon era piena di richieste di lavoro, ne avrei trovato un altro. Magari anche più vicino a casa di Abraham.
Iniziavo anche a vedere il lato ridicolo di tutto ciò che era capitato il giorno prima. Quanta sfortuna ci voleva perché tutti quegli imprevisti –le chiavi dimenticate nella motoretta, l’assenza di un lettore cd, dei bambini capricciosi, un ragazzino ribelle- si condensassero in un solo grandissimo inconveniente? La cosa era quasi comica.
“La cosa potrebbe essere preoccupante, in effetti” acconsentì Kameron, alzando le mani in segno di sconfitta. “Be’, ci vediamo fra poco. Aspettami qui, se fai prima di me!”
“Certo. A dopo!” lo salutai, voltandomi. Mi incamminai verso il saloon facendo lo slalom tra le pozzanghere. Poi aprii la porta ed entrai nel bar, deserto come sempre. Ripetei la solita routine –pagamento, numero, chiamata- e portai la cornetta all'orecchio.
Avevo quasi sempre telefonato a mia madre, perchè papà era al lavoro all’orario in cui telefonavo di solito. Una volta tanto però ero arrivata di primo pomeriggio, quando lui sarebbe dovuto essere a casa –conoscevo i suoi orari e le sue abitudini, nonostante vivessi con Felicity e non con lui. Per cui fu il suo numero quello che digitai.
Il telefono fece solo pochi squilli, prima che lui rispondesse.
“Pronto? Qui Harvey Fletcher”
Sorrisi. Aveva la stessa voce di Joshua, solo più bassa e rilassata. Aveva un tono che infondeva serenità, lo aveva sempre avuto. E quando da piccola mi leggeva qualcosa per farmi addormentare, la sua voce era la ninna nanna perfetta: mi cullava fino alla tanto desiderata e dolce perdita di sensi. A dire il vero quando dormivo a casa sua a volte gli chiedevo ancora di farlo. Non perché ancora non riuscissi ad addormentarmi da sola, ma perché ne sentivo la nostalgia. “Ciao, papà”.
“Hey, anatroccolo!”
Risi. “Ciao, papà” ripetei. “Come stai?”
“Bene, c’è tanto da lavorare come sempre. Ma bisogna pur farlo, no?”
Ridacchiai imbarazzata. “Ecco appunto” commentai sottovoce.
“Ecco appunto, cosa, Pan?” domandò.
Sospirai. “Sorpresona, papà! Mi hanno licenziata proprio ieri!” Mi persi in un racconto dettagliato e altamente auto-ironico di ciò che era successo il giorno prima, più qualche aneddoto passato che non ero ancora riuscita a raccontargli. Come quello della pasta e fagioli e la seguente comparsa di Terrence dalla finestra della cucina. Tutte cose che vi verranno risparmiate, conoscendole voi già.
Quando finii, mio madre aveva riso fin troppo, fino alle lacrime conoscendolo, e stava faticando non poco a ricomporsi. Trattandosi di lui, però, non me la presi e attesi pazientemente.
“Deve essere dura, là, eh Pan?”
“Come se non lo sapessi già. Tu ci sei cresciuto qui”.
“In effetti sì. So cosa significa e come ci si sente. Combinavo un guaio dietro l’altro! Ma lasciamo i vecchi tempi nel dimenticatoio. Ho anche io una sorpresa per te!”
Sgranai gli occhi, sorpresa. “Davvero? Quale?”
“E’ una sorpresa, non si può sapere”.
“Papà, se doveva essere un segreto non avresti dovuto dirmi nulla” gli feci notare.
Lui rise. “Hai ragione. Be’, immagino che tu abbia bisogno di un po’ di riposo. Ecco perchè proprio questa mattina ho imbucato una busta con i biglietti del treno per tornare a casa. Che ne dici?”
Vi parrà una scena da film, fin troppo ridicola, forse. Ma in quel momento, quella notizia era la più bella che avessi ricevuto da non so più quanto tempo. Qundi strillai. Nel telefono, come se non ci fosse nessuno dall’altro campo. Urlai di gioia ed entusiasmo, felice al solo pensiero che sarei potuta tornare a casa per un po’ di tempo! Cosa avrei potuto chiedere di meglio?
“Graziegraziegraziegraziegraziegrazie!” 

30 settembre 2011

Cows and jeans. 15


15

Quando tornammo a casa Lucas, ovviamente, la trovammo dannatamente, totalmente vuota.
Preferisco glissare sullo stato d’animo che mi pervase quando scoprii dell’assenza di Johnny. Quella stupida, piccola canaglia era sparita.
Avrei dovuto aspettarmelo, conoscendolo, ma ero così stupida che continuavo a dare fiducia a tutti –una volta presa confidenza-, lui compreso. Avrei dovuto prendere ripetizioni di diffidenza. Intanto però la cosa che mi premeva di più era ritrovare quello stupido ragazzino, contenere l’imminente attacco di panico e riprendere il controllo della situazione. O meglio conquistarlo, perché effettivamente non l’avevo mai avuto.
“Okay, bambini, Johnny vuole giocare a nascondino!” esclamai, in una terribile imitazione di entusiasmo. “Vediamo chi lo trova per primo?” proposi, battendo le mani. 
I gemelli gridarono la loro approvazione e corsero verso la porta. In qualche modo riuscii a raggiungerla prima di loro ed evitare che uscissero. “In casa, però!” sottolineai. “Se qualcuno esce non guarda il film, e starà in castigo tutto il pomeriggio”. I bambini protestarono, ma poi annuirono, sconfitti dal mio temibile sguardo severo alla Minerva McGrannit. “Il primo che lo trova, strilli!”
E fu così che iniziò la caccia al Poltergeist.
Setacciammo la casa da cima a fondo, mentre l’ansia causata dalla perdita di uno dei bambini cresceva sempre di più.
Avevamo controllato almeno tre volte ogni stanza, per essere sicuri di aver guardato in tutti i posti in cui avrebbe potuto nascondersi. E anche perché era probabile che ai gemelli qualche stanza non fosse piaciuta e quindi fossero passati oltre senza nemmeno entrare. Alla fine ci ritrovammo tutti e cinque davanti alla porta dello scantinato. Come tutti i bambini che si rispettavano, anche quei quattro avevano il terrore di quell’ambiente umido e tendenzialmente buio.
“Dite che è là sotto?” domandò Robin, preoccupato come se stessimo parlando della tana di un orso appena uscito dal letargo e quindi a digiuno da mesi. Dondolava sui talloni, fissando la scala che scendeva al buio. 
I gemelli si erano nascosti dietro di lui, per stare fuori dalla portata dell’oscurità. Oscurità non poi così oscura, visto che era quasi mezzogiorno, ma dovevo ammettere che inquietava anche me l’idea di scendere là sotto.
“Può essere, sì” confermai. Era probabile, anzi. Quale nascondiglio migliore che l’unico posto cui tutti i suoi fratelli non si azzardavano ad avvicinarsi? “Bene, andiamo” li spronai, facendo un passo avanti. La mia speranza era schizzata alle stelle quando avevo realizzato che quasi sicuramente Johnny era là sotto.
“No!” guairono ad una sola voce. 
Mi voltai a guardarli. “Sentite, non posso andarci da sola: non so nemmeno dov’è l’interruttore della luce!”
“In fondo alle scale a destra, sul muro”.
Molto simpatico, Rob. …Codardo!  “Oh, avanti! Di che avete paura?” 
Non potevano mandarmi da sola. Sì, avevo paura anche io, dall’alto dei miei diciotto anni, lo ammetto. Ma io ci sarei andata in cantina. Costi quel che costie voi verrete con me!.
“Ci sono i mostri” spiegò semplicemente Beth.
Oh, giusto. I mostri. Bè, loro almeno avevano un valido motivo per avere paura.
“Sono sicura che non ci sia nulla di cui avere paura, là sotto” tentai di convincerli.
“Come lo sai?”
Ci pensai su qualche istante, e decisi che una volta tanto la mia anima potteriana sarebbe forse servita a qualcosa. “Hey, ho letto tutti i libri di Harry Potter almeno tre volte, più ‘Animali Fantastici – Dove trovarli’! Se non sono esperta io, di mostri, chi lo è?”
