06 luglio 2011

Cows and jeans 11




 
Le bestiole gridavano. Bestiole era un sottogruppo dei mostruosi figlioletti di Hayley. Immaginatevi un grande insieme con dentro cinque indemoniati ragazzini dall'età compresa fra i sei e i tredici anni. Poi racchiudete il più grande nell'insieme J, il capo branco. Robin, nel secondo, R, il braccio destro. Inserite entrambi in un più grande cerchio che chiameremo D, come Demoni. Poi recintiamo i tre marmocchi rimasti nell'insieme B, le bestiole, ovvero i piccoli esserini influenzabili. E in quanto tali, corruttibili da quei demoni dei fratelli maggiori, ma anche coinvolgibili da me in giochi più tranquilli e costruttivi dello strillare continuamente.
"Ok, cantiamo una canzone, eh?" trillai, battendo le mani con entusiasmo, nel tentativo di sovrastare gli schiamazzi dei bambini. Non sapevo se fosse vero o falso, ma comunque ero sollevata all'idea che Robin e Johnny se ne stressero buoni buoni sul divano, uno a leggere e l'altro con un videogioco tra le mani. Per una volta, forse, sarei riuscita a fare la baby-sitter -cosa per cui ero pagata- anzichè l'esorcista. "Nella vecchia fattoria..."
Robin voltò la testa dalla mia parte. "Vecchia? La nostra fattoria non è vecchia."
Sbuffai e ricominciai da capo. Non avevano tutti i torti. In città nessuno si preoccupava di quel particolare, nessuno aveva una fattoria, in effetti. "Nella nostra fattoria, ja-ja-ooh, quante ..."
"Nostra?" Johnny scattò in ginocchio sul divano e mi guardò male. "Nostra di chi? Hai una fattoria, tu? Noi ne abbiamo una, non tu."
A quel punto avrei potuto tranquillamente intonare "Nella vostra fattoria", ma capii che quei due demonietti -probabilmente imparentati con Pixie- non mi avrebbero lasciato cantare alcuna canzone, impedendomi così di plagiare i loro fratellini. Senza contare che "nella vostra fattoria quante bestie ha zio Tobia" non avrebbe avuto alcun senso. Loro non avevano uno zio con quel nome, il che sarebbe stato spunto per un altro irritante rimprovero.
Non mi sarei lasciata fregare così, però. Sarebbe bastato ignorarli e coinvolgere in qualche gioco i piccoli prima che iniziassero a trovare divertenti le mie espressioni frustrate alle continue interruzioni degli altri due.
Non risposi, quindi, ma sorrisi nuovamente ai bambini. "Allora, qual'è il vostro cartone preferito?"
"I Gormiti!" esclamarono in coro. Da dove venivo io era praticamente impossibile che due bambine si accontentassero di guardare cartoni animati per maschietti. Ma evidentemente, crescendo tra i fratelli, Terry e Beth non potevano non essersi adattate. Tuttavia, non conoscevo il cartone e sarebbe stato complicato inventarsi la sigla. I bambini odiavano chi sbagliava le sigle dei loro cartoni preferiti. O almeno io non lo avevo mai sopportato.
"Mai visto" ammisi. "Conoscete qualche altro cartone? Manny Tuttofare?"
"Quello è per bambini" si indignò Thom, incrociando le braccia.
"Noi siamo grandi!"
Trattenni una risata, erano tremendamente buffi. Annuii, fingendomi convinta. "Avete ragione. Phineas e Ferb?"
La risata di Johnny trasudava scherno, ma decisi di ignorarla. Non mi sarei fatta prendere in giro da un ragazzino.
I bambini annuirono.
“Bene, quale canzone vi piace?”
E così, come se nulla fosse, ricominciarono a strillare. Questa volta, almeno, non era senza motivo: apparentemente si stavano litigando la canzone più bella. Cantandone stralci a squarciagola e intimandosi il silenzio a vicenda, con grida disumane.
“Ok, ok, ok!” iniziai ad agitare le braccia, per attirare la loro canzone. “Scelgo io, perchè sono la più grande”.
Le bambine si imbronciarono. “Non fate quelle facce, crescerete anche voi” aggiunsi, frettolosa. Non fosse mai che le avessi offese! Ci mancava solo quello.
“Allora, fatemi pensare” presi tempo, mentre Johnny tornava al suo libro, scuotendo il capo. Mi trattenni dal fargli una linguaccia non tanto per la mia maturità, quanto per la consapevolezza di quanto le bestioline amassero fare la spia per cacciare nei guai gli altri.
