Il mio suggerimento di inseguire la carrozza di Madama Intelligenza era stato bellamente ignorato da Dean, a quanto pareva.
Arrivammo alla fattoria Towell nel giro di pochi minuti. Come ormai avrei dovuto imparare, passandoci davanti ogni mattina sulla mia sgangherata motoretta, questa era proprio lungo la strada che separava la casa del nonno dal paese. Nel complesso la casa era leggermente più piccola, ma molto simile a quella di Abraham. Eccezion fatta per la vernice di pareti, persiane, ringhiere e staccionate. Se da noi era rovinata, scolorita ed erosa dal tempo, l’abitazione dei Towell riluceva di sgargianti tinte appena passate –o almeno così pareva.
Agatha rideva mentre il pick-up incespicava per le stradine sterrate. Rideva perchè la sottoscritta veniva comicamente sbalzata a destra e a sinistra ad ogni tre per due con in volto l’espressione corrucciata e imbarazzata di Ron Weasley alla sua prima lezione di Volo ad Hogwarts (*). E lei rideva di me, come Kameron nell’abitacolo, che sembrava divertirsi come un matto centrando tutte le buche che trovava, sotto il sadico consiglio di Dean. Tralasciando l’industriale quantità di frustrazione mixata alla piccola di dose di sana autoironia –mediocremente palesata dal tirato sorriso che mi stavo costringendo a stamparmi in volto- cercavo di imitare l’annoiata naturalezza con cui Aggie se ne stava tranquillamente seduta in un angolo, le braccia adagiate sulle pareti del cassone, appena scossa dai continui scrolloni causati dalle buche e dalle pessime sospensioni del trabiccolo. Nel frattempo, una parte di me –chissà quale e quanto importante, ma a pensarci bene chi se ne frega- malediceva la testardaggine del biondo accomodato sul sedile del passeggero. Aveva insistito tanto, come uno stupido bambinetto, per salire davanti con il suo amichetto del cuore. Ma accidenti a lui e alla sua stupida tendenza a farmi saltare i nervi! Al suo stupido nuovo hobby, per meglio dire.
“Tutto a posto?” domandò Agatha, divertita.
Le lanciai un’ occhiata. “Mi sento un uovo sbattuto, ma sì” ammisi, sconsolata. La figura della cretina già l’avevo fatta tante volte. Una più o una meno, ormai non faceva differenza. Avevo inoltre deciso che non mi importava particolarmente dell’idea che lei si era fatta di me. Insomma, era solo una ragazza come le altre, nonostante sembrasse così matura e giudiziosa. Giudiziosa e versata nei giudizi, in effetti. Ok, era una persona che già allora ammiravo, nonostante la sorta di riverenziale timore che riusciva ad incutermi. Ma io ero io, con i miei pregi e i miei difetti. Sarebbe stato da idioti fingersi un’altra persona, magari matura e seria, per accaparrarsi la simpatia di qualcuno. Sarebbe stato come mentire, forse anche peggio.
“Dove stiamo andando, precisamente?” domandai, mentre mi esibivo nell’ennesima smorfia frustrata.
Aggie sorrise. “A casa di Kameron. Preparati, penso che mio fratello stia per giocarti un tiro mancino”.
Lanciai un’ occhiataccia all’abitacolo e alzai le braccia per poi farle ricadere in un gesto di rassegnazione. Questo ovviamente, proprio nel momento in cui il pick-up prendeva una buca più profonda delle altre, facendomi finire letteralmente gambe all’aria nel cassone. Agatha se la rideva della grossa, mentre mi rialzavo e mi massaggiavo la testa nel punto in cui avevo picchiato contro le pareti di lamiera.
Sbuffai sonoramente, strizzando gli occhi. Senza rendermene conto iniziai a imprecare a bassa voce, augurando a non so chi precisamente di incontrare un branco di Acromantule a digiuno da almeno due secoli. “Tutto a posto?” domandò Agatha, divertita.
Le lanciai un’ occhiata. “Mi sento un uovo sbattuto, ma sì” ammisi, sconsolata. La figura della cretina già l’avevo fatta tante volte. Una più o una meno, ormai non faceva differenza. Avevo inoltre deciso che non mi importava particolarmente dell’idea che lei si era fatta di me. Insomma, era solo una ragazza come le altre, nonostante sembrasse così matura e giudiziosa. Giudiziosa e versata nei giudizi, in effetti. Ok, era una persona che già allora ammiravo, nonostante la sorta di riverenziale timore che riusciva ad incutermi. Ma io ero io, con i miei pregi e i miei difetti. Sarebbe stato da idioti fingersi un’altra persona, magari matura e seria, per accaparrarsi la simpatia di qualcuno. Sarebbe stato come mentire, forse anche peggio.