A quella risposta i gemelli parvero molto convinti. Se avevo letto il libro di Harry Potter sui mostri sicuramente sapevo tutto di loro, no? Lui era un mago! Robin invece era ancora piuttosto diffidente. A quel punto non potei non domandarmi come potesse credere nell’esistenza dei mostri e non nella mia esperienza in materia.
“E se c’è un vampiro?” domandò, chiarendo i miei dubbi su quali fossero i suoi.
Risi. “Ho letto anche Dracula, tranquillo. Ora andiamo? Non possiamo perdere questa partita a nascondino!” e per incoraggiarli iniziai a scendere i gradini.
Sentii presto i passi incerti dei bambini che mi seguivano, spaventati. “Pan…” sussurrò una delle bambine, attaccandosi alla mia maglia.
Non potevo terrorizzarli a quel modo. Dovevo fare qualcosa. “Andrà tutto bene, te l’assicuro. Ecco” allungai la mano a tastare la parete, alla ricerca dell’interruttore. Trovatolo spinsi il pulsante e attivai l’unica lampadina, che si accese di una luce fioca e intermittente. “così vedrete che non c’è nulla di cui avere paura”.
Quella cantina dava i brividi, effettivamente. Ma probabilmente la colpa era della luce che proiettava ombre evanescenti e sinistre lungo le pareti e sul pavimento. 
Sentii qualcosa camminare in mezzo agli scatoloni pieni di chissà cosa e mi trattenni dal gridare solo per non spaventare i bambini, al contrario loro che scoppiarono all’unisono in uno strillo raccapricciante che mi fece accapponare la pelle. Rabbrividii, cercando di non darlo a vedere e attesi che smettessero di urlare. “Avete visto qualche mostro?” mi informai, lievemente stizzita.
Robin scosse il capo, mentre gli altri tre annuirono. “Ne è passato uno là sotto, l’ho sentito” mi rivelò Thom.
Io annuii, cercando di essere comprensiva. Poi improvvisamente mi venne in mente una scena della mia infanzia e seppi cosa fare. “Ora, mentre cerchiamo Johnny, vi racconto una cosa. Quando ero piccolo avevo una gran paura del capanno degli attrezzi di nonno Abe.”
“Nonno Abe? Il nonno non si chiama Abe, si chiama Thom, …come Thommy!” ridacchiò Betty, ancora strettamente aggrappata alla mia maglietta. Sorrisi, divertita. “Sì, ma il mio nonno si chiama Abe” spiegai. “Dicevo: Abe mi mandava sempre nel capanno a prendere i suoi attrezzi e io avevo una gran paura. Quindi mi facevo accompagnare mia nonna. Poi lei, un giorno, mi svelò il modo migliore per sconfiggere la paura e i mostri. Anche meglio degli incantesimi, funziona sempre” confidai loro, sorridendo nostalgica. I ricordi legati a mia nonna erano sempre dolci. Poteva una donna lasciare ai posteri solo ricordi positivi? Era meravigliosa, non poteva essere altrimenti.
“E qual è?”
“Cantare”.
“Cantare?” ripeterono, poco convinti.
“Cantare! Proviamo? Scommetto che funziona!”
Questa volta anziché sciocche sigle di cartoni animati intonai la più comune e rassicurante ‘Bella stella dimmi tu’. Loro mi guardavano, in silenzio. “Dovete cantare con me, o non funziona” suggerii, ricominciando. Questa volta i bambini si affrettarono ad imitarmi e ben presto anche Robin si unì allo sgangherato coro.
Con questa nuova magia in atto, setacciammo tutto lo scantinato senza trovare la minima traccia di quel perfido ragazzino chiamato Johnny. Quando tornammo in superficie decisi che era il caso di cercare nel giardino, ma ovviamente nemmeno lì lo trovammo. Ero arrivata ad un punto tale che mi pulsavano le tempie e rischiavo di scoppiare a piangere da un momento all’altro. Per il dolore fisico e per l’agitazione che rischiava di farmi capitolare da un momento all’altro. Non dovevo gettarmi nello sconforto sarebbe stato inutile. 
Mentre i bambini controllavano per la quarta volta il porcile –avevano una sorta di ossessione per Piper, la scrofa- ripassai il Manuale di sopravvivenza. Mi fermai, respirai a fondo e mi sforzai di calmarmi. Poi iniziai a pensare ad eventuali lati positivi nella situazione. Fu un parto trovarli mentre la mia mente ripeteva in continuazione ‘ti licenziano, ti licenziano, ti licenziano’. Il primo che riuscii a scovare sotto quella coltre di pessimismo fu che, per lo meno, i bambini stavano collaborando tra loro e soprattutto con me. Il secondo, forse, si poteva considerare il fatto che questa sottospecie di partita a nascondino aveva occupato i pensieri dei bambini abbastanza da far sì che non si lagnassero per l’eternità di tempo che ci stava mettendo Terrence ad arrivare. Il terzo era che …
‘Ti licenziano, ti licenziano, ti licenziano!’
Forse era che…
‘Ti licenziano, ti licenziano, ti licenziano!’
Oh, ce ne doveva pur essere un terzo!
‘Ti licenziano, ti licenziano, ti licenziano!’
E va bene, dannazione, mi licenziano!
Il terzo era che mi avrebbero licenziata e se non altro non avrei più dovuto avere nulla a che fare quella carogna di Johnny, che mi stava rendendo la vita uno schifosissimo inferno!
Era giunto il momento di mettere in moto il cervello e trovare una soluzione, ma i lati positivi non erano positivi manco per niente e … stavo impazzendo.
Avevo perso un bambino! Ne avevo altri quattro a cui dar da mangiare e da badare e allo stesso tempo avrei dovuto cercare Johnny in giro per Sperdutolandia!
Odiavo quel posto, odiavo quel ragazzino, odiavo la mia propensione a cacciarmi nei guai!
“Che cosa faccio, ora?” sbuffai, nel panico. “Cosa, cosa, COSA?!” mi lasciai cadere seduta per terra, nella ghiaia. Decisi che il modo migliore di comportarmi sarebbe stato sprofondare nello sconforto. Tanto che potevo fare? Nulla. Ancora non ero in grado di replicarmi e poter fare tutto da sola!
Sì, okay, potevo chiedere aiuto a qualcuno. Ma come? Avrei dovuto portarmi dietro tutta la banda, che tra l’altro si sarebbe accorta da un momento del concerto degli stomaci affamati sicuramente già in atto.
Inoltre, secondo dopo secondo, perdevo tempo. Quello scemo di un ragazzino irriverente poteva essersi cacciato in un mare di guai, poteva essersi fatto male, poteva essere stato morso da un serpente, punto da una vespa o da uno scorpione o …
“Pan, ti sei fatta male?” domandò la voce incerta di Robin, appena uscito dal porcile.
Lo guardai e abbozzai un sorriso tirato. “No, sto bene. Ho solo paura”.
“Di cosa?”
Sospirai, sforzandomi di alzarmi in piedi. Lo raggiunsi e mi affacciai alla porta del porcile per controllare che i bambini non combinassero altri guai. “Di tante cose. Johnny non ha fatto un bello scherzo. E’ scappato ed è una cosa che non si deve mai fare, è pericoloso. Potrebbe essersi fatto male e non riuscire più a tornare a casa”.
“Johnny è forte”.
“Può darsi. Ma ha fatto una cosa molto sciocca. Se si fosse perso?”
“Non si perde mai, lui conosce tutti i posti”.
In un altro momento avrei sorriso della stima che provava verso il fratello, ma ero troppo tesa per riuscirci. “Ho paura che mi licenzieranno” ammisi con un sospiro.  Era egoistico da parte mia pensare al lavoro, quando quel ragazzino avrebbe anche potuto essere immerso nei guai fino al collo, ma effettivamente se l’era meritato comportandosi in quel modo sconsiderato. Se una volta tanto mi avesse dato retta non sarebbe successo nulla. Ed ero troppo arrabbiato con lui per rendermi conto che comunque ero terrorizzata all’idea che potesse essergli successo qualcosa.
