13 settembre 2011

Cows and jeans 14


A partire dal lunedì seguente, ogni mattina partii venti minuti prima del solito per andare a controllare all’ufficio postale del paese se fosse arrivato qualcosa per me. Avevo ormai imparato a conoscere Tina, una ragazza sulla trentina dai cortissimi capelli neri, che accompagnava ogni mia espressione, frase o movimento con una battuta o un commento. E quando non parlava mi scoppiava letteralmente a ridere in faccia. Era irritante, sì, ma una volta che ci si ricordava che il mondo è bello perché è vario e che di gente strana ne era pieno, ci si faceva l’abitudine.
Dal terzo giorno, anche lei sembrava aver imparato a conoscermi. Già, aveva capito che ero il soggetto perfetto da prendere in giro. Era estremamente esilarante ridere della mia espressione quando scoprivo che il pacco di George non era ancora arrivato. Davvero moooolto divertente.
Quel giovedì mattina, entrai nell’ufficio postale con una calma studiata –affinchè quella donna non trovasse nulla per cui prendermi in giro- facendo suonare il campanello sopra la porta.
“Heylà! Buongiorno Pan!”
“’giorno, Tina!” sorrisi, cortese, mentre era chiaro che lei stesse già cercando qualcosa per cui mettersi a sghignazzare come la iena che era. No, così esageravo. Non era cattiva, in fondo, solo molto … ehm, spiritosa. O così credeva lei. Divertente lo era solo per sé stessa, l’unica a ridere delle sue continue e irritanti battute. Dispettosa, sì. Ma cattiva no. Il problema era che a trent’anni suonati, lavorando in un ufficio pubblico, fare il pagliaccio irriverente non era esattamente ciò che le veniva richiesto.
“Hey, Pan” ghignò. “Ora che ci penso: che nome strano hai!” osservò.
Quella affermazione mi ricordava pazzamente Cappuccetto Rosso col lupo cattivo vestito da nonnina. Solo che continuavo a pensare –nonostante la correzione fatta sopra- di avere davanti una iena travestita da trentenne con la sindrome di Peter Pan. Oh cielo, troppe fiabe in una volta sola!
“E’ per farti sghignazzare meglio!” risposi, infatti, facendo la voce grossa.
Lei scoppiò a ridere, poggiando gli avambracci alla scrivania dietro cui era seduta. “Sei forte, ragazza!”
“Sono in quasi ritardo, più che altro, Tina. Non è che è arrivato qualcosa per me, oggi?” ripetei la battuta di tutte le mattine.
Lei stessa si doveva essere accorta che ogni volta recitavo la stessa formula, perché ricominciò a ridare, nascondendo il volto sul tavolo e battendo un pugno sul piano di legno.
Sospirai, sconsolata. “Per la barba di Merlino!” soffiai, con una smorfia frustrata. “Oh, Tina, andiamo!” ma la mia imprecazione l’aveva fatta ridere anche più di prima. Rischiava di andare in apnea.
Sbuffai sonoramente e decisi di andarmene. Sarei passata alla sera, quando la mia dose quotidiana di ira sarebbe stata consumata e la mia voglia di arrabbiarmi sparita con essa. Per cui girai sui tacchi e mi avvicinai alla porta, ma quando aprendola feci suonare il campanello, Tina alzò la testa e si accorse di ciò che stavo facendo. “No, aspetta!” singhiozzò, cercando di reprimere le risate, con scarsi risultati.
“Cosa?” domandai, irritata, voltandomi.
La vidi alzarsi e mettersi a controllare i vari cassetti con i cognomi degli abitanti del paese. Non che fossero tantissimi a dire il vero. “Fletcher, giusto?”
Perché me lo chiedeva se erano quattro giorni di fila che mi presentavo dicendo il mio nome e chiedendole la stessa cosa? “Già”.
Aprì il cassetto di Abraham e si voltò, raggiante. “C’è questo” annunciò, porgendomi un pacchetto rivestito di carta da imballaggio gialla.
“Grazie!” esultai, lasciando che ogni traccia di irritazione svanisse nel nulla. “Grazie, Tina, grazie!” canticchiai, afferrando il pacco. Non potei trattenermi dal saltellare sul posto come una bambina a cui era stata regalata una nuova bambola, poi però, mentre la ragazza si piegava in due dalle risate, mi ricomposi. Ancora raggiante la salutai e corsi fuori.
Finalmente!
