15 maggio 2011

Cows and jeans 10

10
 
“Ti ringrazio infinitamente, Kameron!”
Era la ventesima volta che ripetevo quella frase, mentre il pick-up di quello che sembrava destinato a salvarmi ogni volta che mi attendeva una lunga a disastrosa camminata verso casa di Abe barcollava sulla strada piena di buche. Kameron entrò sorridente nell’aia di casa Fletcher e si fermò per farmi scendere. “Non preoccuparti, è un piacere”.
Gli sorrisi, veramente grata. “Prima o poi mi sdebiterò, te lo prometto”.
“Ma smettila! È così che funzionano le cose, qua. Non si chiede niente in cambio, perché si sa che prima o poi potrebbe capitare a tutti. Ti ci abituerai.”
Era la seconda volta che mi diceva che mi sarei abituata ai modi di fare di quel luogo, ma ogni volta ne ero sempre meno convinta. Certo, sarebbe stato fantastico se ognuno avesse aiutato il prossimo non aspettandosi nulla in cambio, ma dubitavo fosse realmente così. L’uomo era egoista per definizione, in fondo. Potevano esserci delle eccezioni, sì. Ma non più di qualcuna. “Speriamo. Grazie di nuovo!”
“Ancora?” rise. “Ci si vede in giro, ragazza di città!”
Non appena chiusi lo sportello Kameron fece manovra e uscì dallo spiazzo ghiaioso. Io corsi all’entrata e suonai il campanello, stanca a causa della lunga giornata appena trascorsa.
Non vedevo l’ora di mettere il pigiama e sprofondare sul materasso al piano di sopra. Me lo meritavo, in fondo. 
Fu proprio Abraham ad aprirmi la porta, accogliendomi con un caloroso saluto dei suoi. “Sei in ritardo.”
“Ma non mi dire?!” sbuffai, entrando.
Tolsi le scarpe senza nemmeno slacciarle e le lasciai sul tappeto nell’entrata, accanto a quelle di Dean e del nonno.
“Regola numero tre: ritarda a tavola e salti il pasto!” disse, scocciato, avviandosi a passi lenti verso il salotto.
Sentii la rabbia montare. Oltre il danno, la beffa. Se non fosse passato Kameron mi sarei dovuta fare tutta la strada a piedi, e a quell’ora non sarei stata nemmeno a metà percorso!
“Cosa ti aspettavi, scusa? Mi hai lasciato mezzora di tempo per coprire quindici chilometri a piedi!” dissi, irritata. Ero stanca, non avevo voglia di sentirmi fare la predica. Ne avevo già ricevuta una, e per di più dall’ ultima persona sulla faccia della terra da cui sarei mai riuscita ad accettarne alcuna.
Quella stupidissima ironia della sorte poteva anche smettere di fare la simpaticona, per quanto mi riguardava, anche perché non era per nulla divertente. Dopo una giornata come quella non sarei riuscita a portare pazienza più di tanto; porzione che, a quell’affermazione del nonno, avevo già consumato.
Dean, che dal piano di sopra se la rideva beatamente a voce decisamente troppo alta per non essere udito, mi stava irritando e dismisura. Ero stanca, decisamente, dannatamente, stanca. Non potevo continuare così. Le cose non potevano andare avanti così. Forse... forse mi avevano fatto il malocchio, ecco!
Ero stizzita. Parecchio.
Il nonno si era fermato e ora mi osservava di sottecchi, in silenzio, cosa che mi innervosiva ancora di più. Per quale assurdo motivo non diceva mai niente? Parlava solo quando doveva rimproverarmi, quello stupido vecchio!
“Benvenuta nel mondo degli adulti, dove ci si organizza e si fanno sacrifici per poter andare avanti” disse Dean, e ricominciò a ridere fragorosamente.