“Canta, allora”.
Guardai Robin, sorpresa. “Come?”
“Canta. Avevi ragione, noi non avevamo più paura in cantina” rispose, semplicemente.
Lo osservai per un po’ e sorrisi. Poi il sorriso si trasformò in un vero e proprio riso. E allora risi come una matta, tanto che piansi. Lacrime dovute alle risate, lacrime dovute alla tensione e al nervosismo. Una risata isterica, si potrebbe pensare, ma non lo era. Era spontanea, liberatoria,vera. Ridere di cuore più di così era impossibile.
Fu grazie a quella risata che trovai la forza di trascinare i bambini in cucina e preparare loro da mangiare. Mentre attraversammo l’aia notai l’assenza della motoretta e mi allarmai. Poi però mi ricordai di una delle abitudini di Sperdutolandia che non riuscivo proprio a metabolizzare: la totale e cieca fiducia nel prossimo. Nell’entusiasmo per l’arrivo del pacco di George, avevo dimenticato di togliere le chiavi dal ciao. Evidentemente Terrence era passato e l’aveva preso su senza chiedere. Sperdutolandia voleva insegnarmi a donare fiducia al prossimo, okay, ma questo comportamento era un po’ esagerato. Avvisare, almeno.
E se … ODDIO! E se invece l’aveva presa Johnny?!
Per poco non mi venne un malore a quel pensiero. E se aveva preso il motore e aveva avuto un incidente? Quel ragazzino l’avrebbe pagata, dannazione! Mi doveva uno stomaco nuovo, perché il mio si stava sfondando a forza di colpi di ansia e preoccupazione!
Quella fu sicuramente una delle giornate peggiori della mia vita. O per lo meno fino a quel punto della mia vita. Seconda solo a quando mi era stato presentato George come ‘il mio futuro papà’. (Sì, non era stata una grande idea usare quelle parole, considerato che già a quel tempo ero terribilmente arrabbiata con mia madre per aver lasciato mio padre).
“Sei una catastrofe, lasciatelo dire!”
Mi voltai a lanciare a Dean un’occhiataccia. “Anche se non te lo lasciassi dire lo diresti comunque” commentai, per poi lanciare le scarpe in un angolo del corridoio e iniziare a salire lentamente le scale.
“Hai passato ogni limite questa volta!”
Lo ignorai, troppo affrante per poter dire qualcosa. La verità era che mi sentivo uno schifo. Mi avevano licenziata, ovviamente. Come avrebbero potuto non farlo? Hayley era stata anche troppo gentile ad inventarsi la scusa della cugina che tornava dall’estero e avrebbe potuto occuparsi dei ragazzini.
Alla fine Johnny aveva vinto. Mi auguravo che almeno lui fosse soddisfatto. Aveva vinto lui: mi avevano cacciato.
Dean però sembrava non capire la mia voglia di pace e autocommiserazione. Mi seguì su per le scale, forse più arrabbiato di me. “Hai perso uno dei ragazzi!”
“Non l’ho mica fatto di proposito! È scappato mentre non c’ero!” cercai di scusarmi, rivolgendogli un’ occhiataccia. “E per inciso, avresti anche potuto riaccompagnarlo a casa, anzichè cacciarlo!” Perchè sì, quel ragazzino era scappato con la mia motoretta ed era arrivato fino alla fattoria Fletcher, da Dean. Era furbo, indubbiamente. Quale miglior modo di fregarmi se non fare come gli avevo chiesto?
“Io dovevo lavorare, non posso mica badare a tutti i mocciosi che ti fai scappare!” abbaiò, gettandosi a sedere sul letto.
Questa volta non stava semplicemente cercando di farmi saltare i nervi, era palesemente incazzato nero. Come se fosse stato lui ad essere stato licenziato per colpa mia e non il contrario. Voleva impartirmi una lezione, voleva farmi pentire del pasticcio che avevo combinato -come se il mio licenziamento lo riguardasse in qualche modo- e ci stava anche riuscendo. Ogni sua parola era un giro di quel coltello ancora infilato nella piaga.
“Secondo te cosa avrei dovuto fare? Quegli altri si lagnavano come dannati, lui si era impuntato e non voleva venire con noi a cercare Terrence!”
“C’è una cosa che devi capire, principessa” e quella voltà c’era più disgusto del solito in quell’appellativo. “quando fai un casino, la colpa è la tua, non degni altri, okay? Devi prenderti le tue responsabilità e basta! Come ti è saltato in mente di lasciare le chiavi nel Ciao?!” sbottò, appoggiandosi allo stipite della porta della mia stanza.
Mi gettai a sedere sul letto, sperando che quella paternale finisse presto. Anche perchè non aveva alcun diritto di trattarmi come la bambina di turno. Non dopo che per uno stupido puntiglio personale aveva contribuito al mio licenziamento. “Me le sono dimenticate. Non è che io mi diverta cercando di farmi licenziare, di solito. Ho altri hobby.”
“Già, combinare casini!” commentò, freddo.
“Senti, è colpa mia, ora sono stata licenziata e mi sta bene. Okay? Felice? Mi troverò un altro lavoro, in qualche modo! Ora puoi lasciarmi in pace?!” soffiai, lasciandomi cadere all’indietro, stesa. Afferrai il cuscino e me lo premetti sulla faccia. Dopo un po’ lo tolsi e lanciai un’ occhiata alla porta, sperando che Dean se ne fosse andato. Lui tuttavia era ancora lì, a guardarmi in cagnesco, la mandibola contratta. Sbuffò e assestò un pugno al muro. “Sai qual’è il tuo problema? Non capisci niente! E non capisci niente perchè nella tua testa ci sei solo tu!”
Lo fissai per qualche secondo, sentendo la rabbia salire. Mi tirai su a sedere. “Sai qual’è il mio problema, Dean? Che se a me stessa non ci penso io, non lo fa nessuno!” gli gridai, furiosa, poi distolsi lo sguardo, stringendo i denti. “Adesso vattene e lasciami in pace!” conclusi con uno sbuffo, stendendomi a pancia di sotto con la faccia affondata nel cuscino.
Non so se rimase lì o se ne andò subito. Non mi voltai a controllare, troppo immersa nella mia autocommiserazione e nel distruttivo ricordo di quella giornata. Avrei voluto scrivere subito a Emily. Avrei voluto telefonarle e sfogarmi con lei. Ma non potevo. Non potevo scrivere perchè era inutile, lo avrebbe letto chissà quanto tempo dopo. E non potevo chiamarla perchè quello stupido ragazzino mi aveva finito la benzina nel ciao –e non solo- con quella sua dannata fuga.
Quando Terrence, dopo pranzo, era finalmente giunto a casa Lucas, gli avevo spiegato, nel panico, la situazione e lui era andato a cercare Hayley al lavoro, cosa che avevo convenuto fosse la soluzione migliore. Hayley avrebbe saputo cosa fare. Di fatti lei era tornata il prima possibile, dopo meno di un’ora e aveva portato i suoi figli nel saloon, dove li aveva affidati a Ginger. Poi io, lei, Terrence e un paio di quindicenni disoccupati di cui non avevo afferrato il nome avevamo iniziato le ricerche. Fu uno dei due ragazzini a trovarlo che spingeva motoretta lungo la strada verso casa. Aveva finito la benzina, e aveva anche bucato una gomma, motivo per cui non stava pedalando. Il ragazzino aveva accompagnato Johnny al saloon e poi era corso a cercare Hayley e noi altri. Giunti tutti al bar, Hayley aveva severamente rimproverato suo figlio e poi si era voltata verso di me, licenziandomi con l’attenuante della cugina di ritorno dall’estero e disposta a prendersi cura dei bambini.
Mi aveva licenziata davanti ai bambini, davanti a Abraham.
Era stato umiliante, oltre che estremamente avvilente.
Non so come mi sentissi esattamente, in quel momento, stesa nel letto col cuscino a separarmi dal mondo esterno. Ero troppo confusa e soprattutto provata per rendermi conto pienamente di ciò che era successo. Sapevo solo di non volere avere a che fare con nessuno. Motivo per cui quando Abe mi urlò che la cena era pronta risposi di non aver fame.