Tornai con la mente al cartone animato, pensando ad una delle canzoni. Erano frequenti, anzi ce n' era una ogni episodio, più la sigla. Ma ovviamente non le sapevo tutte a memoria. Avevo solo un vago ricordo di...
“Bau chica bau bau
ecco l' amore mio,
mau mau mau
il mio cuore batte
cicchi cicchi ciuai
non si ferma mai
gitchi gitchi goo
manchi solo tu!”

“Ciao, Hayley!”
Quando la donna tornò a casa, quella sera, la accolsi con un sorriso. “Ciao, Pan, cara. Com’è andata oggi? Ti hanno fatto impazzire?”
Sospirai. Sarebbe stato bello poter dire ‘no, assolutamente, oggi ci siamo divertiti’ ma sarebbe stata un’ immensa sciocchezza.
Certo, ero riuscita a tenerli buoni per quasi tutta la mattina. Ma questo solo perchè Johnny e Robin avevano deciso di farsi gli affari loro ed ero riuscita a coinvolgere i bambini in qualcosa di meno fastidioso degli strilli immotivati. I due fratelli più grandi si erano anche scompisciati dal ridere vedendomi cantare le sigle imitando i personaggi di tutti i cartoni animati che mi venivano in mente. Ma all’ora ti pranzo si era tornati a giocare con le posate-catapulta e al pomeriggio a dispetti, grida, insulti, oggetti lanciati e fughe improvvise. Sì, perchè Johnny aveva trovato divertente insegnare un nuovo gioco ai fratelli: chi esce di casa e scappa più lontano prima che Pan lo becchi, vince. Persino loro si erano accorti di quanto potessi effettivamente essere svampita –per usare un eufemismo-, spesso.
“Al solito. Hai bisogno di qualcos’altro o posso andare?”
“No, vai pure, ora ci sono io”.
Sorrisi, grata. “Grazie. A sabato, allora!”
“A sabato!” mi salutò.
Mi avviai, ma non feci in tempo a mettere in moto l’incespicante motoretta, che mi venne un’ idea e tornai a bussare alla porta di Hayley.
Fu Johnny ad aprire, e dopo avermi visto e sbuffato, mi sbattè la porta in faccia. “Hey!” protestai, indignata. Bussai nuovamente alla porta, sentendo solo i bambini ridere e la madre che dalla cucina chiedeva cosa stesse succedendo.
Io ero svampita, sì, ma quella donna lo era quasi più di me.
Con un sospiro, girai attorno alla casa e bussai alla finestra che i ragazzini dovevano aver chiuso proprio per tenermi lontana.
La donna dai cespugliosi capelli castani corse ad aprire i vetri, sorridente. “Pan! Hai bisogno?”
Forse in quella casa era regolamentare parlare con le persone attraverso le finestre, anzichè lasciarle entrare in casa dalla porta d’ingresso. Kameron mi avrebbe detto qualcosa tipo ‘ti ci abituerai, tranquilla’, se avesse sentito quel pensiero. Continuavo a credere che, no, non mi sarei mai abituata alle abitudini di Sperdutolandia.
Cacciai il pensiero e sorrisi alla donna. “Sì, veramente. Volevo chiederti se per caso i ragazzi hanno qualche interesse particolare. Giusto per inventarmi qualcosa per passare il tempo”.
E tenerli a bada senza rischiare che mi sbranino viva.
“Bè, che io sappia...”
“Sì?” la incalzai. Era troppo bello per essere vero. Forse stavo per trovare la musica di Fufi! Ehm, cioè, il tallone d’Achille dei demonietti.
Sorrise. “Che io sappia, Johnny ama le lingue e Robin gli indiani, i cow boy, eccetera. Thom e le bambine... a dire il vero loro si adattano a tutto. Basta che i fratelli dicano qualcosa e loro obbediscono. Peccato non facciano così anche con me!” ridacchiò, imbarazzata.
Nemmeno con me erano obbedienti, a dire il vero. Ma non lo sottolineai.
La ringraziai e me ne tornai alla motoretta, pensando a come sfruttare quelle informazioni a mio vantaggio. Il maggiore amava le lingue, il medio il far west. Che ci fosse bisogno di chiamarlo ‘far west’ in un posto come quello era il colmo. Praticamente era il ‘contemporaneo west’, anche se a ovest di cosa esattamente non lo avrei saputo dire.
Persa nei miei pensieri mi ritrovai in paese, con un vuoto nella memoria riguardante tutte le –monotone-  azioni svolte durante il tragitto. Ritornai al pianeta terra solo quando misi a dura prova i freni di quel vecchio trabiccolo inchiodando per non investire in pieno Kameron. Non so grazie a quale divinità, spirito, demone o grande Mago del passato, questi non fecero cilecca, evitando così un bell’ incidente nel paese. Ipotetico scontro che avrebbe sicuramente fatto scalpore tra le trenta, quaranta persone che vi abitavano: mai niente di così pericoloso poteva essere accaduto lungo quelle stradine al groviera.

