13 febbraio 2011

Cows and jeans 7

Non che mi aspettassi chissà che, ma uno comunque ci prova sempre a sperar bene. E invece anche quella volta Sperdutolandia mi aveva sorpresa. Se l’avesse fatto in bene o in male non mi presi la briga di chiedermelo.
Il paese era piccolo, un agglomerato di una ventina di abitazioni abbinate alle varie attività a conduzione familiare, più una chiesa. Nella piazzetta di fronte a questa, Abe parcheggiò il suo vecchio catorcio arrugginito. Scese e si incamminò, senza nemmeno preoccuparsi di chiudere la serratura.
Rimasi nuovamente basita alla vista della fiducia che quell’uomo aveva nei confronti della gente del luogo. Ricordavo che Kameron mi aveva assicurato che ci avrei fatto l’abitudine, ma mi veniva comunque la pelle d’oca alla vista di tanta sconsideratezza . Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio, no?
“Di qua” bofonchiò Abraham incamminandosi attraverso la piazza fino a quello che sembrava un vecchio saloon del far west, con la sola differenza che per entrare si doveva passare attraverso ad una banalissima porta di acciaio e vetro.
Aspettò che lo raggiungessi e mi precedette all’interno.
“Evviva la cavalleria, insomma” borbottai, prima di seguirlo dentro. Ero un po’ intimorita da quel luogo. Mi premurai di fissare con apprensione la porta, richiudendola delicatamente come se temessi potesse rompersi, mentre nella mia mente temevo di trovarmi un branco di uomini barbuti armati di pistole e forniti dei loro fedeli Stetson.
“Vieni” borbottò burbero Abraham, mentre salutava qualcuno e si avvicinava al bancone.
Preso un respiro profondo trotterellai al suo fianco, scoprendo con un’ ondata di sollievo che non c’erano cow boy e indiani lì dentro.
Il locale era un vero e proprio saloon, forse risaliva addirittura al far west, non me ne sarei stupita. Le uniche evidenti modifiche apportate nel tempo erano la grossa televisione sistemata su un ripiano massiccio e un telefono nascosto dietro un pannello di legno che separava la sala da quello che doveva essere il corridoio che portava alle toilette.
Un attimo. Un attimo, un attimo. Quello era davvero un telefono?
Mi sembrava un miraggio.
Ecco probabilmente ciò che sembravo in quel momento: un’assetata in mezzo al deserto di fronte ad una piscina di acqua potabile fresca e cristallina.
Sentii Abraham tossicchiare per attirare la mia attenzione, e subito dopo chiamare qualcuno a voce piuttosto alta. “Ginger!”
Cercai di ricompormi, ma inevitabilmente il mio sguardo tendeva a raggiungere di propria volontà l’apparecchio telefonico. Mi sentii una vera e propria idiota. Avevo sempre criticato quel tipo di ragazze drogate dal telefono, che messaggiano in continuazione e sentono la necessità di un cellulare più dell’ossigeno. Ed ora, per colpa di quel coso mi persi l’entrata in scena della persona che mio nonno aveva chiamato. Come da copione, mi voltai e trovandomi davanti una donna sobbalzai, terrorizzata.
Abraham sbuffò lanciandomi un’occhiata di rimprovero, mentre quella rideva. “Scusi” borbottai timidamente, nel più completo imbarazzo. Non era così brutta, insomma. Anzi, non era brutta proprio per niente. Mi ero spaventata per colpa della distrazione. Dean avrebbe sicuramente avanzato un bel po’ di commentini acidi da donna mestruata per l’occasione, ma avevo la fortuna che fosse a casa a sgobbare nell’orto, quindi decisi che potevo anche eliminare quella coltre di imbarazzo che mi stava annebbiando la mente.
Abbozzai un sorriso di scuse e aspettai che mio nonno dicesse qualcosa, mentre osservavo la donna. Era alta, i capelli color carota e un largo e dolce sorriso materno. Mi venne l’impulso di sorridere timidamente.
“Lei cerca un lavoro. Trovagliene uno” ordinò mio nonno, facendomi sgranare gli occhi per l’incredulità.
Mi voltai a guardarlo a bocca aperta, stupita da tanta maleducazione. “Per favore!” lo corressi, sdegnata. Non potevo credere che lui e i suoi modi da eremita potessero arrivare a tanto. Ma stava scherzando? Potevo capire che potesse trattare in quel modo me che ero sua nipote e dipendevo da lui, anche se mi sarebbe stato difficile da accettare un simile comportamento; ma con che coraggio si permetteva di parlare a quel modo ad una donna adulta?