Come ho già detto ero stanca, i miei nervi erano in decomposizione già da qualche giorno e non avevo più un briciolo di pazienza a mia disposizione. E, sì, sto cercando di giustificare la mia tendenza all’isterismo di quella sera.
“Stai zitto!” sbottai.
“Senti un attimo,...” ma il nonno non riuscì nemmeno a concludere la frase che ero già scattata come un molla.
“Lasciami stare, ok?” Alzai la voce senza nemmeno rendermene conto. Poi continuai, senza riuscirmi più a controllare. “Ne ho già sentite abbastanza per oggi, non voglio sentire una parola di più. Sono stufa! Sono stufa di tutto, sono stufa di questo posto! Non me ne va una giusta e non c’è nessuno che faccia qualcosa per aiutarmi! Che cosa pretendete da me?! Come cavolo pensate che possa fare tutto da sola?! Ho diciotto anni, ho preso la patente un mese fa, diavolo! Come posso cavarmela da sola quando non mi ha mai insegnato niente nessuno, secondo voi? Quei dannati bambini mi detestano, non ho tempo per dormire, non so come cavolo comportarmi e non ho nemmeno idea di che diavolo sia una motoretta!!!” la mia voce era acuta. Alta, e acuta. Una combinazione vincente per far soffrire gli innocenti timpani di qualunque essere vivente dotato di un udito.
Non so se vi sia mai capitato di lasciarvi sopraffare dalle emozioni. La rabbia mi pulsava nel cervello e nonostante sapessi che non aveva senso, dovevo –volevo- far capire loro quanto stessi male. Coscientemente o meno, stavo sputando fuori tutto quello che rimuginavo da giorni ma avevo preferito tenere per me. Una vocina, troppo flebile per poter essere udita chiaramente tra le grida della rabbia, mi intimava a smettere e andare a dormire.
“Rilassati e abbassa la voce, sembri un’ isterica”. Il commento giunse per primo, e Dean lo seguì a ruota, scendendo le scale mentre si sfregava con un asciugamano i capelli bagnati. Sembrava l’incarnazione del relax, in quel momento, con l’aria assonnata di quando ci si è appena goduti una doccia rilassante, e i pantaloni del pigiama già indosso.
Questo mi fece saltare i nervi del tutto.
“ISTERICA?!” strillai. “Che cavolo vuoi saperne, tu?! Insensibile menefreghista che non sei altro!”
“Hey, ma che vuoi da me? Non sono io che ti ho fatto venire qui?”
Tremavo, a quel punto. Come una foglia nel bel mezzo di una bufera. Mi mancava poco, davvero poco per crollare. Un soffio. Abbassai il capo, stringendo i pugni. “Secondo te sono venuta qui di mia spontanea volontà?!”
“Bè, nessuno ti obbliga a rimanere. Pensi forse che qualcuno rincorrerebbe il treno piangendo disperato, se te ne andassi, principessa? Faresti un favore a tutti tornandotene da dove sei venuta!”
Socchiusi gli occhi, incassando il colpo, e mi morsi il labbro inferiore, ferita. Farfugliai qualcosa di imprecisato, conscia di essere sul punto di piangere. Era dannatamente ingiusto. E tremendamente vero.
“Hai detto qualcosa?” mi schernì nuovamente, Dean.
Strinsi i denti, poi sbuffai, arrendendomi al fatto che le lacrime avessero già iniziato il loro maledetto percorso lungo le mie guance. “Sei solo un grandissimo stronzo” conclusi, voltando la testa dall’altra parte, per non farmi vedere in faccia.
Abraham si schiarì la voce, poi sospirò. “Sembrate due bambini. Non vi vergognate?”
Lo guardai, spiazzata dalle parole più inutili che potessero uscire dalla sua bocca. Un singhiozzo mi scosse le spalle. Cosa mi aspettavo? Che mi difendesse, forse? No, non in quel mondo. Non in quella casa. “Ma vaffanculo” sbottai, rivolta a quello stronzo di Dean, a quel vecchio pazzo che aveva generato mio padre, a quelle stupide lacrime, a quei bambini indemoniati, ai miei genitori, a George e mio fratello, ma soprattutto a me stessa.