“Cavolo! Scusami, Kam!”
Lui rise, tranquillo. “Fortuna che il vecchio Abe ha controllato i freni!” commentò, grattandosi il capo.
Una figura dalla alta coda di cavallo color paglia fece una smorfia. “Sfortuna, vorrai dire.”
“Ciao, Agatha” salutai, smontando dalla sella e mettendo la quasi arma del delitto sul cavalletto. Effettivamente dubito che lo avrei ucciso investendolo con quella sottospecie di bicicletta malandata, ma non sarebbe stata comunque una bella esperienza. Non per me almeno. Sono sicura che Joshua al posto mio si sarebbe divertito un mondo a raccontare a tutti di aver investito un ragazzo, specie se ne erano entrambi usciti indenni. Probabilmente anche Kameron ci avrebbe riso su, sembrava essere in grado di ridere su ogni cosa, quel tipo. Sarebbero stati una bella coppia di amici, lui e mio fratello.
“Ciao, Pan” la bionda abbozzò un sorriso. “Stavi per guadagnarti tutta la mia simpatia”.
“Mi dispiace, non sono brava a bowling. La prossima volta cercherò di travolgere i birilli” risposi, con un’alzata di spalle e molta più nonchalance di quanto non ne avessi. Quella ragazza mi metteva leggermente in soggezione, così severa e versata in ogni genere di battuta tagliente.
Sorrise, divertita, senza però scomporsi. “Domani hai da fare?”
Mi accigliai, spaesata. “Come?”
Accennò una smorfia, stringendo le labbra sottili. “Domani. È venerdì. Hai da fare?”
La guardai, sorpresa. Mi stava chiedendo di passare del tempo insieme? E dire che avevo l’impressione di starle altamente sulle scatole. Alla nuova assenza di una risposta da parte mia, evidentemente, pensò che fossi così stupida da non aver capito la domanda, perchè fece per aprir bocca e dir qualcosa, ma Kameron la precedette. “Io e Aggie volevamo fare un giro. Ti unisci a noi?”
La bionda inarcò un sopracciglio, affondò le mani nelle tasche e ruotò appena il busto verso il ragazzo. “Ti correggo: tu vuoi fare un giro. Io devo portare della roba a Dean e ho la sfortuna che mio padre riponga la sua fiducia in un gorilla come te” fece una smorfia contrariata. “Non ho ancora l’età per guidare”.
Stavo per obiettare che in ogni caso dubitavo qualcuno potesse fermarla e farle una multa, in quel posto, ma preferii rimangiarmi quel pensiero. “Autista personale, eh?” ironizzai, sorridendole. “No, non ho da fare. Vi farò compagnia se non vi dispiace” risposi, allegra. Effettivamente avevo trascorso tutti i venerdì passati con gli auricolari nelle orecchie scrivendo sul diario per Emily e rassettando la casa. Perchè, sì, sebbene ci vivessero (solo e ben !) altre due persone –e da molto più tempo di me-, se avessi lasciato far tutto a loro, avrei potuto letteralmente nuotare tra polvere e panni sporchi in meno di due settimane.

 
Quando la mattina seguente mi alzai e scesi a far colazione, Abraham mi invitò a seguirlo nel porcile, per farmi conoscere i porci. Sicuramente non era stato il primo dei miei pensieri, quando avevo ipotizzato qualche bel momento nonno-nipote, ma ovviamente non era il caso di protestare. In quel posto avevano un modo di vedere le cose estremamente diverso da quello dei cittadini –veri e propri- e anche dai miei. Così lo seguii nel porcile, dove c’era Dean, intento a nutrirli. Lanciava loro parte dei rifiuti organici che venivano prodotti in casa, cucinando. Gli stessi scarti che spesso divenivano cibo anche per gli amati polli di Abe. Com’era possibile che tre sole persone producessero tanta immondizia? Non ne avevo idea.
Ad ogni modo, tra i grugniti allegri dei maiali, il biondissimo antipatico mi salutò con un “Buongiorno, principessa!” talmente carico di sarcasmo che non fu possibile alla mia mente bacata fare alcun collegamento con l’allegro e affettuoso saluto di Benigni nel film La Vita è Bella. Non che ce ne fosse motivo, ad ogni modo.