“Dove stiamo andando, precisamente?” domandai, mentre mi esibivo nell’ennesima smorfia frustrata.
Aggie sorrise. “A casa di Kameron. Preparati, penso che mio fratello stia per giocarti un tiro mancino”.
Lanciai un’ occhiataccia all’abitacolo e alzai le braccia per poi farle ricadere in un gesto di rassegnazione. Questo ovviamente, proprio nel momento in cui il pick-up prendeva una buca più profonda delle altre, facendomi finire letteralmente gambe all’aria nel cassone. Agatha se la rideva della grossa, mentre mi rialzavo e mi massaggiavo la testa nel punto in cui avevo picchiato contro le pareti di lamiera.
Nemmeno feci caso all’espressione sconcertata ma divertita che si era allargata sul volto severo di Agatha, non feci caso nemmeno alla risata che seguì la mia ennesima e colorita imprecazione, troppo impegnata a chiedermi cosa avessi fatto di male per meritarmi tutta quella stupidità. Mia e di chi mi circondava.
Arrivammo alla fattoria Towell nel giro di pochi minuti. Come ormai avrei dovuto imparare, passandoci davanti ogni mattina sulla mia sgangherata motoretta, questa era proprio lungo la strada che separava la casa del nonno dal paese. Nel complesso la casa era leggermente più piccola, ma molto simile a quella di Abraham. Eccezion fatta per la vernice di pareti, persiane, ringhiere e staccionate. Se da noi era rovinata, scolorita ed erosa dal tempo, l’abitazione dei Towell riluceva di sgargianti tinte appena passate –o almeno così pareva.
Dean e Kameron scesero dalla vettura ridendo, spensierati. Come due ragazzi normali, si sarebbe detto. Peccato che uno e mezzo su due fosse un idiota patentato.
“Preparati al peggio, principessa” mi avvisò Dean, mentre cercavo di imitare Agatha, la quale era balzata giù dal cassone con disinvoltura. Mi bastò mezzo secondo, tuttavia, per capire che non ero abbastanza agile per farlo, quindi rotolai goffamente fino a mettere i piedi per terra. Lanciai un’occhiataccia a Dean, combattuta tra l’idea di mandarlo a quel paese o ignorarlo. Avrei volentieri optato per la seconda scelta, ma fu più forte di me fargli una smorfia e ribattere: “Vivo già con te. Cosa può accadermi di peggio?”
Lui fece una smorfia. “Sei sempre più simpatica, vedo” commentò, disinteressato, per poi lanciare un’ occhiata d’intesa a Kameron che annuì. Sorridente, il moro si incamminò attraverso l’aia, in cui razzolavano beate alcune galline. “Venite da questa parte” intimò, girando attorno alla casa.
Passando accanto ai pennuti starnazzanti, non potei trattenere una leggera smorfia. Non che non mi piacessero le galline, le trovavo carine, in effetti. In realtà, la mia espressione era dovuta al dubbio: cosa avevano in mente quei due? Sentendo ridere il mio amato coinquilino mi agitai ancora di più.
Fu quando però mi trovai di fronte alla stalla che capii quale fosse il geniale piano di Dean. E, diciamocelo, di geniale aveva ben poco. Quel pallone gonfiato pensava che avessi paura degli animali. Sbuffai. Davvero maturo da parte sua. “Non avrai delle pecore, mi auguro” bofonchiai, tra me e me. Ovviamente però Dean mi usì benissimo. Sogghignò. “Che hanno di male, principessa? Non sono all’altezza di produrre lana per i tuoi regali abiti?”
Lanciai un’ occhiata esasperata a sua sorella, che rideva sotto i baffi, poi incrociai le braccia. “Semplicemente non mi piacciono” dargli corda e rispondergli a tono non sembrava il miglior modo per affrontarlo, a giudicare dalle esperienze avute fino a quel momento.
“Come mai, di grazia?”
Lo guardai di sottecchi. Capivo che si divertisse a darmi fastidio, ma ora cosa pretendeva che gli rispondessi? Stavo ancora pensando a cosa rispondere, quando Kameron si esibì un inchino e invitò me e Agatha a precederlo nella stalla.