Il vecchio ignorò le mie parole e andò a sedersi ad un tavolo con gruppo di altri uomini che lo salutarono.
Mi lanciò un’ occhiata senza un particolare significato e nascose poi il volto dietro ad un quotidiano.
La donna scoppiò a ridere, spensierata.
“Non preoccuparti, ci sono abituata. Tu devi essere la giovane Pan!” mi allungò una mano. “Io sono Ginger, lavoro qui con mio marito. Se hai bisogno di qualcosa, mi trovi sempre qua”.
“Piacere di conoscerla” le sorrisi timidamente, stringendole la mano.
Era abituata ad un simile trattamento? Come diavolo faceva ad accettarlo?!
“Non darmi del lei, mi fai sentire vecchia” ridacchiò. Lanciai una nuova occhiata truce a mio nonno, facendo ridere ancora la rossa. “Ti ci abituerai anche tu, vedrai.” la guardai, senza capire. “Ai modi di fare di quel vecchio brontolone” spiegò sorridendo come se provasse affetto nei suoi confronti. “ha un cuore d’oro, sotto sotto”.
“Lo spero” sospirai, sorridendole amichevolmente.
Mi stupii di esserci riuscita, in fondo il mio umore stava sprofondando per poi risalire di qualche gradino in continuazione: non pensavo di essere in grado di mascherare tutti questi alti e bassi dietro un sorriso. Anche se in fondo per me la cosa difficile non era tanto nascondere i sentimenti, quanto mostrarli.
Volevo crederci. Volevo sperare in un futuro di serenità per me in quel posto, con accanto una parte della mia famiglia. Volevo pensare che magari un giorno avrei potuto considerare mio nonno la mia famiglia, quella di cui sentivo il bisogno e che durante la mia adolescenza e la mia infanzia non mi aveva fornito esattamente il clima ideale per crescere come una persona sana di mente. Ma probabilmente non sarei cresciuta così nemmeno vivendo con Babbo Natale. A maggior ragione, in effetti.
“Abe dice che cerchi un lavoro, giusto? Vado a prendere la bacheca là fuori, così ci diamo un’ occhiata, che ne dici?”
La ringraziai e questa attraversò la sala per poi uscire dal locale. La guardai armeggiare con qualcosa appeso al muro accanto alla porta senza realmente vederla.
Sapeva il mio nome.
Questo pensiero attraversò la mia mente come un razzo, senza un motivo apparentemente preciso. Ma mi ricoprì nuovamente di dubbi. Come poteva quella donna che non avevo mai visto conoscere il mio nome se mio nonno sembrava non conoscerlo fino alla sera prima? Com’era possibile che le donne alla fermata del treno, l’uomo sul trattore, Agatha e Kameron sapessero del mio arrivo se non era stato Abraham a parlarne? Poteva essere stato Dean, in effetti. Ma doveva averlo pur sempre saputo da mio nonno.
Gli lanciai un’occhiata divertita e sorrisi tra me.
Per qualche strano motivo il giorno prima aveva solo finto di non sapere come mi chiamassi. Mi aveva ferito tremendamente quel gesto incomprensibile, ma sapere che era stato frutto di una finzione mi rincuorò terribilmente. Forse aveva finto anche quando aveva detto di non riconoscermi, questo però avrei potuto accettarlo grazie alla mia prima nuova certezza.
Ginger rientrò raggiante nel locale, reggendo tra le braccia un grosso pannello di legno spesso giusto un paio di centimetri. Feci per andare ad aiutarla, ma mi fermò con un sorriso.
Come si può fermare con un sorriso? Con un sorriso dolce, per di più? Non ne ho la minima idea. Ma per qualche motivo, il suo sorriso era in grado di rispecchiare esattamente ciò che voleva comunicarti, e non c’era possibilità di interpretarlo male.
Posò la bacheca sul bancone del bar, poi sospirò e si mise le mani sui fianchi. Si girò per sorridermi. “Sei venuta proprio nel periodo giusto, c’è tanto lavoro da fare qui in estate!”
Yuppie.
Alla mia pigrizia in quel momento venne un colpo, ne ero certa.
Cominciò a spulciare i vari foglietti colorati, scritti a mano con grafie differenti e più o meno frettolose. “Uh. Vediamo un po’... hai qualche esigenza particolare?”
Volevo stare il più lontano possibile dalle pecore in effetti. “No, niente di particolare.”