Abraham si appoggiò con gli avambracci al cancelletto di legno che teneva gli animali chiusi dentro, accanto a Dean. Io, lievemente a disagio –l’odore non era dei migliori, e l’idea di avvicinarmi tanto a quegli affari non mi allettava particolarmente-, rimasi in piedi al suo fianco, dall’altro lato rispetto al ragazzo, ma ad una debita distanza dal legno che ci separava. Mi alzai in punta dei piedi, sbilanciandomi lievemente in avanti per vedere gli animali al di là del cancelletto, incerta.
“Principessa, mi dispiace che a corte tu non abbia mai visto un maiale, ma dubito che questi possano essere interessati a te. Non lo sarebbero normalmente, adesso che stan mangiando ancor meno”.
Gli lanciai un’ occhiataccia, trattenendomi dall’ insultarlo. “Oh, giovine porcilaio, mi duole venire a conoscenza del vostro mancato incontro con la grazia di Sorella Intelligenza, ma ormai il messere che la accompagnava se ne è dipartito. Se vi aggrada, potete  sollevare i vostri regali tacchi, abbandonare codesto luogo e...” ...andartene a quel paese! “tentare di raggiungerlo”.
Avevo paura, sì. Insomma, non ne avevo mai visti dal vero. Non c’erano porcili dietro ogni angolo, da dove venivo io. Non ero abituata a bestie così grandi. Ok, le mucche che tanto adoravo lo erano molto di più, ma era un cosa diversa. Avevo bei ricordi legati a loro, e mi erano sempre piaciute, fin da piccola. Avevano un non so che di dolce, inoltre. Quei maiali, invece... sembravano fin troppo irrequieti e rumorosi mentre col grugno si scansavano la testa a vicenda avidamente per ingurgitare più cibo possibile.
Ok, non so dire perchè, ma ero piuttosto intimorita da quei bestioni.
Dean mi lanciò un’ occhiata di sottecchi, senza nemmeno smettere di lanciare rifiuti ai maiali. “Uno pari, principessa” commentò, sarcastico.
“Sai, Dean, se fossi meno arrogante potremmo anche andare d’accordo” me ne uscii. E in parte era vero, non solo una battuta. Pensavo veramente che se quel tipo avesse messo da parte un po’ del suo immotivato astio nei miei confronti saremmo potuti anche diventare amici. Certo era, però, che non avrei mai fatto io il primo passo. Non potevo farlo. Mi trattava male.
Occhio per occhio, dente per dente.
“Sai, Pan, se fossi meno principessina potremmo andare d’accordo. Ah, no, aspetta: non credo proprio” rise.
Strinsi i denti, irritata. Evidentemente non sapeva come fosse una ‘principessina’, altrimenti non avrebbe detto niente di simile. L’avrei volentieri spedito da dove venivo io, ad aver a che fare con le mie compagne di classe. Al ritorno mi avrebbe chiesto scusa in ginocchio.
“Ma davvero, come sei simpatico” sbuffai, spostando lo sguardo sui maiali pur di non guardarlo. “Come si chiamano, Abe?” chiesi, per cambiare argomento. In fondo era per farmi conoscere i rosei suini che mi aveva condotta lì, no?
“Oh” Abraham si schiarì la voce e raddrizzò le spalle. Allungò un braccio e mi indicò gli animali. “Quello grosso è Bartholomew, la scrofa si chiama Penelope”.
“Wow” commentai, senza sarcasmo. “Date agli animali nomi di persone?” mi uscì detto, senza averci pensato. Effettivamente non c’era nulla di male, ma da dove venivo io...
Dean rise, sprezzante. “A corte gli animali si chiamano Micio, Pallina e Briciola, giusto? Penso che anche un maiale si sentirebbe umiliato da una schifezza simile”.
Effettivamente sì. “Hai ragione. Solo, stavo pensando... Abe, secondo me a quella povera bestia si adatta di più il nome Dean, sai?”
Abraham sospirò, mentre il ragazzo partiva nuovamente all’attacco. “Poco male: del maiale non si butta via niente”.
“Sì, proprio per questo dovremmo chiamarlo Dean. Magari con l’associazione ad un animale utile compensi un po’ la tua pessima personalità”.
“Ha parlato la piccola e dolce principessa!”
“Oh, smettila, così mi fai arrossire!” sputai.
“Così forse somiglierai meno alla staccionata del cortile”.
“Questa non ha senso”.
“Oh, sì che ce l’ha! Ma non è colpa mia se sei lenta, oltre che pallida e piatta come una tavola!”
Trattenni il fiato e arrossii, indignata. A parte il fatto che non era vero, come si permetteva! “Sei un dannato cafone!” strillai, sembrando molto probabilmente –se non sicuramente- un’ isterica.