Finalmente avevo trovato la melodia che avrebbe fatto addormentare Fufi!
…o almeno una delle sue teste.

“¡Hola!” Fu il mio allegro saluto quando, puntuale come un orologio svizzero, entrai in casa di Hayley. La donna era appena uscita, l’avevo incontrata nel vialetto. Il mio pacchetto stretto tra le braccia, trotterellai dentro, sorridente e pronta a dar inizio al mio piano di ‘raddolcimento demoni’. “Buongiorno, ragazzi! Guardate un po’ cosa mi hanno mandato da casa!” gioii, andando in cucina.
Udendo quelle parole, i bambini lasciarono i loro giocattoli e mi seguirono di corsa. Thom inciampò sui propri piedi un paio di volte, prima di raggiungermi. “Non l’ho ancora aperto, lo facciamo assieme?” domandai, cercando di renderli partecipi il più possibile.
Sembrarono approvare l’idea, quindi li sistemai sulle sedie e posai il pacco al centro del tavolo. “Robin, Johnny, a voi non interessa?” chiesi, non vedendoli arrivare.
“No” fu la secca e contraiata risposta del maggiore, subito seguito da un grugnito poco convinto dell’altro. Robin non pareva un ragazzino tanto irriverente, in fin dei conti. Solo, tendeva a farsi guidare dal fratello maggiore anche quando i loro voleri discordavano. Si lasciava sottomettere.
Sospirai, chiedendomi se sarebbero serviti a qualcosa, i DVD, in mancanza di Robin. “Bene, lo apriamo insieme, ok? Ecco, levate lo scotch” suggerii, porgendolo ai bambini. I tre si sporsero gli uni verso gli altri, allungando le mani per operare per primi e garantirsi il primato di questo nuovo entusiasmante gioco. Sorrisi, vedendoli. Se nessuno li avesse abituati a farmi dispetti, sarebbero potuti essere davvero adorabili, in fondo. Nel giro di un minuto la carta fu lanciata brutalmente sul pavimento, senza pietà alcuna. Mentre mi rendevo conto di averla sotto gli occhi finemente suddivisa in un centinaio di inquietanti brandelli, mi ricordai che il contenuto nella scatola di cartone che i bambini stavano assalendo era comunque di proprietà di George. “Hey, hey, hey! Calmatevi un attimo!” intervenni, tuffandomi sulla tavola per recuperarla. Come il mio ventre entrò in contatto col legno, per un attimo trattenni il fiato in attesa di finire per terra. Mi ci volle qualche istante per ricordarmi che non tutti i tavoli erano stupidamente fragile come quello nella cucina di mia madre, che avevo tante volte schiantato gettandomi in quel modo per salvare qualcosa dalle mani di Joshua. 
Tornai a sedere sulla sedia, sotto lo sguardo imbronciato delle bambine e quello –sempre e comunque- entusiasta di Thom. “Ora, guardiamo cosa c’è qui” comunicai, con un mezzo sorriso. Per quanto non volessi fare arrabbiare i tre gemellini, non avevo alcuna intenzione di gettare nel gabinetto i DVD di George, e con essi una possibilità di catturare l’interesse di Robin e la fiducia che il nuovo compagno di mia madre aveva posto in me. Aprii cauta la scatola, sbirciando, movimento dopo movimento, le reazioni dei bambini. Ora tutti e tre si sporgevano sul tavolo verso di me, per vedere cosa contenesse il misterioso pacco. Con un sorriso soddisfatto estrassi le quattro custodie e iniziai a osservarne le copertine. Ridacchiai scorgendo ‘Fievel alla conquista del west’-l’unico che riconobbi, tra l’altro. Non per nulla avevo detto a George che più della metà dei demonietti non erano che bambini, no? “Oh, ma guardate un po’! Fievel! Lo conoscete?”
Le bambine si lanciarono un’occhiata e annuirono. “Sì” confermò Thom.
Ovviamente lo conoscevano. In città nessun bambino avrebbe riconosciuto il nome Fievel. Ma evidentemente a Sperdutolandia i  buoni e vecchi cartoni animati erano ancora di moda. Un punto a favore della campagna!
Passai loro il DVD, che presero a strapparselo di mano a vicenda, protestando sottovoce. “Io!”, ”No, dai, io!” bisticciavano piano. Sorrisi. Quello era nuovo, ne ero certa. Un’ infinità di volte Joshua si era infiltrato nello studio di George alla ricerca di qualche cartone animato, riemergendone ogni volta con un’espressione scontenta e lo stesso responso: “Ha tantissimi film! Perché non ha nessun cartone?!”.