Lei annuì, continuando a sorridere. Non era un sorriso forzato, non ti passava nemmeno per la testa a vederlo. La sua genuinità era evidente quanto la chioma di boccolosi capelli color carota.
Molly Weasley!
Pan, seriamente, inizi ad essere un caso preoccupante.
“Ok, ho trovato. Che ne dici di questo?” Mi porse un A4 spiegazzato su cui era scritto a caratteri grandi, in rosso ‘Cerco disperatamente una baby sitter. Hayley’ .
Ero sorpresa nel non trovarvi alcun recapito telefonico, nè un cognome o un indirizzo. Ma evidentemente facevo male. Immaginai che non ci poteva essere tanta gente con quel nome in paese e nei dintorni, o comunque un omonimo non avrebbe avuto gli stessi bisogni.

Che stupida, come avevo fatto a non pensarci subito. 
Vita di paese. Tutti sanno tutto di tutti. Una tuttosità unica. Evviva. 
“Che te ne pare?”
“Si può fare” accettai, abbozzando un sorriso. Quanto poteva essere dura badare dei bambini? “Quanti anni hanno?”
“Dai il più piccolo cinque, il più grande tredici” mi sorrise. 
“Ottimo, non penso ci saranno problemi” commentai, un po’ incerta. Non avevo mai lavorato, però sapevo come badare dei bambini. Emily era piena di fratellini –ne aveva due- e esattamente la stessa età. Ogni domenica i suoi genitori andavano a giocare a golf, e Lily rimaneva a casa con loro. Non me lo facevo mai ripetere due volte quando mi invitava a darle una mano con loro –ovvero sempre. Mi piacevano i bambini. Erano il contrario di tutto ciò che odiavo negli adulti. Falsità, pignoleria (?), saccenza, egoismo. Ok, potevano essere capricciosi, ma i capricci di un bambino erano gestibili, quelli di un adulto ti fanno solo venire voglia di prenderlo a schiaffi e mandarlo all’asilo. Ironia della sorte. 
“Perfetto. Abe, abbiamo trovato un lavoro a tua nipote!” proclamò ad alta voce, voltandosi a sorridere al nonno.
Lui abbassò il giornale e lanciò ad entrambe un’ occhiata truce. “Deve usare il telefono” borbottò, per poi tornare a nascondersi dietro la carta stampata.
Non me ne ero dimenticata. No, sul serio non me ne ero dimenticata. Perchè avrei... Oh! Sì, me ne ero dimenticata, va bene? Mi era già passato di mente di dover telefonare a casa, nonostante ci avessi pensato meno di cinque minuti prima. Questa in fondo era la prova che non ero una telefono dipendente, no?
“Oh, giusto. Posso?” domandai, indicando col un cenno del capo l’apparecchio telefonico. 
“Certo, tesoro, è lì apposta”.
Oddio. Nemmeno mia madre mi chiamava tesoro.
Non che mi desse fastidio, semplicemente mi pareva strano sentirmi chiamare in quel modo da una persona appena conosciuta. 
Mi avvicinai al telefono e, sospirando di sollievo vedendo che c’erano i tasti e non la rotella, digitai le prime cifre che mi vennero in mente.
“Pronto?”
“Pensavi di esserti liberata di me? E invece no!” dissi, divertita.
“Pan!”
“Ciao, Lily” sorrisi, come una stupida al vuoto, mentre un sospiro di sollievo e una raffica di domande mi tenevano occupate le orecchie. Le tenevano occupate solo passivamente, intendiamoci. In realtà avevo solo udito la voce della mia migliore amica accostare parole l’una all’altra, ma non avevo ascoltato un’ h, come certamente lei sapeva. Infatti ad un tratto respirò a fondo e rise di sè. “Com’è stato il viaggio?” scelse di chiedermi, poi.
“Non male. Se non fosse che il treno si è fermato in mezzo al nulla”
“Un guasto?”
“No, fermata d’arrivo” sospirai, piano, sperando che nessuno mi sentisse. Ero certa che potesse sembrare scortese da parte mia insultare quel luogo, ma non potevo non dire a Emily dove mi avevano spedita.
“Oh” se ne uscì, per poi rimanere in silenzio.
Toccava a me, dovevo raccontarle. Tossicchiai e mi guardai attorno, timorosa che qualcuno sentisse i miei commenti e potesse offendersi. “Hai presente Heidi?”
“Sì... perchè?”