Mi alzai a fatica e andai a chiudere la porta. Afferrai l’mp3 3 inforcai le cuffie, tuffandomi di nuovo sul letto con la faccia nel cuscino.
Nelle mie orecchie la voce di Vasco Rossi annunciava la sua voglia di trovare un senso alla vita, quando realizzai che forse quello della mia era rovinare puntualmente ogni cosa con la mia totale incapacità di stare al mondo.

13 settembre 2011

Cows and jeans 14


A partire dal lunedì seguente, ogni mattina partii venti minuti prima del solito per andare a controllare all’ufficio postale del paese se fosse arrivato qualcosa per me. Avevo ormai imparato a conoscere Tina, una ragazza sulla trentina dai cortissimi capelli neri, che accompagnava ogni mia espressione, frase o movimento con una battuta o un commento. E quando non parlava mi scoppiava letteralmente a ridere in faccia. Era irritante, sì, ma una volta che ci si ricordava che il mondo è bello perché è vario e che di gente strana ne era pieno, ci si faceva l’abitudine.
Dal terzo giorno, anche lei sembrava aver imparato a conoscermi. Già, aveva capito che ero il soggetto perfetto da prendere in giro. Era estremamente esilarante ridere della mia espressione quando scoprivo che il pacco di George non era ancora arrivato. Davvero moooolto divertente.
Quel giovedì mattina, entrai nell’ufficio postale con una calma studiata –affinchè quella donna non trovasse nulla per cui prendermi in giro- facendo suonare il campanello sopra la porta.
“Heylà! Buongiorno Pan!”
“’giorno, Tina!” sorrisi, cortese, mentre era chiaro che lei stesse già cercando qualcosa per cui mettersi a sghignazzare come la iena che era. No, così esageravo. Non era cattiva, in fondo, solo molto … ehm, spiritosa. O così credeva lei. Divertente lo era solo per sé stessa, l’unica a ridere delle sue continue e irritanti battute. Dispettosa, sì. Ma cattiva no. Il problema era che a trent’anni suonati, lavorando in un ufficio pubblico, fare il pagliaccio irriverente non era esattamente ciò che le veniva richiesto.
“Hey, Pan” ghignò. “Ora che ci penso: che nome strano hai!” osservò.
Quella affermazione mi ricordava pazzamente Cappuccetto Rosso col lupo cattivo vestito da nonnina. Solo che continuavo a pensare –nonostante la correzione fatta sopra- di avere davanti una iena travestita da trentenne con la sindrome di Peter Pan. Oh cielo, troppe fiabe in una volta sola!
“E’ per farti sghignazzare meglio!” risposi, infatti, facendo la voce grossa.
Lei scoppiò a ridere, poggiando gli avambracci alla scrivania dietro cui era seduta. “Sei forte, ragazza!”
“Sono in quasi ritardo, più che altro, Tina. Non è che è arrivato qualcosa per me, oggi?” ripetei la battuta di tutte le mattine.
Lei stessa si doveva essere accorta che ogni volta recitavo la stessa formula, perché ricominciò a ridare, nascondendo il volto sul tavolo e battendo un pugno sul piano di legno.
Sospirai, sconsolata. “Per la barba di Merlino!” soffiai, con una smorfia frustrata. “Oh, Tina, andiamo!” ma la mia imprecazione l’aveva fatta ridere anche più di prima. Rischiava di andare in apnea.
Sbuffai sonoramente e decisi di andarmene. Sarei passata alla sera, quando la mia dose quotidiana di ira sarebbe stata consumata e la mia voglia di arrabbiarmi sparita con essa. Per cui girai sui tacchi e mi avvicinai alla porta, ma quando aprendola feci suonare il campanello, Tina alzò la testa e si accorse di ciò che stavo facendo. “No, aspetta!” singhiozzò, cercando di reprimere le risate, con scarsi risultati.
“Cosa?” domandai, irritata, voltandomi.
La vidi alzarsi e mettersi a controllare i vari cassetti con i cognomi degli abitanti del paese. Non che fossero tantissimi a dire il vero. “Fletcher, giusto?”
Perché me lo chiedeva se erano quattro giorni di fila che mi presentavo dicendo il mio nome e chiedendole la stessa cosa? “Già”.
Aprì il cassetto di Abraham e si voltò, raggiante. “C’è questo” annunciò, porgendomi un pacchetto rivestito di carta da imballaggio gialla.
“Grazie!” esultai, lasciando che ogni traccia di irritazione svanisse nel nulla. “Grazie, Tina, grazie!” canticchiai, afferrando il pacco. Non potei trattenermi dal saltellare sul posto come una bambina a cui era stata regalata una nuova bambola, poi però, mentre la ragazza si piegava in due dalle risate, mi ricomposi. Ancora raggiante la salutai e corsi fuori.
Finalmente!
Finalmente avevo trovato la melodia che avrebbe fatto addormentare Fufi!
…o almeno una delle sue teste.

“¡Hola!” Fu il mio allegro saluto quando, puntuale come un orologio svizzero, entrai in casa di Hayley. La donna era appena uscita, l’avevo incontrata nel vialetto. Il mio pacchetto stretto tra le braccia, trotterellai dentro, sorridente e pronta a dar inizio al mio piano di ‘raddolcimento demoni’. “Buongiorno, ragazzi! Guardate un po’ cosa mi hanno mandato da casa!” gioii, andando in cucina.
Udendo quelle parole, i bambini lasciarono i loro giocattoli e mi seguirono di corsa. Thom inciampò sui propri piedi un paio di volte, prima di raggiungermi. “Non l’ho ancora aperto, lo facciamo assieme?” domandai, cercando di renderli partecipi il più possibile.
Sembrarono approvare l’idea, quindi li sistemai sulle sedie e posai il pacco al centro del tavolo. “Robin, Johnny, a voi non interessa?” chiesi, non vedendoli arrivare.
“No” fu la secca e contraiata risposta del maggiore, subito seguito da un grugnito poco convinto dell’altro. Robin non pareva un ragazzino tanto irriverente, in fin dei conti. Solo, tendeva a farsi guidare dal fratello maggiore anche quando i loro voleri discordavano. Si lasciava sottomettere.
Sospirai, chiedendomi se sarebbero serviti a qualcosa, i DVD, in mancanza di Robin. “Bene, lo apriamo insieme, ok? Ecco, levate lo scotch” suggerii, porgendolo ai bambini. I tre si sporsero gli uni verso gli altri, allungando le mani per operare per primi e garantirsi il primato di questo nuovo entusiasmante gioco. Sorrisi, vedendoli. Se nessuno li avesse abituati a farmi dispetti, sarebbero potuti essere davvero adorabili, in fondo. Nel giro di un minuto la carta fu lanciata brutalmente sul pavimento, senza pietà alcuna. Mentre mi rendevo conto di averla sotto gli occhi finemente suddivisa in un centinaio di inquietanti brandelli, mi ricordai che il contenuto nella scatola di cartone che i bambini stavano assalendo era comunque di proprietà di George. “Hey, hey, hey! Calmatevi un attimo!” intervenni, tuffandomi sulla tavola per recuperarla. Come il mio ventre entrò in contatto col legno, per un attimo trattenni il fiato in attesa di finire per terra. Mi ci volle qualche istante per ricordarmi che non tutti i tavoli erano stupidamente fragile come quello nella cucina di mia madre, che avevo tante volte schiantato gettandomi in quel modo per salvare qualcosa dalle mani di Joshua. 
Tornai a sedere sulla sedia, sotto lo sguardo imbronciato delle bambine e quello –sempre e comunque- entusiasta di Thom. “Ora, guardiamo cosa c’è qui” comunicai, con un mezzo sorriso. Per quanto non volessi fare arrabbiare i tre gemellini, non avevo alcuna intenzione di gettare nel gabinetto i DVD di George, e con essi una possibilità di catturare l’interesse di Robin e la fiducia che il nuovo compagno di mia madre aveva posto in me. Aprii cauta la scatola, sbirciando, movimento dopo movimento, le reazioni dei bambini. Ora tutti e tre si sporgevano sul tavolo verso di me, per vedere cosa contenesse il misterioso pacco. Con un sorriso soddisfatto estrassi le quattro custodie e iniziai a osservarne le copertine. Ridacchiai scorgendo ‘Fievel alla conquista del west’-l’unico che riconobbi, tra l’altro. Non per nulla avevo detto a George che più della metà dei demonietti non erano che bambini, no? “Oh, ma guardate un po’! Fievel! Lo conoscete?”