George doveva averlo acquistato per l’occasione. Mi venne il dubbio che anche gli altri quattro non fossero stati presi dalla sua collezione, ma appena estratti dalla busta del BlockBuster del centro.
“Gli altri?”si informò Beth, alla quale era stato tolto di mano nuovamente il DVD.
Le sorrisi, ma diedi un’alzata di spalle. “Questi sono film per persone grandi. Neanche io li ho mai visti. Guarda come sono brutti, Betty” sottolineai, mostrandole le copertine. In tutte e tre spiccava un primo piano pauroso di un ceffo che non vedeva un rasoio dal mesozoico, con uno stetson calcato in testa, mentre mostrava infantilmente allo spettatore la propria pistola. “Ce l’ho anche io la stopila!” si entusiasmò Thom, indicando uno dei temibili cow boy dei DVD. Con quella frase mi balzò alla mente un libro che avevo letto qualche giorno prima: Mio fratello Simple. Lo avevo infilato a fatica nella valigia prima di partire, ne era uscito un po’ spiegazzato, ma non avrei mai potuto rischiare di lasciarlo a casa nelle mani di Joshua e del suo estremo menefreghismo per tutto ciò che era mio. Non prima di averlo letto. “Hai anche un coniglietto, suppongo!” sghignazzai, ricordando l’adorato pupazzo del protagonista.
“No. I conigli sono per i bambini piccoli”.
Ovviamente. Che sciocca che ero.
“Oh, già. Hai perfettamente ragione. Allora, andiamo a guardare Fievel, che ne dite?” proposi, alzandomi dal tavolo.
“Sìììì!” i bambini saltarono giù dalle sedie e mi precedettero di corsa in salotto, dove spodestarono senza troppi complimenti Robin, fino a qualche secondo prima comodamente adagiato sul divano.
Lui imprecò volgarmente, sotto lo sguardo di sufficienza del fratello maggiore. “Sedetevi per terra, bestie!” li rimproverò, assicurando fuori dalla loro portata il proprio videogioco.
Ignorai la sua scortesia, conscia che sarebbe stato estremamente controproducente rimproverarlo. Posai le custodie dei film sul tavolino e preso ‘Fievel’ dalle mani di Thom mi avvicinai al televisore.
“Cosa hai intenzione di fare?”
La voce irritata ed irritante di Johnny mi giunse alle orecchie come un ringhio sommesso. Cosa avevo fatto quella volta? “… Metto  su un film?”
Lui inarcò un sopracciglio, chiudendo il libro che stava leggendo, usando un dito per tenere il segno. “Sei un robot? Te lo metti in bocca e lo proietti dagli occhi?”
Sbuffai. “Johnny, qual è il problema?”
“Non abbiamo il lettore dvd” rispose Robin, che ora era inginocchiato davanti al tavolino. Scoprii con piacere che maneggiava con cura e malcelato interesse le custodie dei film. “purtroppo” aggiunse, poi, in un sospiro.
Sorrisi. Forse avrei davvero ottenuto la sua simpatia con … COSA?! “Non avete il lettore dvd!?” ripetei, sconvolta, puntando lo sguardo su Johnny. Ok, era sempre crudelmente ironico, ma pareva aver già capito che il modo migliore per ferire era la verità e non la menzogna, motivo per cui raramente mentiva.
“Ma ne hai mai visto uno in questa casa?” osservò con ovvietà.
Sbuffai. “Ma che vuol dire? Al giorno d’oggi stanno dentro ai televisori, mica si comprano separati! Come la tv satellitare!” replicai, allargando le braccia in segno di sconfitta. Bandiera bianca, avevo perso. Sperdutolandia finiva sempre per sconfiggermi.
Johnny ridacchiò, guardando Robin. “Ricorda di raccontarla a Dean, questa”.
E quelle parole saettarono nella mia mente come un filmina a ciel sereno. Cosa c’entrava Dean in quel discorso? Perché…
Ma bastarono pochi attimi perché la mia mente metabolizzasse quell’informazione e capisse l’evidente realtà. “Stai dicendo che voi, razza di canaglie, andate a raccontare a Dean tutte le carognate che mi rifilate?!” sbottai, portando le mani sui fianchi. “Come diavolo vi salta in mente?! Nessuno vi ha insegnato che…” …che cosa? Che non si raccontano le gaffes degli altri e non ci si ride su? A livello morale, forse, era sensato come ragionamento, ma a livello effettivo chi non aveva mai riso di una cretinata come quelle che io combinavo un giorno e sì e l’altro pure?
