01 maggio 2012

Cows and jeans. 18


18


Il sabato mattina ero nel saloon, immersa in un’esilarante sensazione di dejavou, accanto a Ginger, con davanti la stessa bacheca di qualche tempo prima, pullulante di post it su cui erano scribacchiate le richieste dei paesani.
“Bene, vediamo cosa c’è di buono” commentò Ginger, mentre trattenevo le risate. Perché, ok, la sensazione di dejavou poteva essere anche vagamente divertente ma di certo non sarebbe stato opportuno scoppiare a ridere quando ero appena stata licenziata. Dubitavo che qualcuno potesse pensare a me come ad una persona anche solo vagamente intelligente, ma un minimo di contegno dovevo comunque tenerlo, giusto per non degenerare del tutto.
“C’è un posto dal veterinario” disse.
Ridacchiai, immaginando si trattasse di uno scherzo, e attesi che mi proponesse qualcosa di sensato.
Passò quasi un minuto, durante il quale lei continuò ad osservarmi paziente, ma la seconda proposta non arrivò quindi alzai lo sguardo su di lei, sgranando gli occhi. “Ma io non sono in grado! Cioè, bisogna essere laureati, io vado ancora al liceo!” esclamai, spaventata.
La donna aggrottò le sopracciglia poi scoppiò a ridere. Qualcosa non quadrava.
"Penso che tu non abbia capito. Intendevo come assistente, non come veterinaria!”
Mi balenò nella mente un’immagine di una sala operatoria in cui i muri erano tutti schizzati di sangue e un pazzo medico –che per qualche motivo mi apparve con la faccia di mio fratello- strillava i nomi degli assurdi strumenti di tortura che avrei dovuto passargli, mentre operava a cuore aperto un elefante.
"In che senso?”
Ginger mi sorrise, con un sorriso che sembrava intimarmi alla tranquillità. E di fatti mi calmai.
“Dovrai solo gestire la sala di attesa.”
Fu con quelle parole che il secondo capitolo di quello che assomigliava sempre più ad un assurdo videogioco – di quelli in cui si ricominciava dallo stesso punto ogni volta che si perdeva una vita – ebbe inizio.


“Di solito l’ambulatorio è tranquillo, ma capitano giorni in cui è sovraffollato e allora non c’è modo di lavorare senza che mi scoppi un mal di testa allucinante” stava spiegando Mr. Sorrow grattandosi distrattamente una guancia sotto la barba folta e bruna.
Annuii distrattamente, mentre osservavo l’ambulatorio veterinario. La sala d’aspetto era effettivamente minuscola, non dubitavo che affollata fosse un qualcosa di insopportabilmente rumoroso. Specie se ogni persona aveva con sé un animale lamentoso.
Abraham mi lanciò un’occhiataccia, accorgendosi che stavo prestando attenzione solo in parte lo sconclusionato discorso del veterinario. In realtà avevo ascoltato le spiegazioni più utili – l’elenco dei miei compiti, gli orari di lavoro e le istruzioni sul lavoro – ma tutti i commenti sul mal di testa e le noiose notazioni scientifiche sull’anatomia animale – o qualcos’altro, non ne ero sicura – non mi importavano molto. Così ignorai anche l’occhiataccia del nonno, certa che nemmeno lui fosse interessate ai due terzi di quello che il veterinario vomitava allegramente.
“Quando posso iniziare?” domandai, quando Mr.Sorrow parve aver finito di parlare a vanvera.
L’uomo si grattò di nuovo la barba, osservandomi pensieroso. Che ci fosse tanto da pensare? Eppure non mi pareva una domanda tanto complicata. Sarei dovuta stare più attenta a ciò che chiedevo, forse.
“Anche subito!” se ne uscì, con un’alzata di spalle.
 Sorrisi, cordiale, e annuii. “E sia!”
Un quarto d’ora dopo era seduta dietro la minuscola scrivania della sala d’aspetto del veterinario, a guardarmi intorno confusa. La stanza era microscopica e anche essenzialmente vuota. Persino ad una persona pigra come me sembrava assurdo non-lavorare in quel modo. C’erano quattro sedie di legno di fronte a me e un porta ombrelli. Stanza vuota, sedie vuote, portaombrelli vuoto. Ambulatorio dannatamente silenzioso. Che il signor Sorrow si fosse addormentato? Lo invidiavo.