Le bambine si lanciarono un’occhiata e annuirono. “Sì” confermò Thom.
Ovviamente lo conoscevano. In città nessun bambino avrebbe riconosciuto il nome Fievel. Ma evidentemente a Sperdutolandia i  buoni e vecchi cartoni animati erano ancora di moda. Un punto a favore della campagna!
Passai loro il DVD, che presero a strapparselo di mano a vicenda, protestando sottovoce. “Io!”, ”No, dai, io!” bisticciavano piano. Sorrisi. Quello era nuovo, ne ero certa. Un’ infinità di volte Joshua si era infiltrato nello studio di George alla ricerca di qualche cartone animato, riemergendone ogni volta con un’espressione scontenta e lo stesso responso: “Ha tantissimi film! Perché non ha nessun cartone?!”.
George doveva averlo acquistato per l’occasione. Mi venne il dubbio che anche gli altri quattro non fossero stati presi dalla sua collezione, ma appena estratti dalla busta del BlockBuster del centro.
“Gli altri?”si informò Beth, alla quale era stato tolto di mano nuovamente il DVD.
Le sorrisi, ma diedi un’alzata di spalle. “Questi sono film per persone grandi. Neanche io li ho mai visti. Guarda come sono brutti, Betty” sottolineai, mostrandole le copertine. In tutte e tre spiccava un primo piano pauroso di un ceffo che non vedeva un rasoio dal mesozoico, con uno stetson calcato in testa, mentre mostrava infantilmente allo spettatore la propria pistola. “Ce l’ho anche io la stopila!” si entusiasmò Thom, indicando uno dei temibili cow boy dei DVD. Con quella frase mi balzò alla mente un libro che avevo letto qualche giorno prima: Mio fratello Simple. Lo avevo infilato a fatica nella valigia prima di partire, ne era uscito un po’ spiegazzato, ma non avrei mai potuto rischiare di lasciarlo a casa nelle mani di Joshua e del suo estremo menefreghismo per tutto ciò che era mio. Non prima di averlo letto. “Hai anche un coniglietto, suppongo!” sghignazzai, ricordando l’adorato pupazzo del protagonista.
“No. I conigli sono per i bambini piccoli”.
Ovviamente. Che sciocca che ero.
“Oh, già. Hai perfettamente ragione. Allora, andiamo a guardare Fievel, che ne dite?” proposi, alzandomi dal tavolo.
“Sìììì!” i bambini saltarono giù dalle sedie e mi precedettero di corsa in salotto, dove spodestarono senza troppi complimenti Robin, fino a qualche secondo prima comodamente adagiato sul divano.
Lui imprecò volgarmente, sotto lo sguardo di sufficienza del fratello maggiore. “Sedetevi per terra, bestie!” li rimproverò, assicurando fuori dalla loro portata il proprio videogioco.
Ignorai la sua scortesia, conscia che sarebbe stato estremamente controproducente rimproverarlo. Posai le custodie dei film sul tavolino e preso ‘Fievel’ dalle mani di Thom mi avvicinai al televisore.
“Cosa hai intenzione di fare?”
La voce irritata ed irritante di Johnny mi giunse alle orecchie come un ringhio sommesso. Cosa avevo fatto quella volta? “… Metto  su un film?”
Lui inarcò un sopracciglio, chiudendo il libro che stava leggendo, usando un dito per tenere il segno. “Sei un robot? Te lo metti in bocca e lo proietti dagli occhi?”
Sbuffai. “Johnny, qual è il problema?”
“Non abbiamo il lettore dvd” rispose Robin, che ora era inginocchiato davanti al tavolino. Scoprii con piacere che maneggiava con cura e malcelato interesse le custodie dei film. “purtroppo” aggiunse, poi, in un sospiro.
Sorrisi. Forse avrei davvero ottenuto la sua simpatia con … COSA?! “Non avete il lettore dvd!?” ripetei, sconvolta, puntando lo sguardo su Johnny. Ok, era sempre crudelmente ironico, ma pareva aver già capito che il modo migliore per ferire era la verità e non la menzogna, motivo per cui raramente mentiva.
“Ma ne hai mai visto uno in questa casa?” osservò con ovvietà.
Sbuffai. “Ma che vuol dire? Al giorno d’oggi stanno dentro ai televisori, mica si comprano separati! Come la tv satellitare!” replicai, allargando le braccia in segno di sconfitta. Bandiera bianca, avevo perso. Sperdutolandia finiva sempre per sconfiggermi.
Johnny ridacchiò, guardando Robin. “Ricorda di raccontarla a Dean, questa”.
E quelle parole saettarono nella mia mente come un filmina a ciel sereno. Cosa c’entrava Dean in quel discorso? Perché…
Ma bastarono pochi attimi perché la mia mente metabolizzasse quell’informazione e capisse l’evidente realtà. “Stai dicendo che voi, razza di canaglie, andate a raccontare a Dean tutte le carognate che mi rifilate?!” sbottai, portando le mani sui fianchi. “Come diavolo vi salta in mente?! Nessuno vi ha insegnato che…” …che cosa? Che non si raccontano le gaffes degli altri e non ci si ride su? A livello morale, forse, era sensato come ragionamento, ma a livello effettivo chi non aveva mai riso di una cretinata come quelle che io combinavo un giorno e sì e l’altro pure?
Johnny in tutta risposta scoppiò a ridere, spassionatamente imitato da Robin, troppo impegnato a leggere le trame dei film per poter rispondere.
Dal canto mio ero troppo irritata per poter notare ciò che lui stava facendo, quindi mi limitai a emettere un grugnito di frustrazione. “Canaglie” li apostrofai.
Beth saltò giù dal divano e si aggrappò all’orlo della mia maglietta. “Guardiamo il film?” chiese, supplichevole.
La guardai, senza sapere cosa rispondere. “Betty, non si può, non c’è l lettore dvd…”dissi.
Terry e Thom si guardarono, poi raggiunsero la sorella. Ero ufficialmente circondata da marmocchi. “Ma tu hai detto che lo guardiamo!” si lamentò Terry.
Johnny ghignò. “Ora voglio proprio vedere come te la cavi”.
“Non ci sono tanti modi in cui cavarsela, a dire il vero. Oggi non si può vedere, bambini. Sabato vi porto il mio computer e lo guardiamo con quello, ma og-“
“Oggi! Tu hai detto che lo guardiamo!”
“Non si dicono le bugie!”
“Tu sei cattiva!”
Prima che potessi concludere la frase le bambine si erano rituffate sul divano, lagnandosi rumorosamente con il volto sprofondato sui cuscini. Thom si lasciò cadere a terra accanto ai miei piedi, e iniziò a piangere. “Però tu avevi detto…”biascicò, mentre dei lacrimoni da coccodrillo iniziavano a correre giù dai suoi occhioni innocenti.
Aprii bocca per dire qualcosa, ma non ci riuscii. A quella vista mi si era stretto il cuore. Mi sentivo in colpa, terribilmente in colpa. Mi inginocchiai accanto al bambino e gli accarezzai il capo. “Dai, Thommy, non piangere… lo guardiamo sabato. Oggi non ce l’ho, non sapevo che non aveste il…”
“SEI CATTIVA!” strillarono le bambine, una dopo l’altra, per poi gettarsi a loro a volta a terra, stese e cominciare a singhiozzare platealmente.
Per quanto continuassero a intenerirmi, in quel modo, ormai avevo imparato a conoscere le bambine e la loro inclinazione a lagnarsi e a fare i capricci. Quello che in quel momento mi faceva stringere maggiormente il cuore e Thom, che solamente aveva l’aria di quello ottimista e pacifico, quello che non si arrabbiava mai e si limitava a ridere di tutto ciò che gli capitava. Già a quell’età sembrava prendere la vita con filosofia, e vederlo mentre singhiozzava silenziosamente seduto ai miei piedi mi stava distruggendo dentro.