Johnny in tutta risposta scoppiò a ridere, spassionatamente imitato da Robin, troppo impegnato a leggere le trame dei film per poter rispondere.
Dal canto mio ero troppo irritata per poter notare ciò che lui stava facendo, quindi mi limitai a emettere un grugnito di frustrazione. “Canaglie” li apostrofai.
Beth saltò giù dal divano e si aggrappò all’orlo della mia maglietta. “Guardiamo il film?” chiese, supplichevole.
La guardai, senza sapere cosa rispondere. “Betty, non si può, non c’è l lettore dvd…”dissi.
Terry e Thom si guardarono, poi raggiunsero la sorella. Ero ufficialmente circondata da marmocchi. “Ma tu hai detto che lo guardiamo!” si lamentò Terry.
Johnny ghignò. “Ora voglio proprio vedere come te la cavi”.
“Non ci sono tanti modi in cui cavarsela, a dire il vero. Oggi non si può vedere, bambini. Sabato vi porto il mio computer e lo guardiamo con quello, ma og-“
“Oggi! Tu hai detto che lo guardiamo!”
“Non si dicono le bugie!”
“Tu sei cattiva!”
Prima che potessi concludere la frase le bambine si erano rituffate sul divano, lagnandosi rumorosamente con il volto sprofondato sui cuscini. Thom si lasciò cadere a terra accanto ai miei piedi, e iniziò a piangere. “Però tu avevi detto…”biascicò, mentre dei lacrimoni da coccodrillo iniziavano a correre giù dai suoi occhioni innocenti.
Aprii bocca per dire qualcosa, ma non ci riuscii. A quella vista mi si era stretto il cuore. Mi sentivo in colpa, terribilmente in colpa. Mi inginocchiai accanto al bambino e gli accarezzai il capo. “Dai, Thommy, non piangere… lo guardiamo sabato. Oggi non ce l’ho, non sapevo che non aveste il…”
“SEI CATTIVA!” strillarono le bambine, una dopo l’altra, per poi gettarsi a loro a volta a terra, stese e cominciare a singhiozzare platealmente.
Per quanto continuassero a intenerirmi, in quel modo, ormai avevo imparato a conoscere le bambine e la loro inclinazione a lagnarsi e a fare i capricci. Quello che in quel momento mi faceva stringere maggiormente il cuore e Thom, che solamente aveva l’aria di quello ottimista e pacifico, quello che non si arrabbiava mai e si limitava a ridere di tutto ciò che gli capitava. Già a quell’età sembrava prendere la vita con filosofia, e vederlo mentre singhiozzava silenziosamente seduto ai miei piedi mi stava distruggendo dentro.
La mia mente lavorava frenetica alla ricerca di una soluzione.
Mentre mi guardavo attorno in cerca dell’ispirazione incrociai lo sguardo scettico e vagamente divertito di Johnny. Sbuffai. “Senti, io capisco che tu mi detesti, ma … “
“Dean se la riderà della grossa quando gli racconteremo questo” sogghignò.
Strinsi i denti. “Piccolo stupido … hey! Dean!” mi illuminai. “Johnny, vai a raccontarglielo ora, così torni a casa con il mio portatile e vivremo tutti per sempre felice e contenti, con la cicatrice che non fa più male!” sputai, tutto d’un fiato, evidentemente sollevata. Ora che avevo trovato un modo per risolvere il problema della grande tragedia greca che era in scena in quel momento nella stanza, mi sentivo meglio. Meno sensi di colpa, sicuramente.
“Te lo scordi!”
E tanti saluti al mio piano geniale!
“Johnny!”sospirai.
“Non sono il tuo servo!”
Sbuffai, incrociando le braccia. “Questo lo so. Ti sto chiedendo un favore. Non posso lasciare i tuoi fratelli qui! Tu sei il più grande, puoi anche andare da solo!”
Lui si alzò, e in quel momento pensai seriamente che avrebbe accettato di aiutarmi. Lui però si limitò ad avvicinarsi al tavolino del salotto e a buttare a terra i dvd che Robin stava osservando. “Hey!”
“Hey, un cavolo! Pensi sia un caso che si sia presentata con questi cosi?! Sta cercando di incastrarci!” sbottò, togliendo di mano al fratello anche l’ultima custodia. “Sei un cretino, Rob!”