L’unica cosa pericolosamente rumorosa era la mia mente, che ciarlava, ciarlava, ciarlava e ciarlava –un po’ come aveva fatto il veterinario poco prima – mentre la mia mano scarabocchiava con una bic nera su un post it. E quando dico che scarabocchiava non si tratta di falsa modestia volta a celare il mio idilliaco talento nell’arte del disegno. Intendo dire proprio che scarabocchiavo: spirali, righe – storte–, cerchietti –ondeggianti-, croci, quadrati anneriti e sbilenche faccine di ogni tipo. Oh, e ovviamente anche gli epici mascheroni neri che sovvenivano quando la noia prendeva totalmente il sopravvento su qualunque mia capacità di autocontrollo e devastavo con quella sorta di nera maledizione tutto il post it appena riempito. Dopodiché lo buttavo nel cestino e ricominciavo da capo con un altro.
Noia.
Noia con la N maiuscola.
N – o – i – a.
Che lavoro era, se non dovevo fare altro che imbrattare foglietti e contenere la mia insofferenza? Perché sì, ero un tipo pigro, ma non soffrivo la noia. (Come tutti, effettivamente). Non mi annoiavo facilmente, fedele com’ero al dolce far nulla, ma quando capitava ero insopportabile.
Sbuffai, iniziando a dondolare sulle gambe posteriori della sedia, una mano a farmi da appoggio sul piano del tavolo.
La porta dell’ambulatorio si aprì di scatto proprio in quel momento seguito un’assordante belare. Inutile dire che caddi sulle quattro gambe della sedia per lo spavento, con un’espressione sciccata in volto.
“Signorina, c’è Mr. Sorrow?” gridò nel panico una donna dai ricci capelli bianchi. Sembrava stremata, poverina.
“Sì, certo” mi alzai in piedi e scattai verso la porta che separava la sala d’aspetto dall’ambulatorio vero e proprio. “Signore, c’è bisogno di lei, qui. È arrivata una signora con una pecora e stanno strillando entrambe. Ma dormiva?!”
L’uomo, seduto alla sua scrivania con la testa posata sulle braccia, a loro volta adagiate sul piano del tavolo, mi lanciò un’occhiata truce. “Certo che no!” si alzò in piedi. “Falle entrare, presto!”
Lo guardai scettica per un istante, mentre spalancavo la porta e invitavo la donna ad entrare con la sua pecora. Poi la richiusi e tornai alla mia scrivania, domandandomi quale fosse il problema di quello stupido animale.
Certo che non la invidio, mi ritrovai a pensare dopo poco. Oltre alla malattia, quella povera bestia aveva dovuto sopportare la gigantesca umiliazione di farsi trascinare al guizaglio per tutto il paese, partendo da chissà dove, poi. Se non la ucciderà la malattia –qualunque essa sia-, lo farà la vergogna, pensai.
Persino i condannati all’impiccagione, che come lei avevano una corda legata al collo, avevano più dignità di quella pecora. Almeno loro avevano un motivo per opporre resistenza, almeno i condannati avevano anni vissuti e da vivere a cui pensare e qualcosa per cui struggersi. Lei invece era inerme e impotente e non poteva nemmeno decidere della sua sorte. Che sventurato ovino. Anche se era un animale stupidamente indisponente mi dispiaceva per lei. Che poi probabilmente era un lui, non lo sapevo. Come si distinguevano le pecore femmina dalle pecore maschio? A parte una sbirciatina nelle parti intime, ok. Ma mi sembrava una cosa tanto barbara andare nella sala medica e guardare sotto ad un qualunque animale. Sì, avevo sempre pensato che fosse una mossa profondamente maleducata. Un po’ di pudore, insomma, non guastava. Se avessero riservato lo stesso trattamento agli uomini, per capire se si trattava di maschi o di femmine?
Avrei dovuto chiedere a qualcuno indicazioni su come distinguere il sesso di un ovino. Al veterinario, magari, così avrebbe potuto vomitare fiumi di parole un pelo interessanti, una volta tanto. La giornata infatti non prometteva di voler vivacizzarsi particolarmente, anche i gemiti scontenti della pecora non si udivano più attraverso la porta –che l’avessero soppressa? Quale terribile barbarie!
