10 settembre 2011

Cows and jeans 13

Passavo pigramente in rassegna i volumi nella libreria di nonno Abraham, dopo cena. Era dal primo giorno che avevo voglia di farlo, e finalmente si era presentata l’occasione per studiare da vicino quegli splendidi volumi. Così iniziai a leggere tutti i titoli, estraendo i libri il cui nome mi incuriosiva particolarmente per poi sfogliarli. Avrei probabilmente perso tutta la sera in quel modo se avessi potuto, e la velocità delle mie operazioni non aumentò quando riconobbi la copertina verde scuro di un libro illustrato di fiabe. Lo presi, meccanicamente e con il sorriso sulle labbra iniziai a osservare i disegni. Il lupo, cappuccetto rosso, il bosco. La piccola fiammiferaia, la tavola imbandita, la scatola di fiammiferi. Narciso, l’acqua. Immagine dopo immagine nella mia mente si formava il ricordo di tutte le volte che ero stata seduta sulle ginocchia della nonna, in quella stessa stanza, mentre lei mi leggeva le fiabe, e il nonno ascoltava rapito quanto me, fingendo di leggere il giornale.
Con un incredibile nodo alla gola ritornai con la mente ai pensieri del pomeriggio. Mi sentivo immensamente in colpa per non essere stata accanto ad Abraham quando si era probabilmente sentito più solo e devastato. Avei voluto tornare indietro nel tempo e recarmi in quella fattoria ogni settimana almeno. Ma per quanto potessi rimpiangere il mio mancato supporto, sapevo che non sarei mai potuta tornare indietro e rimediare. Non nel passato almeno. Sarei però potuta rimanere al suo fianco nel presente, facendogli capire di non essere solo.
Per la prima volta mi chiesi se Dean non abitasse con lui a causa della sua incapacità di stare solo. Non sembrava avere bisogno di una badante, ma magari... di compagnia? Improvvisamente mi sentii vagamente meglio disposta nei confronti del biondo ed indisponente ragazzo.
Rimasi a pensare a lungo, con quel libro tra le mani, immobile. Avevo anche smesso di sfogliarlo, motivo per cui il mio irritante coinquilino avrebbe potuto comparire da un momento all’altro mandando in frantumi la mia momentanea simpatia nei suoi confronti. Simpatia che, specifico, era dovuta soprattutto alla sua assenza in quel mentre.
Quando mi riscossi, il sole era sul punto di iniziare i preparativi per coricarsi. Aveva appena iniziato a indossare il suo comodo pigiama arancione. Intuendo che il nonno non avesse in realtà alcun libro su tale argomento, mi ricordai di George e pensai che forse, una volta tanto, avrei potuto gradire il suo intervento nella mia vita. Salutando di gran fretta Abraham, uscii di corsa e inforcai la motoretta, diretta in paese.
Ginger, nonostante il venerdì fosse il giorno del recupero, o come diavolo lo chiamavano, non chiudeva il bar. Essendo quel luogo l’unico in cui vi era un telefono non privato, non poteva evitare di rimanere aperto anche il venerdì. Non faceva attività come saloon, tuttavia. Era agibile solo per le comunicazioni. Ginger stessa non trascorreva che qualche minuto dietro al bancone. Abitava in un appartamento sopra il locale e non si prendeva nemmeno la briga di sorvegliarlo, rimanendo comodamente in casa a riposare o a occuparsi dei lavori domestici.
Non mi stupii, quindi, di trovare la porta aperta e nessuno all’interno quando entrai. Misi i soldi per pagare la telefonata nell’apposita scatola di cartone accanto all’apparecchio telefonico e dopo aver chiesto se ci fosse qualcuno senza ottenere risposta composi il numero.
Pronto?”
“Ma non esci mai, tu?”
“Chi è?” Nemmeno riconosceva la mia voce, quell’imbecille?
Sospirai. “Joshua, sono tua sorella”.
“Hey! Il sole è quasi calato, non sei ancora in branda, Maganò?” mi sbeffeggiò. Eh, sì, la fama delle ferree regole di casa Fletcher edizione Sperdutolandia era presto giunta anche in città, in particolare alle orecchie di quel cretino di mio fratello, il quale non perdeva occasione per prendersi gioco di me anche riguardo a quelle.
“Maganò a chi?!” soffiai, fingendomi indignata. Fingendo, sì. Anche se il fatto che scambiasse il termine Magonò al posto di Babbano un po’ mi infastidiva seriamente.
“No, cadetto, oggi abbiamo la giornata libera, ergo chiudi il forno e passami George”.
“Come?”