L’altro lo guardò da sotto in su e non rispose. Dopo aver scrutato per qualche secondo lo sguardo furioso del fratello, abbassò il capo.
Si sottometteva, cavolo! L’unico fratello minore al mondo che si lasciava sottomettere!
“Senti un po’, Sherlock, … incastrarvi? Pensi forse che io stia cercando di … di far cosa, di grazia?!” intervenni, nascondendo dietro l’incredulità quella piccola ferita che, comunque, quelle parole mi avevano scavato dentro.
Johnny mi lanciò un’ occhiata in tralice. “Vuoi che noi ti accettiamo. Ma noi non ti vogliamo, e lo sai. Non abbiamo bisogno di te, quindi levatelo dalla testa!”
“Ma cosa?” gemetti, esasperata.
“Non sarai mai una di noi!” gridò, per poi correre su per le scale, nella sua stanza.
L’uscita di scena del ragazzino ci lasciò in uno stato di silenziosa spossatezza. I bambini continuavano a singhiozzare, Robin si fissava le mani, seduto sul pavimento. Io ero in uno stato di trance. Mentalmente ero attiva, fisicamente molto meno. In piedi accanto a Thom, lo sguardo perso nel vuoto, mi chiedevo cos’avesse contro di me Johnny. Che si sentisse minacciato nel suo ruolo di ‘fratello maggiore’ e quindi di ‘più grande’ era strano, e sciocco, anche. Che semplicemente non mi volesse lì non aveva senso. Potevo stargli antipatica a pelle, ma perché mi detestava così tanto? Nemmeno mi conosceva. Per quale motivo si comportava in quel modo?
“E il fiiiilm?” si lagnò nuovamente una delle bambine.
Con un sospiro, mi riattivai e presi una decisione in mezzo secondo. “Ora sistemiamo anche questo. Allora, voi tre, correte in camera a vestirvi. Anche tu, Robin. Andiamo a cercare qualcuno che abbia voglia di aiutarci e, costi quel che costi, troveremo un lettore dvd”.

Venti minuti più tardi, dopo un’assurda sfaticata per riuscire a far cambiare i gemelli e cercare di convincere Johnny a fare lo stesso, ero fuori in strada, in marcia. Una marcia piuttosto lenta, considerate le continue lamentele dei bambini sulla mia andatura troppe spedita, le scarpe che facevano loro male e il fiato corto.  Povere anime.
Johnny si era categoricamente rifiutato si venire con noi in paese, quindi eravamo senza di lui. Forse non è carino da dire o pensare, ma fu una fortuna. Robin mi stava aiutando a recuperare periodicamente il gemello dei tre che, siccome non avevo abbastanza arti per tenerli tutti e tre per mano, decidere che essendo libero poteva correre dove diavolo gli pareva. Senza il suo aiuto probabilmente ne avrei persi almeno due lungo la strada.
Fui piacevolmente colpita nel vedere quanto Robin potesse fornire una buona compagnia, lontano dalle influenze del fratello maggiore. Era intelligente e pacato, ma tranquillo.
“Dove andiamo?” mi chiese rimettendo a terra Beth, che fino a poco prima teneva in braccio per evitare la fuga.
“Non so. Quel che ci serve è qualcuno che arrivi fino a casa di Abe e ci porti il mio portatile. Qualche idea?” domandai, stringendomi nelle spalle.
Robin ci pensò su mezzo secondo, poi annuì e indicò la porta del saloon. “Per queste cose c’è Terrence” disse con semplicità.
Quel nome evocò nella mia mente l’immagine del ragazzo bruno che il venerdì precedente era entrato nel saloon mentre ero al telefono, aveva fatto la sua bella figura da  perfetto idiota e poi se ne era andato lasciandomi con un palmo di naso. “Dici che è in grado di portare il computer senza distruggerlo?” mi lasciai sfuggire, evidentemente dubbiosa.
Il ragazzino diede un’alzata di spalle. “Non lo so, però quando papà ha bisogno di dire qualcosa a qualcuno che è lontano manda sempre lui”.
“Dev’essere un tipo affidabile, allora” osservai, un po’ scettica. Non tanto del metro di giudizio del signor Lucas, quanto dell’effettiva affidabilità di Terrence. Non aveva esattamente la faccia della persona sveglia, anche se forse ero l’ultima persona che poteva permettersi di giudicare questo punto.