Ciò che vidi mi lasciò impalata in mezzo al passaggio con gli occhi sgranati. “Oh santo cielo” pigolai, convincendomi ad avanzare lentamente guardandomi attorni come un bambino in un negozio di giocattoli. Chiuse a coppie in vari box ci saranno state una decina di meravigliose mucche da latte. Mi portai una mano alla bocca, meravigliata. Con tutte le cose che avevo avuto ultimamente per la testa, gli animali erano stati il mio ultimo pensiero. Tuttavia la mia assurda passione si era completamente risvegliata in quel momento. Vi sembrerà assurdo, ma mi sentivo veramente al settimo cielo. Il mio cuore aveva persino accellerato i battiti. Sorrisi timidamente. Allungai l’altra mano verso l’animale più vicino, poi mi rivolsi a Kameron. “Posso?” chiesi, incerta. Dubitavo che, nonostante la mia immensa sfortuna, potessi beccarmi un morso da una mucca, ma mi sembrò educato chiedere.“Preparati al peggio, principessa” mi avvisò Dean, mentre cercavo di imitare Agatha, la quale era balzata giù dal cassone con disinvoltura. Mi bastò mezzo secondo, tuttavia, per capire che non ero abbastanza agile per farlo, quindi rotolai goffamente fino a mettere i piedi per terra. Lanciai un’occhiataccia a Dean, combattuta tra l’idea di mandarlo a quel paese o ignorarlo. Avrei volentieri optato per la seconda scelta, ma fu più forte di me fargli una smorfia e ribattere: “Vivo già con te. Cosa può accadermi di peggio?”
Lui fece una smorfia. “Sei sempre più simpatica, vedo” commentò, disinteressato, per poi lanciare un’ occhiata d’intesa a Kameron che annuì. Sorridente, il moro si incamminò attraverso l’aia, in cui razzolavano beate alcune galline. “Venite da questa parte” intimò, girando attorno alla casa.
Passando accanto ai pennuti starnazzanti, non potei trattenere una leggera smorfia. Non che non mi piacessero le galline, le trovavo carine, in effetti. In realtà, la mia espressione era dovuta al dubbio: cosa avevano in mente quei due? Sentendo ridere il mio amato coinquilino mi agitai ancora di più.
Fu quando però mi trovai di fronte alla stalla che capii quale fosse il geniale piano di Dean. E, diciamocelo, di geniale aveva ben poco. Quel pallone gonfiato pensava che avessi paura degli animali. Sbuffai. Davvero maturo da parte sua. “Non avrai delle pecore, mi auguro” bofonchiai, tra me e me. Ovviamente però Dean mi usì benissimo. Sogghignò. “Che hanno di male, principessa? Non sono all’altezza di produrre lana per i tuoi regali abiti?”
Lanciai un’ occhiata esasperata a sua sorella, che rideva sotto i baffi, poi incrociai le braccia. “Semplicemente non mi piacciono” dargli corda e rispondergli a tono non sembrava il miglior modo per affrontarlo, a giudicare dalle esperienze avute fino a quel momento.
“Come mai, di grazia?”
Lo guardai di sottecchi. Capivo che si divertisse a darmi fastidio, ma ora cosa pretendeva che gli rispondessi? Stavo ancora pensando a cosa rispondere, quando Kameron si esibì un inchino e invitò me e Agatha a precederlo nella stalla.
Kameron rise, spensierato. “Certo, non ti fa niente!” mi incoraggiò, lanciando un’ occhiata divertita a Dean.
Ero così contenta che riuscii persino ad evitare di rispondere con sarcasmo a quell’affermazione ovvia.
Mentre mi giravo nuovamente verso la bestia, scorsi con la coda dell’occhio l’espressione sorpresa e scontenta di Dean, non troppo abilmente nascosta dietro la solita indifferenza. Questo mi riempì di soddisfazione più di qualcunque altra cosa. Eccezion fatta per il poter finalmente accarezzare il grosso muso di quell’adorabile animale dopo tanto tempo. “Come si chiama?”
“Agatha” ghignò Kameron, soddisfatto.
La biondina si voltò come una furia verso di lui, aggredendolo con uno sguardo scandalizzato. “Come, scusa?!”
Il ragazzo rise, sotto lo sguardo sornione del biondo. “Che c’è? Ho dato il tuo nome alla vacca”.
Mi indignai, contemporaneamente alla crescita della furia di Aggie. “Hey!” lo rimproverai. “Non essere offensivo con Agatha!” E, sì, ovviamente mi riferivo alla mucca che era appena stata chiamata ‘vacca’, termine che, se in campagna era di uso comune, in città era considerato notevolmente dispregiativo.
La ragazza rivolse un’occhiataccia anche a me e non potei fare a meno di ridacchiare. “Ok, scusa” alzai le mani in segno di resa. “Come non detto, io sono dalla tua parte!” misi in chiaro, tornando subito a concentrarmi sul muso roseo dell’animale.
Agatha tornò quindi a concentrarsi sui due ragazzi, in particolare sul fratello. “E tu non hai nulla da dire?!” lo aggredì, agitando i pugni.
Mi morsi il labbro inferiore per non ridere, mentre Dean non si prese nemmeno il disturbo di trattenersi. “Ma che centro io? Se il tuo nome ricorda a Kam una vacca, è così e basta!”