Sbuffai. “… per favore?” tentai, incerta. A volte si puntava su certe cose in maniera assurda. Pretendeva che usassi educazione e cortesia quando lui passava metà del tempo a darmi ordini e a prendersi gioco di me. Mi chiesi per quale motivo l’avessi sempre lasciato fare e non seppi darmi risposta. Sì, insomma, mi ribellavo. Ma sebbene fosse più piccolo di me era un ragazzo di diciassette anni alto e robusto. Cosa poteva una nana col fisico da lanciatore professionista di coriandoli contro di lui, che oltre tutto era un ragazzo? (Femminista convinta pure io, sì, ma ammettiamolo: fisicamente non c’è paragone e lo sappiamo bene).
“Oh, no. Cioè, non è quello … va bè'. GEORGEEEEEE AL TELEFONOOOO!” strillò dopo aver farfugliato qualche stralcio sconnesso di frase. Mai una volta che allontanasse la cornetta prima di gridare, osservai riparandomi –troppo tardi- l’orecchio lesionato con la mano.
Ci volle quasi un intero minuto perché l’uomo alzasse il ricevitore. Probabilmente era troppo impegnato a spolverare i suoi dannati dvd western per poter rispondere, ma alla fine aveva fatto uno sforzo. Che anima pia! Almeno, una volta tanto, lucidare quegli inutili involucri per i suoi squallidi vecchi film non sarebbe stato totalmente inutile. Avrei potuto evitare di farlo io, così.
“Pronto, parla George St-…?”
“Ciao, George” lo interruppi. “Sono Pan.”
Rimase in attonito silenzio per qualche attimo, poi parve aver acceso il cervello e capito chi fossi. Non che non lo sapesse, questa colpa devo proprio abbonargliela. Il punto ero io. Non avevo mai voluto parlare con lui al telefono. Mai, da quando era sposato con mamma avevo sentito la necessità di telefonargli. Se avevo bisogno di un uomo con cui parlare avevo un padre, no? Il nuovo marito di mia madre era effettivamente solo un conoscente, nonostante ci vivessi assieme fino a poco tempo prima. Questo era forse uno dei motivi per cui George tendeva a preferire Joshua a me. E di conseguenza mia madre, convinta di potersi permettere di atteggiarsi a giovane mogliettina totalmente e pazzamente innamorata che pende dalle labbra del suo sposo, non solo assecondava ma si aggregava, persino, al Joshua fan club. “Wow, che sorpresa, princ-…”
Quasi mi strozzai udendo quella parola. “Oh, no ti prego. Non chiamarmi in quel modo.” Implorai. “Sei sul punto di guadagnare qualche punto sulla scala della mia stima, quindi, ti scongiuro, chiamami come vuoi ma non principessa.”
Rimase in silenzio qualche attimo, ti nuovo.
Sì, solitamente era così che procedevano tutte le nostre conversazioni. Lui iniziava, io lo interrompevo e lui rimaneva in attesa per un po’. Poi ricominciava il ciclo. La sua falsa pazienza era data solo dal voler sembrare un buon genitore, immagino. Io mi sarei presa a ceffoni molto prima. Quella era tuttavia la mia reazione alla sua comparsa nella mia vita: indisposizione. Ce l’avevo più con mia madre che con lui. In fondo era stata lei a volergli dare le chiavi per entrare. C’era da dire che nutrivo però una totale e reale antipatia per George.
“Come vuoi” disse, in tono piatto. “ Penso che potresti lasciarmi concludere una frase ogni tanto, ma, come mi ha molte volte ripetuto, non sono tuo padre e di conseguenza non mi è consentito desiderare rispetto da parte tua”.
Ecco, vedi che impari in fretta?!
Ingoiai a fatica la risposta e sospirai. “Non dirò che ne hai appena conclusa una perché forse, e dico forse, potresti avere ragione” Dovevo riconoscerlo: ero piuttosto impertinente nei suoi confronti. “Quindi ti...” indugiai, “...ti chiedo scusa.” Mi morsi il labbro inferiore. Sembravo assurdamente una stupida lecchina. “George, ascolta, devo chiederti un favore”.
Mi sembrò di poter udire il ‘ecco perché sei così docile’ che certamente pensò. O almeno ne ero convinta.
Gli raccontai dei bambini. E non con qualche breve e sbrigativo accenno al fatto che lavorassi presso una donna i cui figli erano incontenibili. Senza rendermene conto inizia a sfogare le mie frustrazioni in un dettagliato racconto di tutti gli episodi principali accaduti con quei marmocchi indemoniati. Prima che potessi giungere a metà della lunga serie, tuttavia, mi resi conto di ciò che stavo facendo e di chi ci fosse dall’altra parte della cornetta. Mi chiusi per qualche istante in un imbarazzato silenzio, senza sapere nemmeno io perché avessi raccontato tutto ciò nei dettagli. Forse arrossii, anche.