La mia mente lavorava frenetica alla ricerca di una soluzione.
Mentre mi guardavo attorno in cerca dell’ispirazione incrociai lo sguardo scettico e vagamente divertito di Johnny. Sbuffai. “Senti, io capisco che tu mi detesti, ma … “
“Dean se la riderà della grossa quando gli racconteremo questo” sogghignò.
Strinsi i denti. “Piccolo stupido … hey! Dean!” mi illuminai. “Johnny, vai a raccontarglielo ora, così torni a casa con il mio portatile e vivremo tutti per sempre felice e contenti, con la cicatrice che non fa più male!” sputai, tutto d’un fiato, evidentemente sollevata. Ora che avevo trovato un modo per risolvere il problema della grande tragedia greca che era in scena in quel momento nella stanza, mi sentivo meglio. Meno sensi di colpa, sicuramente.
“Te lo scordi!”
E tanti saluti al mio piano geniale!
“Johnny!”sospirai.
“Non sono il tuo servo!”
Sbuffai, incrociando le braccia. “Questo lo so. Ti sto chiedendo un favore. Non posso lasciare i tuoi fratelli qui! Tu sei il più grande, puoi anche andare da solo!”
Lui si alzò, e in quel momento pensai seriamente che avrebbe accettato di aiutarmi. Lui però si limitò ad avvicinarsi al tavolino del salotto e a buttare a terra i dvd che Robin stava osservando. “Hey!”
“Hey, un cavolo! Pensi sia un caso che si sia presentata con questi cosi?! Sta cercando di incastrarci!” sbottò, togliendo di mano al fratello anche l’ultima custodia. “Sei un cretino, Rob!”
L’altro lo guardò da sotto in su e non rispose. Dopo aver scrutato per qualche secondo lo sguardo furioso del fratello, abbassò il capo.
Si sottometteva, cavolo! L’unico fratello minore al mondo che si lasciava sottomettere!
“Senti un po’, Sherlock, … incastrarvi? Pensi forse che io stia cercando di … di far cosa, di grazia?!” intervenni, nascondendo dietro l’incredulità quella piccola ferita che, comunque, quelle parole mi avevano scavato dentro.
Johnny mi lanciò un’ occhiata in tralice. “Vuoi che noi ti accettiamo. Ma noi non ti vogliamo, e lo sai. Non abbiamo bisogno di te, quindi levatelo dalla testa!”
“Ma cosa?” gemetti, esasperata.
“Non sarai mai una di noi!” gridò, per poi correre su per le scale, nella sua stanza.
L’uscita di scena del ragazzino ci lasciò in uno stato di silenziosa spossatezza. I bambini continuavano a singhiozzare, Robin si fissava le mani, seduto sul pavimento. Io ero in uno stato di trance. Mentalmente ero attiva, fisicamente molto meno. In piedi accanto a Thom, lo sguardo perso nel vuoto, mi chiedevo cos’avesse contro di me Johnny. Che si sentisse minacciato nel suo ruolo di ‘fratello maggiore’ e quindi di ‘più grande’ era strano, e sciocco, anche. Che semplicemente non mi volesse lì non aveva senso. Potevo stargli antipatica a pelle, ma perché mi detestava così tanto? Nemmeno mi conosceva. Per quale motivo si comportava in quel modo?
“E il fiiiilm?” si lagnò nuovamente una delle bambine.
Con un sospiro, mi riattivai e presi una decisione in mezzo secondo. “Ora sistemiamo anche questo. Allora, voi tre, correte in camera a vestirvi. Anche tu, Robin. Andiamo a cercare qualcuno che abbia voglia di aiutarci e, costi quel che costi, troveremo un lettore dvd”.

Venti minuti più tardi, dopo un’assurda sfaticata per riuscire a far cambiare i gemelli e cercare di convincere Johnny a fare lo stesso, ero fuori in strada, in marcia. Una marcia piuttosto lenta, considerate le continue lamentele dei bambini sulla mia andatura troppe spedita, le scarpe che facevano loro male e il fiato corto.  Povere anime.
Johnny si era categoricamente rifiutato si venire con noi in paese, quindi eravamo senza di lui. Forse non è carino da dire o pensare, ma fu una fortuna. Robin mi stava aiutando a recuperare periodicamente il gemello dei tre che, siccome non avevo abbastanza arti per tenerli tutti e tre per mano, decidere che essendo libero poteva correre dove diavolo gli pareva. Senza il suo aiuto probabilmente ne avrei persi almeno due lungo la strada.
Fui piacevolmente colpita nel vedere quanto Robin potesse fornire una buona compagnia, lontano dalle influenze del fratello maggiore. Era intelligente e pacato, ma tranquillo.
“Dove andiamo?” mi chiese rimettendo a terra Beth, che fino a poco prima teneva in braccio per evitare la fuga.
“Non so. Quel che ci serve è qualcuno che arrivi fino a casa di Abe e ci porti il mio portatile. Qualche idea?” domandai, stringendomi nelle spalle.
Robin ci pensò su mezzo secondo, poi annuì e indicò la porta del saloon. “Per queste cose c’è Terrence” disse con semplicità.
Quel nome evocò nella mia mente l’immagine del ragazzo bruno che il venerdì precedente era entrato nel saloon mentre ero al telefono, aveva fatto la sua bella figura da  perfetto idiota e poi se ne era andato lasciandomi con un palmo di naso. “Dici che è in grado di portare il computer senza distruggerlo?” mi lasciai sfuggire, evidentemente dubbiosa.
Il ragazzino diede un’alzata di spalle. “Non lo so, però quando papà ha bisogno di dire qualcosa a qualcuno che è lontano manda sempre lui”.
“Dev’essere un tipo affidabile, allora” osservai, un po’ scettica. Non tanto del metro di giudizio del signor Lucas, quanto dell’effettiva affidabilità di Terrence. Non aveva esattamente la faccia della persona sveglia, anche se forse ero l’ultima persona che poteva permettersi di giudicare questo punto.
Tuttavia quando entrando nel saloon lo trovammo in tempo a festeggiare una vittoria a carte contro un anziano signore improvvisando una bizzarra danza rituale indigena abbandonai ogni minimo senso di colpa per ciò che avevo pensato. E anche ogni speranza di riavere il mio computer sano e salvo.
“Pan, cosa ci fai tu qui?” Una voce burbera che ben conoscevo mi sottrasse al mio rassegnato stupore.
“Hey, nonno!” lo salutai allegramente. Solo in quel momento ricordai che il bar di Ginger e il luogo in cui passava la maggior parte del suo tempo. A giocare a burraco e poker con un gruppo di uomini all’incirca della sua età. “A dire il vero avrei bisogno di un favore e non sapevo a chi chiedere, poi Robin mi ha detto di chiedere di Terrence e quindi eccoci qua” ammisi, sottolineando però il fatto che l’idea fosse stata del ragazzino e non mia.
Abraham fece una smorfia e annuì, tornando alle sue carte, mentre il diretto interessato sentendosi tirato in causa interruppe la sua comica esibizione e si presentò a rapporto da bravo soldatino. Con tanto di saluto militare, che mio malgrado mi strappò un sorriso divertito. “Agli ordini signorina!”
Indugiai un attimo, chiedendomi se fosse la scelta giusta affidarmi a lui, poi mi dissi che ormai era troppo tardi per tirarsi indietro. O la va o la spacca! “Sì, ehm… mi chiedevo se potessi arrivare a casa di Abraham e portarmi il pc portatile alla fattoria dei Lucas. Credimi, non te lo chiederei se non fosse urgente” specificai. Anche perché vedere il mio adorato magazzino di musica, film e fotografie distrutto non è esattamente il primo punto nella lista delle mie priorità. E va bene che magari sono da riordinare, ma credo che in tal caso eliminerei l’opzione del tutto.
Lui annuì. “Devo andarci subito?”