Vidi mio nonno piuttosto esasperato, mentre uscivo di corsa dal capanno, riempiendo Dean di epiteti poco carini ma mai scurrili –mio fratello era l’unico a cui riservavo quelli appartenenti a tale categoria.
Dean se la rideva, mentre mi indignavo sempre di più, insulto dopo insulto.
“C’è accesa una radio?” bofonchiò una voce femminile, subito seguita da una risata fragorosa che avevo imparato a riconoscere.
Coi pugni stretti e le braccia a mezz’aria, a metà di un’ esibizione gesticolata di ‘se anche i Troll avessero un cervello tu rimarresti meno intelligente ed educato di loro!’, mi bloccai e posai lo sguardo su due nuovi venuto che non avevo ancora notato, sebbene dessero l’impressione di essere lì, appoggiati al pick up, da un bel po’.
“No, Aggie, ho acceso solo la principessina degli gnomi”.
Lanciai un’ occhiata in tralice a Dean, e arrossii per l’imbarazzo. Quanto poteva una persona, che, gesticolando, urlava frasi completamente senza senso per qualunque persone normale e con pochissimo anche per i Potteriani, risultare ridicola? Non ero un asso in matematica –non ero un asso in niente, a dirla tutta-, ma anche senza prendere una calcolatrice supponevo che la risposta sarebbe stata gravemente dolorosa per il mio bistrattato orgoglio.
“Ah, meno male” ridacchiò.
Ma come ‘meno male’?!
Gli si avvicinò, una sportina piena di quelli che sembravano vestiti in mano. “Tieni” bofonchiò, con una smorfia. “Sia chiaro che non sono il tuo postino”.
“Come no?” rise lui. “Kam, amico, non si saluta?”
Avrei voluto obiettare che effettivamente lui era il primo ad avere una certa consuetudine a non salutare, ma appena volsi lo sguardo verso i due biondi qualcosa nel mio cervello fece contatto causando un momentaneo corto circuito. Erano praticamente identici. Stessi capelli, sebbene quelli dell’uno fossero spettinati mentre quelli dell’altra stretti nella solita alta coda di cavallo. Anche i lineamenti erano praticamente identici, eccezion fatta per la totale assenza di lentiggini sullo strafottente volto di Dean. A pensarci meglio, persino il loro catattere era molto simile.
La cosa mi lasciò basita, mentre il mio cervello cercava di spiegarsi tali somiglianze.
Kameron nel frattempo rise della frasi di Dean. “Ciao, fratello” salutò, allegro come sempre. “Ciao, Pan”.
Fratello. Aaahh! Nel mio cervello si palesò la realtà, che tra l’altro sapevo già.Sono fratelli! Pensando ciò, alzai un dito e misi su un’ espressione sorpresa –modello Archimede Pitagorico-, che diede vita la stessa espressione di sufficienza sopra i simili volti dei fratelli McDonnel.
“Ciao, Kameron” risposi, abbozzando un sorriso.
“La principessa degli gnomi è rimasta scandalizzata dall’incontro coi maiali” buttò lì, Dean, irrisorio.
Ripresi tutta l’indignazione di poco prima, momentaneamente messa da parte per lasciare spazio alla riflessione sul perchè Agatha e Dean si somigliassero tanto. “Non è vero niente!” nonappena lo dissi, mi sentii tanto infantile, ma feci finta di nulla.
“Ma se eri sul punto di fuggire!”
“Non è vero! Stavo solo a debita distanza.”
“Ti fanno paura” rincarò.
Avrei potuto continuare a far ciò che mi diceva l’orgoglio, ovvero negare spudoratamente come una bambina testarda, ma invece sorrisi, sfacciata. “Sì. Allora?”
Ero convinta di averlo messo nel sacco, ma lui diede un’alzata di spalle. “L’ allora dovresti spiegarmelo tu. Eri tu a non volerlo ammettere”.
Aveva vinto lui. Di nuovo.
Chiusi gli occhi e respirai a fondo. “Sei irritante” soffiai, infine, cercando di calmarmi. Avevo dato abbastanza spettacolo, per quel giorno.
“Lo so. Senti, porta in casa questa roba, ok?” disse, restituendo la sportina alla sorella. Poi si rivolse all’ altro ragazzo. “Kam, vieni, ho un’ idea.”  Lo chiamò, afferrando una tanica di benziina e dirigendosi nel capanno, seguito fedelmente da un allegro Kameron.
Dopo un verso di frustrazione nei confronti del biondo, accompagnai Agatha in casa e la scortai nella stanza di suo fratello, dove si limitò a lanciare sul letto ciò che gli aveva portato.

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