Anche George parve sorpreso, non disse nulla e attese che ricominciassi a parlare.
“Sì, ehm... bè, la madre mi ha detto che uno dei ragazzi ha una sorta di ossessione per il vecchio west. E, beh, mi chiedevo se potessi prestarmi qualche DVD a cui non tieni particolarmente, ecco.” Conclusi imbarazzata.
Cadde il silenzio. Rimase a lungo, incombendo pesantemente su di me, paralizzata dall’imbarazzo e dall’insicura attesa di una risposta. Per quanto riguardava lui... bè, forse era svenuto al solo pensiero di affidarmi uno dei suoi preziosissimi attira polvere. Cioè, DVD.
In quel momento, come un fulmine a ciel sereno  -o come un perfetto idiota in un bar vuoto, a scelta- un ragazzo entrò aprendo la porta di scatto, con un gran fragore. Mi voltai, stupita. Lo ammetto, mi aveva addirittura spaventata. Prima di chiudere la porta gridò qualcosa a qualcuno di fuori, ridendo. Qualcosa che non capii perché non avevo ancora ben metabolizzato il suo arrivo.
Poi si voltò, si guardò attorno, puntò lo sguardo su di me e borbottò “Non c’è nessuno, qua”.
Feci una smorfia. “Sì, bè, è venerdì, Terrence” risposi, con ovvietà. Se non lo aveva imparato lui, che probabilmente abitava in paese da diciotto anni, forse non doveva spaventarmi il fatto che puntualmente, ogni venerdì, mi svegliassi con l’ansia di dover correre da Hayley, prima di ricordarmi che non dovevo lavorare.
“Oh, hai ragione.” Abbozzò un sorriso divertito. “E tu cosa ci fai qui?”
Ma si era rincretinito?
Aprii la bocca per rifilargli una rispostaccia intrisa di Distillato della Morte Vivente, poi però la richiusi e sospirai. Mi sforzai di abbozzare un sorriso, indicando il telefono.
Ovunque nel mondo i ragazzi rendevano assolutamente lampante il fatto che l’uomo si fosse evoluto dalla scimmia. In città, in campagna, al mare, in montagna e su Marte. E spesso non sembrava essere migliorato poi molto.
Lui sgranò gli occhi, capì e sorrise. “Oh, sei al telefono … scusa!” detto ciò uscì, e ricominciò a ridere fragorosamente con il compagno che lo aspettava fuori.
Non lo identificai, non lo vidi, e non mi interessava farlo.
Quell’entrata a sorpresa mi aveva disarmata. Ma mi aveva anche scossa e riportata al mondo reale. Luogo in cui non stavo ad aspettare ansiosamente la risposta del nuovo marito di mia madre, dove la mia irriverenza nei suoi confronti era perfettamente giustificata dal solo fatto che volesse –e potesse, per quanto riguardava Josh e mia madre- rimpiazzare mio padre. “George, che c’è? Un cactus troppo affettuoso di ha abbracciato la lingua?”
Rise. Una risata totalmente ed esplicitamente falsa. “Spiritosa come sempre. E dire che per un attimo ho creduto che quel posto ti avesse fatta maturare”.
Ma perché doveva fare sempre questi commenti poco opportuni? Mi risultava difficile contenere l’acidità, così di certo non mi facilitava le cose. “Allora? Che ne dici?” insistetti.
Trattenni il fiato, in attesa.
… Silenzio.
Silenzio.
Ancora silenzio.
Rischiavo l’asfissia, ormai.
“E sia. Te ne spedisco un paio il prima possibile”.
Ripresi a respirare, a bocca aperta. In parte perché se avessi continuato un altro po’ avrei rischiato di morire, in parte per la sorpresa. “Davvero?” cercai di contenere l’improvviso entusiasmo.
“Sì. Ma non lo meriteresti”.
“Già. Per fortuna sei un uomo magnanimo, però” commentai, scettica. “Grazie, comunque” aggiunsi, poi. “Salutami …”
“Tua madre, sì”.
“Hey! Non interrompermi!” lo canzonai, divertita.
“Impertinente” mi apostrofò, con uno sbuffo d’esasperazione. “Dovresti smettere di comportarti da bambina”.
E tu dovresti smettere di fare il papino moralista! Sospirai. “Ciao, George. E grazie” riagganciai.
E, per la miseria, fu tremendamente irritante, sulla strada del ritorno, rendersi conto che Dean aveva perfettamente ragione: mi sforzavo di essere gentile con certe persone solo per dimostrare di essere matura e migliore di loro.
Dannazione a me!

Michela

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