La bionda contrasse la mascella e continuò la sua sfuriata verso Kameron. “Sei uno stupido troglodita!” sbottò. “Come ti è saltato in mente? Ah, dimenticavo che bisognerebbe averla, una mente, perchè ci possa saltare qualcosa dentro!”Ero così contenta che riuscii persino ad evitare di rispondere con sarcasmo a quell’affermazione ovvia.
Mentre mi giravo nuovamente verso la bestia, scorsi con la coda dell’occhio l’espressione sorpresa e scontenta di Dean, non troppo abilmente nascosta dietro la solita indifferenza. Questo mi riempì di soddisfazione più di qualcunque altra cosa. Eccezion fatta per il poter finalmente accarezzare il grosso muso di quell’adorabile animale dopo tanto tempo. “Come si chiama?”
“Agatha” ghignò Kameron, soddisfatto.
La biondina si voltò come una furia verso di lui, aggredendolo con uno sguardo scandalizzato. “Come, scusa?!”
Il ragazzo rise, sotto lo sguardo sornione del biondo. “Che c’è? Ho dato il tuo nome alla vacca”.
Mi indignai, contemporaneamente alla crescita della furia di Aggie. “Hey!” lo rimproverai. “Non essere offensivo con Agatha!” E, sì, ovviamente mi riferivo alla mucca che era appena stata chiamata ‘vacca’, termine che, se in campagna era di uso comune, in città era considerato notevolmente dispregiativo.
La ragazza rivolse un’occhiataccia anche a me e non potei fare a meno di ridacchiare. “Ok, scusa” alzai le mani in segno di resa. “Come non detto, io sono dalla tua parte!” misi in chiaro, tornando subito a concentrarmi sul muso roseo dell’animale.
Agatha tornò quindi a concentrarsi sui due ragazzi, in particolare sul fratello. “E tu non hai nulla da dire?!” lo aggredì, agitando i pugni.
Mi morsi il labbro inferiore per non ridere, mentre Dean non si prese nemmeno il disturbo di trattenersi. “Ma che centro io? Se il tuo nome ricorda a Kam una vacca, è così e basta!”
“Hey, hey, hey, calmati!” rise lui, sereno.
“SONO CALMISSIMA!” strillò, ma prima che qualcuno potesse obiettare iniziò ad imprecare furiosamente, apostrofando con una serie di epiteti poco carini il povero Kameron, che dal canto suo non faceva che ridersela lanciando occhiate divertite a me o a Dean. Per quanto mi riguardava non potevo credere che qualcuno potesse prendersela tanto per una cosa del genere, ma avevo il dubbio che Agatha si arrabbiasse per ogni cosa che riguardasse Kameron. Sorrisi tra me, mentre continuavo ad importunare la mucca il cui nome aveva causato tutto quel putiferio, ascoltando ciò che mi accadeva intorno. Allo stesso tempo, però, una parte della mia contorta mente era tornata a molti –anche se non poi così tanti- anni prima. Avevo un vago ricordo della nonna che mi prendeva per mano e mi aiutava ad avvicinarmi ad un grosso animale a chiazze bianche e marroni, per poterlo accarezzare. ‘Non c’è bisogno di avere paura, Pan. Le mucche sono animali docili’ mi aveva detto. A quel punto mi ero accigliata, ribattendo innocentemente ‘pensavo che fossero buoni, nonna. Non voglio che mi morda!’. Sorrisi al ricordo, nostalgica e divertita. Era tutto così semplice e naturale, allora. Era tutto semplice e naturale in quel posto, in realtà. Il problema di base ero io, con la mia incapacità di integrarmi in un qualunque luogo del mondo.Era tanto che non mi capitava di tornare a casa con il sorriso sulle labbra. Anzi, era la prima volta da quando mi ero trasferita a casa di Abraham. Tuttavia, quella mattinata trascorsa con Kameron e Agatha era stata piuttosto divertente. Per qualche momento avevo anche dimenticato di averli conosciuti solo poche settimane prima. Kameron era una persona così limpida e amichevole, che era impossibile considerarlo uno sconosciuto, o solo un conoscente. Era lampante che fosse una persona diversa dalle altre, una persona che mi aveva considerata sua amica fin dal primo momento. Non era semplice trovare persone che concedessero così facilmente la loro fiducia al prossimo.