“Be’…” stavo per dire di no, la sguardo implorante che mi rivolsero i bambini mi convinse a fare la cosa giusta. Anche se temevo avrei sofferto. “…il prima possibile”.
“Capito” disse. “Potrai pagarmi a consegna effettuata”.
“Certo. Anche perché ora non ho la borsa” … ero stata troppo occupata a non dimenticarmi nessun bambino per ricordarmene, “E se questo può facilitarti ti presto il mio ciao” rilanciai, Ricordavo bene quando per la prima volta l’avevo visto comparire alla finestra di casa Lucas, spompato. Pensai che se avesse avuto un mezzo di trasporto lo avrebbe utilizzato, anziché rischiare l’infarto ogni volta che gli veniva affidato un compito.
“Mi sarà utile, grazie: il mio scooter è senza benzina da almeno due mesi!” rise.
Come non detto. Era semplicemente troppo pigro per mettere la benzina nel motorino. Quindi correva come un cane esaltato avanti e indietro. Giustamente.
“Ah” commentai, interrogandomi sulla sua sanità mentale. Cercai di sorridere, ma non so quanto fossi convincente. “Ci vediamo più tardi, allora. Ciao a tutti! Forza ragazzi, dietro front!” conclusi, trascinando fuori l’allegra comitiva.
Ero piuttosto sconcertata. Mi chiesi quanto mi sarebbe costato procurarmi un nuovo portatile e se Emily avesse salvato tutte quelle foto che sarebbero sicuramente andate perse, presto. Quale ragazza al mondo avrebbe mai affidato il suo computer a quell’enorme sprovveduto apparentemente privo anche solo dell’ombra di un cervello?! IO! Io e basta!
“Sembra un po’ stupido” convenne Robin, intuendo la mia battaglia interiore, o forse semplicemente pensando la stessa cosa. “ma non lo è così tanto”.
Feci una smorfia. “Ah, quindi non è solo una mia impressione” commentai. “Ha mai distrutto niente?”
Robin ci pensò su, poi iniziò a sghignazzare. “No. No, aspetta, una volta sì: si è schiantato con lo scooter contro il muro della chiesa. Portava delle uova ed erano tutte sparse per la piazza, rotte! Solo che sua mamma era sul veterinario e ha visto la scena, è uscita e l’ha rincorso per tutto il paese! Voleva picchiarlo con un ombrello!”
Risi di gusto. E tanti saluti al mio primato quasi assicurato per il più teatrale incidente stradale in paese!

10 settembre 2011

Cows and jeans 13

Passavo pigramente in rassegna i volumi nella libreria di nonno Abraham, dopo cena. Era dal primo giorno che avevo voglia di farlo, e finalmente si era presentata l’occasione per studiare da vicino quegli splendidi volumi. Così iniziai a leggere tutti i titoli, estraendo i libri il cui nome mi incuriosiva particolarmente per poi sfogliarli. Avrei probabilmente perso tutta la sera in quel modo se avessi potuto, e la velocità delle mie operazioni non aumentò quando riconobbi la copertina verde scuro di un libro illustrato di fiabe. Lo presi, meccanicamente e con il sorriso sulle labbra iniziai a osservare i disegni. Il lupo, cappuccetto rosso, il bosco. La piccola fiammiferaia, la tavola imbandita, la scatola di fiammiferi. Narciso, l’acqua. Immagine dopo immagine nella mia mente si formava il ricordo di tutte le volte che ero stata seduta sulle ginocchia della nonna, in quella stessa stanza, mentre lei mi leggeva le fiabe, e il nonno ascoltava rapito quanto me, fingendo di leggere il giornale.
Con un incredibile nodo alla gola ritornai con la mente ai pensieri del pomeriggio. Mi sentivo immensamente in colpa per non essere stata accanto ad Abraham quando si era probabilmente sentito più solo e devastato. Avei voluto tornare indietro nel tempo e recarmi in quella fattoria ogni settimana almeno. Ma per quanto potessi rimpiangere il mio mancato supporto, sapevo che non sarei mai potuta tornare indietro e rimediare. Non nel passato almeno. Sarei però potuta rimanere al suo fianco nel presente, facendogli capire di non essere solo.
Per la prima volta mi chiesi se Dean non abitasse con lui a causa della sua incapacità di stare solo. Non sembrava avere bisogno di una badante, ma magari... di compagnia? Improvvisamente mi sentii vagamente meglio disposta nei confronti del biondo ed indisponente ragazzo.
Rimasi a pensare a lungo, con quel libro tra le mani, immobile. Avevo anche smesso di sfogliarlo, motivo per cui il mio irritante coinquilino avrebbe potuto comparire da un momento all’altro mandando in frantumi la mia momentanea simpatia nei suoi confronti. Simpatia che, specifico, era dovuta soprattutto alla sua assenza in quel mentre.
Quando mi riscossi, il sole era sul punto di iniziare i preparativi per coricarsi. Aveva appena iniziato a indossare il suo comodo pigiama arancione. Intuendo che il nonno non avesse in realtà alcun libro su tale argomento, mi ricordai di George e pensai che forse, una volta tanto, avrei potuto gradire il suo intervento nella mia vita. Salutando di gran fretta Abraham, uscii di corsa e inforcai la motoretta, diretta in paese.
Ginger, nonostante il venerdì fosse il giorno del recupero, o come diavolo lo chiamavano, non chiudeva il bar. Essendo quel luogo l’unico in cui vi era un telefono non privato, non poteva evitare di rimanere aperto anche il venerdì. Non faceva attività come saloon, tuttavia. Era agibile solo per le comunicazioni. Ginger stessa non trascorreva che qualche minuto dietro al bancone. Abitava in un appartamento sopra il locale e non si prendeva nemmeno la briga di sorvegliarlo, rimanendo comodamente in casa a riposare o a occuparsi dei lavori domestici.
Non mi stupii, quindi, di trovare la porta aperta e nessuno all’interno quando entrai. Misi i soldi per pagare la telefonata nell’apposita scatola di cartone accanto all’apparecchio telefonico e dopo aver chiesto se ci fosse qualcuno senza ottenere risposta composi il numero.
Pronto?”
“Ma non esci mai, tu?”
“Chi è?” Nemmeno riconosceva la mia voce, quell’imbecille?
Sospirai. “Joshua, sono tua sorella”.
“Hey! Il sole è quasi calato, non sei ancora in branda, Maganò?” mi sbeffeggiò. Eh, sì, la fama delle ferree regole di casa Fletcher edizione Sperdutolandia era presto giunta anche in città, in particolare alle orecchie di quel cretino di mio fratello, il quale non perdeva occasione per prendersi gioco di me anche riguardo a quelle.
“Maganò a chi?!” soffiai, fingendomi indignata. Fingendo, sì. Anche se il fatto che scambiasse il termine Magonò al posto di Babbano un po’ mi infastidiva seriamente.
“No, cadetto, oggi abbiamo la giornata libera, ergo chiudi il forno e passami George”.
“Come?”
Sbuffai. “… per favore?” tentai, incerta. A volte si puntava su certe cose in maniera assurda. Pretendeva che usassi educazione e cortesia quando lui passava metà del tempo a darmi ordini e a prendersi gioco di me. Mi chiesi per quale motivo l’avessi sempre lasciato fare e non seppi darmi risposta. Sì, insomma, mi ribellavo. Ma sebbene fosse più piccolo di me era un ragazzo di diciassette anni alto e robusto. Cosa poteva una nana col fisico da lanciatore professionista di coriandoli contro di lui, che oltre tutto era un ragazzo? (Femminista convinta pure io, sì, ma ammettiamolo: fisicamente non c’è paragone e lo sappiamo bene).
“Oh, no. Cioè, non è quello … va bè'. GEORGEEEEEE AL TELEFONOOOO!” strillò dopo aver farfugliato qualche stralcio sconnesso di frase. Mai una volta che allontanasse la cornetta prima di gridare, osservai riparandomi –troppo tardi- l’orecchio lesionato con la mano.