Uscii di casa, sbattendo forte la porta, senza scarpe.
Scesi i gradini di corsa, senza sapere esattamente perché né dove la mia rabbia avesse intenzione di portarmi. Sentendo gli irregolari sassi dell’aia attraverso il sottile tessuto dei calzini, marciai lungo la strada sterrata che portava in paese, singhiozzando come una bambina. Ed era ciò che mi sentivo, in fondo. Una bambina smarritasi al parco, dove tutti ridevano e giocavano felici, incuranti del suo dolore o anche semplicemente della sua presenza. Una bambina che sapeva di essere fuori posto, sapeva di essere sola. Che aveva paura e voleva tornare a casa, al sicuro. Con la differenza che io non avevo intenzione di tornarci, a casa. Non sapevo nemmeno dove fosse la mia. Non dove abitavano i miei genitori, sicuramente. E forse nemmeno dove mi avevano spedita senza riguardi.
Continuai il mio insensato cammino finché non fece buio, senza sapere dove stessi andando. Non mi interessava. Non mi importava di nulla. Se inizialmente la mia testa era sovraffollata di pensieri furibondi, quando avevo iniziato ad arrancare nel buio della sera estiva si era svuotata completamente. Ma continuavo a piangere, sfogando tutto il nervosismo accumulato non solo negli ultimi giorni a Sperdutolandia, ma anche nelle settimane trascorse in città dopo che mi era stato comunicato che me ne sarei dovuta andare. Continuavo a singhiozzare, lasciando che le lacrime bagnassero le guance, il collo, la maglietta sporca di pasta e fagioli. Lacrima dopo lacrime, però, non mi sentivo meglio. Era ancora troppo presto. Il percorso, non tanto quello a piedi quando quello di sfogo, era solo all’inizio. C’era tanto da sfogare: la consapevolezza di aver deluso mio padre, le lacrime di Emily, le risate di mio fratello, i ‘te l’avevo detto’ di George, la freddezza del nonno, le taglienti frasi di Dean, i tiri mancini dei ragazzini di Hayley, le ramanzine, l’umiliazione dell’aver pianto davanti a qualcuno. Questo e molto altri, compreso il dolore causato dagli irregolari ciottoli su cui aveva a lungo camminato, scalza.
Era ormai scesa la notte vera e propria, avevo superato diverse case, alcune con le finestre illuminate e fatto abbaiare alcuni cani che mi sentivano passare, chiudi nei loro recinti, quando mi fermai e invertii la rotta. Cominciai a tornare sui miei passi, esausta ma ancora scossa dai singhiozzi, col freddo che iniziava a farsi pungente.
Non so quanto tempo impiegai e non ricordo nemmeno cosa avesse frullato nella mia testa per tutta quella notte. Ricordo solo che quando varcai il cancello perennemente aperto e entrai nell’aia della fattoria, le luci della casa erano già tutte spente e l’unica cosa che mi permetteva di intravedere da che parte stessi andando era la luna, che, incurante di tutto, se ne stava in cielo, di profilo, a farsi i fatti suoi.
In silenzio, ma senza smettere di dare sfogo alle mie ghiandole lacrimali, andai ad accoccolarmi sulla panca di legno tarlato sotto il portico, accanto alla porta. Seduta, le gambe strette al petto, posai la testa sulle ginocchia e chiusi gli occhi, esausta, senza dar tregua a quella continua pioggia di emozioni represse.

La mattina dopo mi svegliai sulla sedia a dondolo dall’altra parte del porticato, nascosta al mondo di fuori da una coperta di lana. Non sapevo come ci fossi finita e non ero sicura di volerlo sapere. Cacciati via tutti i rancori e i dispiaceri accumulati nelle ultime settimane, mi pareva di non aver nulla a cui pensare. Mi sentivo più leggera. E tanto, anche.