Agatha invece rimaneva pur sempre la fredda e sarcastica ragazza che tanto somigliava caratterialmente al fratello maggiore. Aveva tuttavia un modo di porsi migliore di quello di Dean. Nonostante fosse tagliente nei giudizi e facilmente infiammabile, benchè i suoi commenti potessero spesso essere offensivi, sembrava rispettare il prossimo –sempre che questo non fosse Kam- ed essere in grado di mettersi completamente a sua disposizione in caso di bisogno. Discretamente, ovvio. Non era il tipo da uscirsene con un frizzante ‘penso a tutto io, non preoccuparti!’. Piuttosto agiva in silenzio. Pensava molto, parlava poco e faceva ciò che riteneva giusto senza troppi commenti. Altro punto a suo favore. Senza contare che probabilmente era una sorta di solidarietà femminile ad averci legate dal primo momento. Partendo dal presupposto che io non avevo mai creduto nella solidarietà femminile, mi auguro sia chiaro quanto la cosa sorprendesse anche me. Insomma, non sapevo esattamente cos’avesse di buono, Aggie. Sapevo solo che per qualche strano motivo, al contrario di suo fratello, non mi odiava, e per questo le ero grata.“Togliti dalla faccia quell’espressione da ebete” sibilò Dean, superandomi lungo il vialetto. Balzò sulle scalette, spalancò la porta di casa, si tolse la maglia e la lanciò nello sgabuzzino, per poi correre su per le scale. “Il bagno è mio!” proclamò, per poi sparire al piano superiore.
Sbuffai, irritata. “Evviva la cavalleria” bofonchiai, entrando a mia volta e chiudendomi la porta alle spalle. Proprio come lui avevo passato la mattina sotto il sole, in una stalla con dei bovini e in seguito seduta in mezzo ad un campo. Sarebbe stato ovviamente troppo gentile da parte sua lasciarmi fare una doccia per prima. Dovevo avere un profumino niente male.
“Abe, ci sei?” domandai, affacciandomi alla cucina. Non c’era. Passai al salotto e lo trovai addormentato su una poltrona con un libro aperto sulle gambe. Sorrisi, mentre andavo a lavarmi le mani nel bagno di servizio al pian terreno. Avrei cucinato io, visto che il nonno dormiva.
Mentre armeggiavo in cucina con padelle, pentole e pentolini che un tempo erano appartenuti alla nonna, mi chiesi come si sentisse Abe. La nonna era morta ormai tanti anni prima, lasciandolo da solo a gestire la fattoria e il proprio dolore. Doveva essere stata dura per lui. Con una stretta allo stomaco mi resi conto che non avevo ricordi di quella casa senza la nonna, ad eccezione delle ultime settimane. Non riuscivo a crederci, quindi passai tutto il tempo della preparazione del pranzo ripercorrendo tutte le avventure e le situazioni che potevo ricordare. Nessuna. Nessuna che contemplasse esclusivamente il nonno. Non nel senso che non fosse presente lui da solo. Nel senso che, dopo la morte di mia nonna, non avevo più alcun ricordo che lo riguardasse. Quando lo vidi entrare in cucina, goffo e insonnolito mi sforzai di cacciar via quei pensieri. Temevo quasi che riuscisse a coglierli solo guardandomi, nonostante non fosse possibile. C’erano tantissime cose a cui avrei potuto pensare, sarebbe stato un ottimo Legilimens se avesse indovinato i pensieri tristi che mi frullavano per la mente. E per quanto il mio umorismo fosse basato in gran parte sulla cultura potteriana, dovevo ammettere che i Maghi, e di conseguenza quelli versati in Legilimanzia, non esistevano.
“Oh Merlino” sbuffai, rimproverandomi sottovoce per i miei contorti ragionamenti a proposito della Saga, senza nemmeno accorgermi che persino le mie imprecazioni, spesso, si basavano su di essa.
Abraham mi osservò in silenzio qualche istante, poi si avvicinò al mobile dove stava la tovaglia e iniziò ad apparecchiare, senza dire nulla.
Probabilmente quall’atmosfera imbarazzata veniva percepita solo da me. Lo speravo. Mi vergognavo delle conclusioni a cui ero giunta cercando di ripescare vecchi ricordi del nonno da vedovo senza alcun risultato.
Affogando nel mio cronico ed egoistico vittimismo non mi ero accorta di quanto effettivamente il nonno potesse aver sofferto durante gli anni. Alla morte di sua moglie, a quanto ricordavo, non eravamo più andati a trovarlo.
All’arrivo di Dean mi sforzai a cacciare nuovamente quei pensieri, rimandando le mie riflessioni a dopo pranzo.
Il pasto fu accompagnato dai soliti battibecchi e dai sospiri di mio nonno, i quali tuttavia mi premevano in quel momento molto più della cura con cui sceglievo le rispostacce da riservare al mio rivale. Fatto stava che il nonno mi pareva improvvisamente un uomo infinitamente stanco. Stanco di lavorare, stanco di soffrire, stanco di sopportare i nostri litigi da bambinetti. Stanco di rimanere solo, stanco di essere preso in giro. Perchè, sì, come si può definire se non un’ ingrata presa in giro l’essere abbandonato a se stesso da un figlio, dopo aver perduto persino la donna che si amava? Sbuffai, irritata. “Evviva la cavalleria” bofonchiai, entrando a mia volta e chiudendomi la porta alle spalle. Proprio come lui avevo passato la mattina sotto il sole, in una stalla con dei bovini e in seguito seduta in mezzo ad un campo. Sarebbe stato ovviamente troppo gentile da parte sua lasciarmi fare una doccia per prima. Dovevo avere un profumino niente male.