Tuttavia quando entrando nel saloon lo trovammo in tempo a festeggiare una vittoria a carte contro un anziano signore improvvisando una bizzarra danza rituale indigena abbandonai ogni minimo senso di colpa per ciò che avevo pensato. E anche ogni speranza di riavere il mio computer sano e salvo.
“Pan, cosa ci fai tu qui?” Una voce burbera che ben conoscevo mi sottrasse al mio rassegnato stupore.
“Hey, nonno!” lo salutai allegramente. Solo in quel momento ricordai che il bar di Ginger e il luogo in cui passava la maggior parte del suo tempo. A giocare a burraco e poker con un gruppo di uomini all’incirca della sua età. “A dire il vero avrei bisogno di un favore e non sapevo a chi chiedere, poi Robin mi ha detto di chiedere di Terrence e quindi eccoci qua” ammisi, sottolineando però il fatto che l’idea fosse stata del ragazzino e non mia.
Abraham fece una smorfia e annuì, tornando alle sue carte, mentre il diretto interessato sentendosi tirato in causa interruppe la sua comica esibizione e si presentò a rapporto da bravo soldatino. Con tanto di saluto militare, che mio malgrado mi strappò un sorriso divertito. “Agli ordini signorina!”
Indugiai un attimo, chiedendomi se fosse la scelta giusta affidarmi a lui, poi mi dissi che ormai era troppo tardi per tirarsi indietro. O la va o la spacca! “Sì, ehm… mi chiedevo se potessi arrivare a casa di Abraham e portarmi il pc portatile alla fattoria dei Lucas. Credimi, non te lo chiederei se non fosse urgente” specificai. Anche perché vedere il mio adorato magazzino di musica, film e fotografie distrutto non è esattamente il primo punto nella lista delle mie priorità. E va bene che magari sono da riordinare, ma credo che in tal caso eliminerei l’opzione del tutto.
Lui annuì. “Devo andarci subito?”
“Be’…” stavo per dire di no, la sguardo implorante che mi rivolsero i bambini mi convinse a fare la cosa giusta. Anche se temevo avrei sofferto. “…il prima possibile”.
“Capito” disse. “Potrai pagarmi a consegna effettuata”.
“Certo. Anche perché ora non ho la borsa” … ero stata troppo occupata a non dimenticarmi nessun bambino per ricordarmene, “E se questo può facilitarti ti presto il mio ciao” rilanciai, Ricordavo bene quando per la prima volta l’avevo visto comparire alla finestra di casa Lucas, spompato. Pensai che se avesse avuto un mezzo di trasporto lo avrebbe utilizzato, anziché rischiare l’infarto ogni volta che gli veniva affidato un compito.
“Mi sarà utile, grazie: il mio scooter è senza benzina da almeno due mesi!” rise.
Come non detto. Era semplicemente troppo pigro per mettere la benzina nel motorino. Quindi correva come un cane esaltato avanti e indietro. Giustamente.
“Ah” commentai, interrogandomi sulla sua sanità mentale. Cercai di sorridere, ma non so quanto fossi convincente. “Ci vediamo più tardi, allora. Ciao a tutti! Forza ragazzi, dietro front!” conclusi, trascinando fuori l’allegra comitiva.
Ero piuttosto sconcertata. Mi chiesi quanto mi sarebbe costato procurarmi un nuovo portatile e se Emily avesse salvato tutte quelle foto che sarebbero sicuramente andate perse, presto. Quale ragazza al mondo avrebbe mai affidato il suo computer a quell’enorme sprovveduto apparentemente privo anche solo dell’ombra di un cervello?! IO! Io e basta!
“Sembra un po’ stupido” convenne Robin, intuendo la mia battaglia interiore, o forse semplicemente pensando la stessa cosa. “ma non lo è così tanto”.
Feci una smorfia. “Ah, quindi non è solo una mia impressione” commentai. “Ha mai distrutto niente?”
Robin ci pensò su, poi iniziò a sghignazzare. “No. No, aspetta, una volta sì: si è schiantato con lo scooter contro il muro della chiesa. Portava delle uova ed erano tutte sparse per la piazza, rotte! Solo che sua mamma era sul veterinario e ha visto la scena, è uscita e l’ha rincorso per tutto il paese! Voleva picchiarlo con un ombrello!”
Risi di gusto. E tanti saluti al mio primato quasi assicurato per il più teatrale incidente stradale in paese!

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