“Non è tanto differente. Mancano solo le montagne.” Mi guardai attorno, vergognandomi di quello che stavo per dire. “è pieno di pecore, qui, Lily!” squittii con una punta di supplica nella voce. Sembrava stessi implorando che mi portasse via da lì. Cosa che probabilmente non mi sarebbe dispiaciuta particolarmente, se non fosse che dopo tutti i buoni propositi di qualche ora prima avrei ferito gravemente il mio orgoglio scappando.
La sentii ridere. “E tuo nonno?”
In tutta risposta gemetti, facendola ridere di nuovo.
“Te lo dico un’altra volta, ora come ora direi delle brutture” ammisi, vagamente divertita. Era imbarazzante quella situazione. Temevo che qualcuno potesse sentirmi.
“Vedrai che imparerai a conoscerlo presto. Sei una persona socievole in fondo.”
Risi di cuore. “Già talmente in fondo che il mio pancreas sta ancora scavando in miniera per cercare il mio lato amichevole!”
Sentii la sua solita risata cristallina e mi venne da sorridere. La mia Emily. Come avrei fatto senza di lei?Senza il suo sostegno? Non ero una persona sdolcinata, ma era l’unica persona che non aveva mai tradito la mia fiducia e nemmeno le mie aspettative. Con questo non voglio dire che fosse perfetta o prevedibile, ma era in grado di dire e fare sempre la cosa giusta.
“Cosa hai intenzione di fare, ora?”
Sospirai, pensandoci su. “Sto cercando un lavoro.”
“Tu?” commentò, incredula.
Ridemmo di nuovo. “Spiritosa! Ovviamente non di mia volontà, comunque”
“Ci avrei scommesso! Senti Pan, ho paura a chiedertelo, ma...”
“Cosa?” sgranai gli occhi.
“Hai già chiamato i tuoi?”
Rimasi in silenzio per un po’. In effetti... “No.”
“Pan!”
“Mi ci hanno spedito loro qua!” sussurrai, stizzita nei loro confronti. 
“Sono i tuoi genitori!”
“Possono chiamare loro.” Replicai, acida, omettendo di proposito il fatto che a casa di Abraham non c’era un telefono.
“Pan...”
“Ah-ah” la interruppi. “Niente prediche. Mi mancano solo quelle per crollare e il manuale mi impedisce di crollare, lo sai.”
“Manuale made in Pan Fletcher!” esclamò divertita e sconsolata. “Quel coso ti distruggerà prima o poi. Come stai messa a crisi?
Tossicchiai, in imbarazzo. “No, ancora nessuna crisi. Non mi distruggerà proprio per niente. Devo tenermi su in qualche modo, Lily. Quella è l’unica soluzione per non sprofondare. Anche se poi periodicamente sto di merda”.
A questo mio inadeguato sproloquio, seguì un silenzio denso di sottintesi, che mi parve non comprendere solo il telefono ma anche il locale che mi circondava. Ci misi qualche istante per capire il perchè di questa reazione generale e quando feci due più due, analizzando ciò che avevo appena detto trasalii e arrossii violentemente. “Oddio! Sembrano i discorsi di una drogata!” pigolai a mezza voce. Desideravo con tutta me stessa sotterrarmi in quel momento. Sul serio, avrei voluto che il pavimento di legno si aprisse e mi inghiottisse. 
Ovviamente mai una volta che i miei desideri si avverassero!
Emily scoppiò a ridere, mentre il saloon si ripopolava di voci e rumori di routine. Sospirai, sconsolata. Ma a che livelli poteva arrivare la mia stupidità? Lo domandai a quella dolce decerebrata che continuava a ridere come una pazza, causando un’ ulteriore ondata di più travolgenti risa da parte sua.
Sospirai. In effetti la scena doveva essere stata piuttosto divertente. No, mi correggo: ironica. Comica addirittura. Ma divertente proprio no. Quanto poteva farmi divertire il pensiero che la gente di un paesino sperduto in cui ero appena arrivata, dove tutti apparentemente sapevano da dove venissi ma non perchè fossi stata spedita lì, mi credesse una tossicodipendente? 
Mi vennero i brividi al solo pensiero. 
La sorte si credeva una gran burlona, evidentemente. Ma scherzava in modo troppo pesante per i miei gusti.
“Hai finito?” bofonchiai, fingendomi offesa. “Da ora non lascerò mai più un soggetto sottinteso se questo dev’essere il risultato” assicurai, sia a lei che a me stessa. 
Ma come diavolo si poteva rischiare di giocarsi la possibilità di una vita tranquilla in un modo così stupido! Evidentemente avevo un talento innato.