Quella mattina rientrai in casa e filai nel bagno di servizio al primo piano, per sciacquarmi la faccia impastata di lacrime e polvere. Avevo i piedi distrutti dopo la folle camminata, quindi passai una buona mezzora a lavarli e medicarli. Sgattaiolai in camera che Dean ancora dormiva e rimasi lì a ripensare alla scenata della sera precedente, vergognandomene terribilmente. Pensai di andare al lavoro in anticipo, senza così incontrare nessuno, ma mi sembrava una stupida e inutile dimostrazione di viltà, quindi pensai di bene di far finta di nulla e comportarmi come una persona civile.
La colazione, quella mattina, fu più la più imbarazzante che riesca a ricordare. Non ero l’unica a sentirmi a disagio, probabilmente, poiché anche Abe pareva un pesce fuor d’acqua. Se solitamente si parlava poco, in quella casa, quella mattina il silenzio fu tale che sembrava quasi di essere in un televisore a cui qualcuno aveva tolto l’audio dal telecomando.
Quando la macchina di Abraham frenò davanti a casa di Hayley, addirittura mi sorpresi a sentirmi sollevata. Ovviamente la giornata lavorativa non fu migliore delle precedenti. Oserei dire che fu identica se non per il fatto che nessuno si affacciò alla finestra all’ora di pranzo per recapitarmi messaggi e al momento di tornare a casa non rimasi a piedi.
Il viaggio di ritorno con il nonno non fu nemmeno lontanamente paragonabile a quello della mattina. Entrambi sembravamo esserci distratti durante il giorno, e aver deciso di far finta che la sera prima non fosse successo nulla. Dal canto mio, me lo auguravo. Ancora mi vergognavo di aver strillato a quel modo e di aver pianto come bambina, non volevo nemmeno pensarci. Forse il nonno la pensava come me, perché persino lui aveva abbandonato il solito impaccio e sembrava più rilassato. Mi ritrovai a raccontargli di quanto fosse complicato aver a che fare con quei cinque marmocchi. Non erano ancora confidenze, no. Si trattava solo di qualche chiacchiera scambiata per cortesia, ma era comunque un notevole passo avanti rispetto ai freddi e impacciati tentativi di conversazione dei giorni precedenti. “Sì, sono pestiferi” asserì Abraham, annuendo, senza distogliere lo sguardo dalla strada sterrata. “Se non ce la fai, con loro, puoi sempre cambiare lavoro”.
“No. È una questione di principio, ormai” ammisi, sincera. Non li avrei abbandonati tanto facilmente, non tanto perché mi fossi affezionata o che altro. Soprattutto per una questione di orgoglio.
Quella sera, Abraham, prima di rientrare in casa, mi chiese di seguirlo nel capanno dove parcheggiava la macchina ogni sera. Non ci ero mai entrata: nei pochi giorni trascorsi lì, il nonno mi aveva sempre fatto salire e scendere nell’aia. Nonostante la stanchezza, ero vagamente affascinata anche dalla rimessa. Tra vecchi attrezzi polverosi, fiaschi vuoti, bacinelle e bottiglie di diserbante, secchi di vernice e chissà quante altre cose nascoste alla vista, Abe mi guidò in un angolo dove accanto ad un paio di ruote di bicicletta, se ne stava appoggiato al muro vecchio ciao arrugginito e un po’ malandato. “La motoretta” mi rivelò, abbozzando un sorriso. Mi avvicinai, affascinata, per osservarlo da vicino. “è della Piaggio. Era rosso, un tempo. Tuo padre ce l’aveva sempre attaccato al ...” si schiarì la voce, guardando altrove, imbarazzato. “Sì, insomma, era sempre in giro con quello”.