“Abe, ci sei?” domandai, affacciandomi alla cucina. Non c’era. Passai al salotto e lo trovai addormentato su una poltrona con un libro aperto sulle gambe. Sorrisi, mentre andavo a lavarmi le mani nel bagno di servizio al pian terreno. Avrei cucinato io, visto che il nonno dormiva.
Mentre armeggiavo in cucina con padelle, pentole e pentolini che un tempo erano appartenuti alla nonna, mi chiesi come si sentisse Abe. La nonna era morta ormai tanti anni prima, lasciandolo da solo a gestire la fattoria e il proprio dolore. Doveva essere stata dura per lui. Con una stretta allo stomaco mi resi conto che non avevo ricordi di quella casa senza la nonna, ad eccezione delle ultime settimane. Non riuscivo a crederci, quindi passai tutto il tempo della preparazione del pranzo ripercorrendo tutte le avventure e le situazioni che potevo ricordare. Nessuna. Nessuna che contemplasse esclusivamente il nonno. Non nel senso che non fosse presente lui da solo. Nel senso che, dopo la morte di mia nonna, non avevo più alcun ricordo che lo riguardasse. Quando lo vidi entrare in cucina, goffo e insonnolito mi sforzai di cacciar via quei pensieri. Temevo quasi che riuscisse a coglierli solo guardandomi, nonostante non fosse possibile. C’erano tantissime cose a cui avrei potuto pensare, sarebbe stato un ottimo Legilimens se avesse indovinato i pensieri tristi che mi frullavano per la mente. E per quanto il mio umorismo fosse basato in gran parte sulla cultura potteriana, dovevo ammettere che i Maghi, e di conseguenza quelli versati in Legilimanzia, non esistevano.
“Oh Merlino” sbuffai, rimproverandomi sottovoce per i miei contorti ragionamenti a proposito della Saga, senza nemmeno accorgermi che persino le mie imprecazioni, spesso, si basavano su di essa.
Abraham mi osservò in silenzio qualche istante, poi si avvicinò al mobile dove stava la tovaglia e iniziò ad apparecchiare, senza dire nulla.
Probabilmente quall’atmosfera imbarazzata veniva percepita solo da me. Lo speravo. Mi vergognavo delle conclusioni a cui ero giunta cercando di ripescare vecchi ricordi del nonno da vedovo senza alcun risultato.
Affogando nel mio cronico ed egoistico vittimismo non mi ero accorta di quanto effettivamente il nonno potesse aver sofferto durante gli anni. Alla morte di sua moglie, a quanto ricordavo, non eravamo più andati a trovarlo.
All’arrivo di Dean mi sforzai a cacciare nuovamente quei pensieri, rimandando le mie riflessioni a dopo pranzo.
“...ma c’è una cavolo di volta che riesci a seguire un discorso per intero?” sbottò Dean, battendo una mano sul tavolo, irritato.
“Eh?”
“Senti, principessa, capisco che ti manchi il mondo delle nuvolette rosa, ma ...”
Sbuffai, stizzita. “Puoi rispondere senza dire sciocchezze, per favore?” sbottai a mia volta, incrociando le braccia. “Una volta tanto!” rincarai la dose, mi alzai in piedi e iniziai a raccogliere i piatti vuoti, ignorando lo sguardo freddo del ragazzo. No, non avevo idea di quale fosse la conversazione a cui evidentemente stavo partecipando senza accorgermene. Però ero stufa del continuo intromettersi prepotentemente nei miei pensieri di Dean. Tanto più che, una volta tanto, non stavo facendo assurdi ragionamenti a proposito di inesistenti creature magiche.
Abraham ci osservava in silenzio, poi sospirò e scosse il capo. “Vedi, stava ascoltando” osservò pazientemente, appoggiandosi pigramente allo schienale della sedia.
“Certo. Non sono mica stupida” confermai, senza avere la minima idea di cosa stesse parlando. In realtà non era importante, non quanto il fatto di aver smentito le ipotesi di Dean e aver così riportato una piccola vittoria su di lui. “Oh, e ti consiglio di non fare battute in proposito, risulteresti piuttosto banale” premisi, rivolta ad un eventuale risposta.