Ci volle quasi un intero minuto perché l’uomo alzasse il ricevitore. Probabilmente era troppo impegnato a spolverare i suoi dannati dvd western per poter rispondere, ma alla fine aveva fatto uno sforzo. Che anima pia! Almeno, una volta tanto, lucidare quegli inutili involucri per i suoi squallidi vecchi film non sarebbe stato totalmente inutile. Avrei potuto evitare di farlo io, così.
“Pronto, parla George St-…?”
“Ciao, George” lo interruppi. “Sono Pan.”
Rimase in attonito silenzio per qualche attimo, poi parve aver acceso il cervello e capito chi fossi. Non che non lo sapesse, questa colpa devo proprio abbonargliela. Il punto ero io. Non avevo mai voluto parlare con lui al telefono. Mai, da quando era sposato con mamma avevo sentito la necessità di telefonargli. Se avevo bisogno di un uomo con cui parlare avevo un padre, no? Il nuovo marito di mia madre era effettivamente solo un conoscente, nonostante ci vivessi assieme fino a poco tempo prima. Questo era forse uno dei motivi per cui George tendeva a preferire Joshua a me. E di conseguenza mia madre, convinta di potersi permettere di atteggiarsi a giovane mogliettina totalmente e pazzamente innamorata che pende dalle labbra del suo sposo, non solo assecondava ma si aggregava, persino, al Joshua fan club. “Wow, che sorpresa, princ-…”
Quasi mi strozzai udendo quella parola. “Oh, no ti prego. Non chiamarmi in quel modo.” Implorai. “Sei sul punto di guadagnare qualche punto sulla scala della mia stima, quindi, ti scongiuro, chiamami come vuoi ma non principessa.”
Rimase in silenzio qualche attimo, ti nuovo.
Sì, solitamente era così che procedevano tutte le nostre conversazioni. Lui iniziava, io lo interrompevo e lui rimaneva in attesa per un po’. Poi ricominciava il ciclo. La sua falsa pazienza era data solo dal voler sembrare un buon genitore, immagino. Io mi sarei presa a ceffoni molto prima. Quella era tuttavia la mia reazione alla sua comparsa nella mia vita: indisposizione. Ce l’avevo più con mia madre che con lui. In fondo era stata lei a volergli dare le chiavi per entrare. C’era da dire che nutrivo però una totale e reale antipatia per George.
“Come vuoi” disse, in tono piatto. “ Penso che potresti lasciarmi concludere una frase ogni tanto, ma, come mi ha molte volte ripetuto, non sono tuo padre e di conseguenza non mi è consentito desiderare rispetto da parte tua”.
Ecco, vedi che impari in fretta?!
Ingoiai a fatica la risposta e sospirai. “Non dirò che ne hai appena conclusa una perché forse, e dico forse, potresti avere ragione” Dovevo riconoscerlo: ero piuttosto impertinente nei suoi confronti. “Quindi ti...” indugiai, “...ti chiedo scusa.” Mi morsi il labbro inferiore. Sembravo assurdamente una stupida lecchina. “George, ascolta, devo chiederti un favore”.
Mi sembrò di poter udire il ‘ecco perché sei così docile’ che certamente pensò. O almeno ne ero convinta.
Gli raccontai dei bambini. E non con qualche breve e sbrigativo accenno al fatto che lavorassi presso una donna i cui figli erano incontenibili. Senza rendermene conto inizia a sfogare le mie frustrazioni in un dettagliato racconto di tutti gli episodi principali accaduti con quei marmocchi indemoniati. Prima che potessi giungere a metà della lunga serie, tuttavia, mi resi conto di ciò che stavo facendo e di chi ci fosse dall’altra parte della cornetta. Mi chiusi per qualche istante in un imbarazzato silenzio, senza sapere nemmeno io perché avessi raccontato tutto ciò nei dettagli. Forse arrossii, anche.
Anche George parve sorpreso, non disse nulla e attese che ricominciassi a parlare.
“Sì, ehm... bè, la madre mi ha detto che uno dei ragazzi ha una sorta di ossessione per il vecchio west. E, beh, mi chiedevo se potessi prestarmi qualche DVD a cui non tieni particolarmente, ecco.” Conclusi imbarazzata.
Cadde il silenzio. Rimase a lungo, incombendo pesantemente su di me, paralizzata dall’imbarazzo e dall’insicura attesa di una risposta. Per quanto riguardava lui... bè, forse era svenuto al solo pensiero di affidarmi uno dei suoi preziosissimi attira polvere. Cioè, DVD.
In quel momento, come un fulmine a ciel sereno  -o come un perfetto idiota in un bar vuoto, a scelta- un ragazzo entrò aprendo la porta di scatto, con un gran fragore. Mi voltai, stupita. Lo ammetto, mi aveva addirittura spaventata. Prima di chiudere la porta gridò qualcosa a qualcuno di fuori, ridendo. Qualcosa che non capii perché non avevo ancora ben metabolizzato il suo arrivo.
Poi si voltò, si guardò attorno, puntò lo sguardo su di me e borbottò “Non c’è nessuno, qua”.
Feci una smorfia. “Sì, bè, è venerdì, Terrence” risposi, con ovvietà. Se non lo aveva imparato lui, che probabilmente abitava in paese da diciotto anni, forse non doveva spaventarmi il fatto che puntualmente, ogni venerdì, mi svegliassi con l’ansia di dover correre da Hayley, prima di ricordarmi che non dovevo lavorare.
“Oh, hai ragione.” Abbozzò un sorriso divertito. “E tu cosa ci fai qui?”
Ma si era rincretinito?
Aprii la bocca per rifilargli una rispostaccia intrisa di Distillato della Morte Vivente, poi però la richiusi e sospirai. Mi sforzai di abbozzare un sorriso, indicando il telefono.
Ovunque nel mondo i ragazzi rendevano assolutamente lampante il fatto che l’uomo si fosse evoluto dalla scimmia. In città, in campagna, al mare, in montagna e su Marte. E spesso non sembrava essere migliorato poi molto.
Lui sgranò gli occhi, capì e sorrise. “Oh, sei al telefono … scusa!” detto ciò uscì, e ricominciò a ridere fragorosamente con il compagno che lo aspettava fuori.
Non lo identificai, non lo vidi, e non mi interessava farlo.
Quell’entrata a sorpresa mi aveva disarmata. Ma mi aveva anche scossa e riportata al mondo reale. Luogo in cui non stavo ad aspettare ansiosamente la risposta del nuovo marito di mia madre, dove la mia irriverenza nei suoi confronti era perfettamente giustificata dal solo fatto che volesse –e potesse, per quanto riguardava Josh e mia madre- rimpiazzare mio padre. “George, che c’è? Un cactus troppo affettuoso di ha abbracciato la lingua?”
Rise. Una risata totalmente ed esplicitamente falsa. “Spiritosa come sempre. E dire che per un attimo ho creduto che quel posto ti avesse fatta maturare”.
Ma perché doveva fare sempre questi commenti poco opportuni? Mi risultava difficile contenere l’acidità, così di certo non mi facilitava le cose. “Allora? Che ne dici?” insistetti.
Trattenni il fiato, in attesa.
… Silenzio.
Silenzio.
Ancora silenzio.
Rischiavo l’asfissia, ormai.
“E sia. Te ne spedisco un paio il prima possibile”.
Ripresi a respirare, a bocca aperta. In parte perché se avessi continuato un altro po’ avrei rischiato di morire, in parte per la sorpresa. “Davvero?” cercai di contenere l’improvviso entusiasmo.
“Sì. Ma non lo meriteresti”.
“Già. Per fortuna sei un uomo magnanimo, però” commentai, scettica. “Grazie, comunque” aggiunsi, poi. “Salutami …”
“Tua madre, sì”.
“Hey! Non interrompermi!” lo canzonai, divertita.
“Impertinente” mi apostrofò, con uno sbuffo d’esasperazione. “Dovresti smettere di comportarti da bambina”.
E tu dovresti smettere di fare il papino moralista! Sospirai. “Ciao, George. E grazie” riagganciai.
E, per la miseria, fu tremendamente irritante, sulla strada del ritorno, rendersi conto che Dean aveva perfettamente ragione: mi sforzavo di essere gentile con certe persone solo per dimostrare di essere matura e migliore di loro.
Dannazione a me!

Michela