Talento che avrei volentieri ceduto a chiunque altro, anche pagando pur di sbarazzarmene.
“Sai, la storia delle regole dev’essere una qualità di famiglia” la informai, cercando di bloccare le sue risate e attirare la sua attenzione. “Anche il nonno organizza la vita in base ad una caterva di regole. Oh, la sai l’ultima?” abbassai la voce per evitare che qualcuno potesse sentirmi. “Non abbiamo un telefono, nè un phon, non posso fare la doccia calda, devo svegliarmi alle cinque e se trasgredisco devo saltare un pasto.” Sussurrai con tanta di quell’ironia che sembrava stessi scherzando. Purtroppo però non era così.
Emily ridacchiò. “Mi prendi in giro”
“Magari”
“Oh. Quindi da dove mi stai chiamando?”
“Il saloon”
“oh.”
“Già”
“Wait a moment” realizzò qualche istante dopo. “c’è gente nel bar?”
Sospirai. Stava per ricominciare. “Sì”
Tossì una risata ma si sforzò di trattenersi, prima di pormi un’altra domanda. “Quindi tu hai fatto quello sproloquio da ‘sono una tossica, ma devo tenermi su e il fine giustifica i mezzi’ in un luogo pubblico? ”
“Stai girando il coltello nella piaga” il che equivaleva ad un sì.
“Stavi per mandare in fumo la tua reputazione” sottolineò prima di scoppiare a ridere sguaiatamente. 
Se fossi stata lì con lei le avrei lanciato qualcosa. Non lo dico per dire, lo avrei fatto seriamente. Che fosse un cuscino, una ciabatta o un pacco di fazzoletti. A volte si era beccata addosso il –solo- contenuto del mio bicchiere, qualunque liquido fosse. Era un modo per sfogare la rabbia, visto che non era d’accordo che mi tenessi tutto dentro. Un po’ anche una ripicca per la sua avversione nei confronti del mio Manuale di Sopravvivenza. Tuttavia non mi aveva e non mi avrebbe mai obbligata a far qualcosa contro la mia volontà. Ad eccezione dello studio, ma per quello dovevo solo ringraziarla. Se non fosse stato per lei avrei rifrequentato la stessa classe come minimo per gli ultimi tre interi anni, nei quali la mia esigua voglia di studiare era proprio colata a picco fino ad estinguersi completamente. Forse per via dei continui e più violenti litigi con i miei genitori e Joshua o forse per la decisione di mia madre di sposare George, avevo perso ogni minimo interesse per portare a casa buoni voti. A nessuno importava sentire il mio parere, perchè avrei dovuto far saper loro il parere che i professori avevano della mia preparazione? Per cui non mi limitai a smettere di comunicare i voti, ma se non ci fosse stata Emily avrei definitivamente smesso di studiare e mi sarei chiusa nel mio mondo carta, inchiostro e note musicali senza lasciare che nessuno venisse ad interferire con me. 
Ci sono delle persone che accusano persone con comportamenti simili di non vivere. A volte mi era stato fatto notare, in modi più o meno delicati, ma a me il problema non era mai passato per la testa. La vita passata a stretto contatto con l’arte non è buttata via, è sicuramente intensa. Emozioni differente, ma sempre emozioni sono. 
Ancora una volta mi ritrovavo a dover ringraziare la mi migliore amica, altrimenti la mia tendenza all’ asocialità e all’autoconvincimento mi avrebbe portato ad un totale isolamento e all’eliminazione di qualunque possibilità di farmi una vita vera. Insomma, tuttora continuo a credere che la vita vissuta a contatto con l’arte non sia sprecata, anzi. Tuttavia l’arte bisogna farla e non accoglierla. Mi spiego: non basta leggere un milione di libri per dire di vivere davvero. Se li avessi scritti, anzichè leggerli, tuttavia, avrei potuto sostenerlo con almeno una parte di ragione.
Questione di punti di vista.
Continuo tuttavia a pensare che se non fosse stato per Lily, la mia vita si sarebbe presto ridotta a un passivo guardare –senza vedere- e un udire –senza ascoltare.
 
Meno di un’ora dopo ero nell’auto di Abe che stava parcheggiando nel giardino di una delle case più vicine al paese. Si voltò a guardarmi, severo. “Sicura di saperlo fare?”
Grazie per l’appoggio. No sul serio, se continui così diventerò vanitosa.
“Abbastanza. Quanto può essere difficile badare dei bambini?”

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