“Oh, certo. Perchè tu non ti sei messa a sparecchiare solo per dimostrare la tua presunta maturità, vero? In realtà, mentre correvi mentalmente tra le nuvole rosa che hai nella zucca, stavi ascoltando la discussione sui turni per i lavori domestici. Giustamente, da brava e matura principessa quale sei, hai deciso di interrompere questi scontri per portare la pace in questo regno non tuo. Molto gentile da parte tua, sacrificarti in questo modo”.
Beccata. Mi aveva beccata in pieno. Non potei evitare di arrossire, ma per nasconderlo mi voltai verso il lavandino, dove iniziai a insaponare i piatti sporchi.
Il lato più fastidioso della situazione, non era tanto l’essere stata scoperta, quanto l’essere stata capita. Mi aveva già inquadrata; nonostante le dosi esponenziali di feroce sarcasmo che riponeva in ogni frase rivolta a me, aveva inteso più che bene che razza di persona fossi. Non che il sarcastico sproloquio a proposito del mio regale operato avesse alcun senso, ma senz’altro aveva compreso i miei comportamenti. Aveva saputo subito smascherare il mio –pietoso ed orgoglioso- tentativo di riparare alla mia distrazione. Ma in fondo, forse, in quel che aveva detto c’era qualcosa di vero. Sì, mi ero alzata e mi ero messa a sparecchiare essenzialmente per dimostrare quanto fossi matura, per far vedere al nonno e anche a lui che non mi curavo delle continue frecciatine, che in realtà sapevo fare il mio lavoro senza farmelo ripetere infinite volte. E non ero nemmeno sicura che ciò che volevo dimostrare mi descrivesse realmente.
Dean prese il mio silenzio come una vittoria, e sentii Abe ridere. Lo guardai e lo vidi scrollare il capo, divertito. “Parola mia, siete incredibili” commentò, alzandosi senza alcuna fatica dalla fatica. “Vado a dar da mangiare alle galline” comunicò, uscendo. Ero vagamente sorpresa della sua agilità. Improvvisamente, mi aspettavo di notare in lui mille acciacchi, che prima, considerandolo un burbero ed insensibile vecchio, non avevo notato, e forse non mi era interessato trovare.
Involontariamente mi ritrovai a sorridere. Non stava poi così male, allora, se rideva del nostro improvvisato e astioso dal spettacolo, realizzai con un modo di sollievo.
Passai le ore del pomeriggio a imbrattarmi di vernice bianca, mentre tentavo di riverniciare la staccionata. Non mi era stato chiesto esplicitamente, ma vedendo la cura con cui era stata ridipinta di fresco la casa di Kameron, avevo deciso di risistemare –con il permesso del nonno, ovviamente- anche la nostra. Così, mentre Dean se ne era andato in paese a godersi il suo giorno libero –dove non si sa, visto che era tutto chiuso-, mi destreggiavo con epico pressappochismo con un grosso pennello e un secchio di vernice bianca. Abe, dal canto suo, aveva deciso di aggiustare le assi più disastrate del porticato e quindi stava armeggiando con delle tavole e alcuni attrezzi nel capanno.“Senti, principessa, capisco che ti manchi il mondo delle nuvolette rosa, ma ...”
Sbuffai, stizzita. “Puoi rispondere senza dire sciocchezze, per favore?” sbottai a mia volta, incrociando le braccia. “Una volta tanto!” rincarai la dose, mi alzai in piedi e iniziai a raccogliere i piatti vuoti, ignorando lo sguardo freddo del ragazzo. No, non avevo idea di quale fosse la conversazione a cui evidentemente stavo partecipando senza accorgermene. Però ero stufa del continuo intromettersi prepotentemente nei miei pensieri di Dean. Tanto più che, una volta tanto, non stavo facendo assurdi ragionamenti a proposito di inesistenti creature magiche.
Abraham ci osservava in silenzio, poi sospirò e scosse il capo. “Vedi, stava ascoltando” osservò pazientemente, appoggiandosi pigramente allo schienale della sedia.
“Certo. Non sono mica stupida” confermai, senza avere la minima idea di cosa stesse parlando. In realtà non era importante, non quanto il fatto di aver smentito le ipotesi di Dean e aver così riportato una piccola vittoria su di lui. “Oh, e ti consiglio di non fare battute in proposito, risulteresti piuttosto banale” premisi, rivolta ad un eventuale risposta.
“Oh, certo. Perchè tu non ti sei messa a sparecchiare solo per dimostrare la tua presunta maturità, vero? In realtà, mentre correvi mentalmente tra le nuvole rosa che hai nella zucca, stavi ascoltando la discussione sui turni per i lavori domestici. Giustamente, da brava e matura principessa quale sei, hai deciso di interrompere questi scontri per portare la pace in questo regno non tuo. Molto gentile da parte tua, sacrificarti in questo modo”.