Risi, serena. “Sai, culo non è considerata una parolaccia, al giorno d’oggi” gli comunicai, divertita.
Il nonno ridacchiò, e si sedette sul cofano della macchina, goffo. “Be’, ai miei tempi non si usavano certi termini davanti alle donne.” Spiegò.
“Ad ogni modo, ...se vuoi è tua. Tanto non la usa nessuno, e suppongo che per tuo padre non sia un problema, visto che l’ha scaricata qua dentro e non si è mai degnato di venirla a prendere” bofonchiò la seconda parte della frase amaramente, poi continuò, notando la mia espressione evidentemente divertita. “Così potrai spostarti autonomamente. Finché Hayley non ti paga, ti presterò io i soldi per la benzina”.
Rimasi in silenzio per un po’, piacevolmente sorpresa. Poi, in tutta spontaneità, mi rivolsi al vecchio, riconoscente: “Grazie, nonno” sorrisi.
Quella fu la prima volta che lo chiamai in quel modo, da quando mi ero trasferita a casa sua. Solitamente tendevo a rivolgermi a lui dandogli del ‘tu’, senza usare alcun particolare appellativo. Non sapevo se Abraham avesse notato questo particolare nella mia frase, quella sera, ma per me era qualcosa di importante. Avevo sempre fatto una particolare attenzione a come chiamare le persone. Per fare un esempio significativo, da quando i miei si erano separati, mia madre per non era mai più stata ‘mamma’, se non quando avvertivo il particolare bisogno di sentirla vicina. Ed era invece un segno di affetto che continuassi a chiamare mio padre ‘papà’. George non si era mai sentito rivolgere quel nome da me, e mai sarebbe accaduto. Non so dirvi se, col tempo, Abe abbia mai notato che quando sono arrabbiata mi rivolgo a lui appellandolo per nome, mentre quando ritengo importante dimostrargli il mio affetto, la mia riconoscenza o qualunque altro sentimento positivo uso ‘nonno’. Fatto sta, che per me questa distinzione era molto significativa.
A partire dalla mattina seguente, quindi non ebbi più bisogno di passaggi da parte di Abe. Quando avviai per la prima volta il motore del vecchio ciao di mio padre, sentii un forte moto di orgoglio invadermi il petto. In parte, sicuramente, per la consapevolezza che quel mezzo di trasporto era -appunto- appartenuto a papà; sia perché era un simbolo dell’affetto che probabilmente Abe provava nei miei confronti, ma soprattutto perché con quello avrei dimostrato di non dover dipendere totalmente dagli altri. Avrei dimostrato di non essere un’ incapace principessa a quel polemico di Dean.
Passarono i giorni.
Con la mia nuova –relativamente- motoretta, i nervi più saldi, una riacquisita determinazione a dimostrare a Sperdutolandia quanto valessi, trascorsi un paio di settimane in modo tanto simile a quei primi giorni, quanto diverso. Le giornate a casa di Hayley rimanevano difficili e esasperanti, ma riuscivo ad affrontarle grazie alla consapevolezza che prima o poi sarei riuscita a cambiare le cose e che –comunque- qualche ora dopo sarei tornata alla fattoria di Abe, dove quantomeno nessuno mi avrebbe lanciato addosso il cibo. Ogni sera, prima di rincasare, montavo in sella al ciao e andavo in paese a telefonare ai miei genitori. Tendenzialmente preferivo parlare con mio padre, ma due volte a settimana facevo, anziché il suo, il numero di mia madre. Discutevamo, nonostante la distanza. Continuava a rimproverarmi per il mio comportamento durante la nostra prima conversazione, ma imparai presto quanto fosse semplice allontanare l’attenzione dalle sue ramanzine e concentrarla sui discorsi dei clienti del bar di Ginger. Lì, dopo aver riagganciato la cornetta, regolarmente incontravo per caso Kameron Towell con cui mi fermavo a fare due chiacchiere prima di montare in sella al mio piccolo, scrostato e arrugginito bolide e prendere la strada del ritorno. Qualche volta avevo incontrato anche Agatha, la ragazza che al mio arrivo mi aveva scortata assieme al ragazzo fino alla fattoria di Abe. La sorella di Dean. Era un tipo piuttosto schivo: nonostante Kameron le si rivolgesse con familiarità e confidenza, lei rimaneva sempre rigidamente distaccata e gli riservava a stento qualche battuta -che spesso rasentava l’offensivo. Proprio come suo fratello, in effetti, tendeva a non rivolgermi la parola più dello stretto indispensabile, limitandosi ad ascoltare ciò di cui parlavo con gli altri e facendo di tanto in tanto qualche smorfia o qualche commento.