Beccata. Mi aveva beccata in pieno. Non potei evitare di arrossire, ma per nasconderlo mi voltai verso il lavandino, dove iniziai a insaponare i piatti sporchi.
Il lato più fastidioso della situazione, non era tanto l’essere stata scoperta, quanto l’essere stata capita. Mi aveva già inquadrata; nonostante le dosi esponenziali di feroce sarcasmo che riponeva in ogni frase rivolta a me, aveva inteso più che bene che razza di persona fossi. Non che il sarcastico sproloquio a proposito del mio regale operato avesse alcun senso, ma senz’altro aveva compreso i miei comportamenti. Aveva saputo subito smascherare il mio –pietoso ed orgoglioso- tentativo di riparare alla mia distrazione. Ma in fondo, forse, in quel che aveva detto c’era qualcosa di vero. Sì, mi ero alzata e mi ero messa a sparecchiare essenzialmente per dimostrare quanto fossi matura, per far vedere al nonno e anche a lui che non mi curavo delle continue frecciatine, che in realtà sapevo fare il mio lavoro senza farmelo ripetere infinite volte. E non ero nemmeno sicura che ciò che volevo dimostrare mi descrivesse realmente.
Dean prese il mio silenzio come una vittoria, e sentii Abe ridere. Lo guardai e lo vidi scrollare il capo, divertito. “Parola mia, siete incredibili” commentò, alzandosi senza alcuna fatica dalla fatica. “Vado a dar da mangiare alle galline” comunicò, uscendo. Ero vagamente sorpresa della sua agilità. Improvvisamente, mi aspettavo di notare in lui mille acciacchi, che prima, considerandolo un burbero ed insensibile vecchio, non avevo notato, e forse non mi era interessato trovare.
Involontariamente mi ritrovai a sorridere. Non stava poi così male, allora, se rideva del nostro improvvisato e astioso dal spettacolo, realizzai con un modo di sollievo.
Non so che collegamento fece la mia mente, perchè mentre, inginocchiata a terra, mi chiedevo se dovessi verniciare anche il minuscolo spazio tra un’asse e l’altra, mi balenò in mente ciò che mi aveva detto Hayley il giorno prima. “Nonno!” saltai su, alzandomi faticosamente in piedi. Effettivamente sì, ero decisamente più goffa a malandata di mio nonno, nonostante avessi almeno cinquant’anni in meno di lui. Dovevo iniziare a preoccuparmi? “Non è che hai dei libri sul far west?” me ne uscii.
Ci volle un po’ prima che Abraham, confuso e sospettoso, si affacciasse alla porta del capanno e mi guardasse cercando di capire dove volessi arrivare. Era così strano chiedere un libro sul far west? Ok, forse non era poi così frequente averne, ma avevo passato gli ultimi anni assieme a George, che aveva un armadio-guardaroba stipato di DVD di vecchi film western, quindi mi pareva una cosa più che normale. Era anche più probabile che un uomo dell’età di mio nonno ne avesse. Insomma, non era poi una cosa così insolita, no?
“Può darsi. Cosa devi farci?”
“Un falò!” ribattei, con un sorriso impertinente. Alla sua occhiata esasperata risi. “Hayley mi ha detto che Robin ama quel genere di cose e pensavo che, forse, con qualche libro sarei riuscita ad ingraziarmi almeno lui.” Il che sarebbe significato molto, visto che i piccoli erano molto più malleabili degli altri e i problemi maggiori erano lui e Johnny. Avendo dalla mia parte quattro marmocchi su cinque, sarebbe stato molto meno faticoso trascorrere le mie giornate come loro baby-sitter.
“Vedrò dopo cena, penso di avere qualcosa” brontolò, prima di tornare al suo lavoro.Ci volle un po’ prima che Abraham, confuso e sospettoso, si affacciasse alla porta del capanno e mi guardasse cercando di capire dove volessi arrivare. Era così strano chiedere un libro sul far west? Ok, forse non era poi così frequente averne, ma avevo passato gli ultimi anni assieme a George, che aveva un armadio-guardaroba stipato di DVD di vecchi film western, quindi mi pareva una cosa più che normale. Era anche più probabile che un uomo dell’età di mio nonno ne avesse. Insomma, non era poi una cosa così insolita, no?
“Può darsi. Cosa devi farci?”
“Un falò!” ribattei, con un sorriso impertinente. Alla sua occhiata esasperata risi. “Hayley mi ha detto che Robin ama quel genere di cose e pensavo che, forse, con qualche libro sarei riuscita ad ingraziarmi almeno lui.” Il che sarebbe significato molto, visto che i piccoli erano molto più malleabili degli altri e i problemi maggiori erano lui e Johnny. Avendo dalla mia parte quattro marmocchi su cinque, sarebbe stato molto meno faticoso trascorrere le mie giornate come loro baby-sitter.
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