Avevo scoperto, che il metodo più semplice per comunicare con le persone lontane dal paese, senza urgenza, era la posta. Proprio per questo motivo, ogni sera prima di andare a dormire, esausta, mi sedevo alla scrivania e scrivevo qualche annotazione sulla giornata appena trascorso su un quaderno che avevo comprato in una bottega di Sperdutolandia, il giorno stesso in cui mi era venuta la grande illuminazione di scrivere un diario. Prima che possiate stupirvi o darmi della cretina, ci tengo a specificare le mie intenzioni. Sarebbe stato costoso e complicato spedire una lettera al giorno ad Emily, la quale si sarebbe trovata la cassetta della posta piena di buste provenienti da un paesino che non aveva mai sentito nominare. Per quanto potesse essere efficiente il servizio postale, era praticamente impossibile potersi tenere in contatto regolarmente ogni giorno senza che le consegne delle lettere si accavallassero e confondessero i nostri –già caotici- dialoghi. Per questo, avevo deciso di tenere un diario. Un diario in cui, sera dopo sera, scrivevo ad Emily tutto ciò che di interessante accadeva, più i miei pensieri, gli sfoghi e tutto ciò che le avrei raccontato di persona. Una volta riempita l’ultima pagina di un quaderno, gliel’avrei spedita, e lei avrebbe fatto lo stesso. Devo ammetterlo, era un’ idea troppo astuta per poter essere farina del mio sacco. Di fatti, era stata proprio Emily a suggerirmi quella soluzione, quando una domenica pomeriggio, dopo la Messa, ne avevo approfittato per telefonarle.
Raccontato in questo modo, sembra quasi che la sera della mia crisi di nervi, tutto fosse stato rose e fiori. A dirla tutta, quasi niente era andato particolarmente bene. Le mie giornate lavorative continuavano ad essere frustranti e un paio di volte, la motoretta aveva dato forfait e mi era toccato pedalare lungo quell’odiosa strada accidentata –l’unica esistente, in effetti.
Sarebbe curioso raccontarvi la mia reazione quando il primo venerdì mi ero svegliata come sempre all’alca, avevo guidato fino a casa di Hayley, per poi scoprire che quel giorno, in paese, nessuno lavorava. Lo chiamavano ‘ il giorno del recupero ’, giornata che la gente sfruttava per mettersi in pari con i lavori domestici, passare del tempo in famiglia, pulire e rifornire i negozi, e chissà quante altre cose. Nessuno me l’aveva detto, ovviamente. Al mio ritorno, Dean mi aveva riso in faccia. Ma so che non è se mi fossi messa a sbraitare -oppure avessi estratto una buona dose di autoironia e mi fossi unita alle risate- che vi state chiedendo, o sbaglio? La domanda a cui volete una risposta è: e con Dean?
Bene, non è che le cose fossero cambiate più di tanto. Anche dopo esserci insultati a vicenda, le uniche parole che ci rivolgevamo erano cariche di sarcasmo e ironia. Eravamo una sorta di epica coppia di 'bisticciatori'  folli.
Un po’ come Harry Potter e Draco Malfoy.

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