Meno di mezzora dopo, tuttavia, la vecchia signora, ora molto meno isterica, fu spinta in sala d’aspetto assieme alla sua povera pecora dalla zampa fasciata. Il dottore le seguì, ciarlando ovviamente: “Non si preoccupi, presto il suo animale starà bene. Dovrà solo evitare di costringerla a fare lunghe passeggiate almeno per un po’, altrimenti quella slogatura non guarirà mai” stava rassicurando l’anziana. “Ora vi troviamo un passaggio per tornare a casa. Pan, vai al saloon e manda Terrence a chiamare il signor Gilbert. Abbiamo bisogno del suo furgone o la signora non potrà tornare a casa assieme alla pecora.”
Mi alzai in piedi, annuendo, sollevata di poter finalmente fare qualcosa. “Subito!” confermai schizzando fuori dall’ambulatorio. Qualunque cosa pur di abbandonare quel noioso luogo infestato dalla puzza della noia. (Non so esattamente che tipo di odore abbia la noia, ma quando lo si respira lo si riconosce. È un po’ lo stesso fetore che riempie l’aria quando sei chino sui libri mentre fuori c’è un sole che spacca le pietre, l’estate è alle porte e sotto la tua finestra ci sono mandrie di bambini urlanti che giocano beati senza la minima preoccupazione per la tua interrogazione di chimica del giorno seguente). Senza contare che comunque quello era il mio compito: dare una mano al veterinario.
Quindi, chiedendomi per quale motivo la vecchia avesse portato in paese la pecora al guinzaglio quando la poveretta aveva una zampa dolorante, corsi per le stradine di Sperdutolandia Town ed entrai al bar, dove con un fiatone da inespertissima maratoneta –quale ero- biascicai a Terrence le istruzioni datemi da Mr.Sorrow.
Fu presto evidente, però, che avessi omesso qualcosa, poiché il dato signor Gilbert si presentò tre quarti d’ora dopo davanti alla sede veterinaria con la sua tremolante alfa romeo di un’altra epoca, talmente piccola da non avere nemmeno i sedili posteriori e quindi totalmente inabilitata al trasporto di una vecchia con la sua bestia.
La strigliata che mi beccati dopo che la belante coppia se ne fu andata a bordo del furgone –che il signor Gilbert aveva avuto il buon senso di tornare indietro a prendere- fu la più noiosa e petulante che io avessi mai udito in diciotto anni e quasi quattro mesi di vita. Quel posto di lavoro era la sede della noia e probabilmente io ero stata assunta per tenere compagnia proprio a questa che si stava stancando di essere ignorata e di ascoltare le chiacchiere di quel barbuto oratore da strapazzo. Ma quel lavoro mi serviva. Non potevo perderlo e fui immensamente grata al veterinario di non avermi buttato fuori, che rimasi sveglia fino a tardi a scrivere sul diario un riassunto dettagliato della giornata (per Emily) e a organizzare una tabella di marcia mentale per dare del mio meglio e non sbagliare più. La quale suonava un po’ come un continuo incitamento alla concentrazione.
Ma ovviamente il giorno seguente ne combinai una delle mie. Stanca com’ero per essere andata a letto tardi, mi feci accompagnare da nonno Abe al lavoro in anticipo, temendo di arrivare tardi, e fu così che attesi più di venti minuti l’arrivo di Mr.Sorrow, impalata davanti alla porta. Anche quel giorno l’inattività fu assolutamente snervante, tanto che, giusto per far qualcosa, mi addormentai con la faccia appoggiata su uno dei post it che stavo imbrattando. Quando un ragazzino, che doveva vaccinare il suo cane, entrò sbattendo la porta, mi svegliò. Inutile dire che quando mi alzai di scatto a guardarlo come se fosse stato un’Acromantula, sfoggiando una riproduzione di una montagna di smile scocciati (-.-, per intenderci) sulla guancia. Inutile dire che rise fino alle lacrime, inutile dire che mi sfregai la faccia per un’ora per fare andare via quei segni neri. Utile, invece, segnalare che rimasi intontita tutto il pomeriggio per colpa di quel sonnellino fuori orario e quando mi venne chiesto di far qualcosa –visto che mi pagavano- usai l’AnitraWC per lavare i vetri delle finestre e la vetrina, lasciando tutte le superfici riflettenti ricoperte da comici quanto demoralizzanti aloni bianchi.
Questo fu ovviamente uno solo dei tanti errori che commisi durante quella settimana. Non a caso, quando al mio secondo lunedì di lavoro arrivai all’ambulatorio –in ritardo, questa volta-, trovai un’anziana signora seduta al mio posto e quando chiesi spiegazioni, Mr. Sorrow attaccò con una sorta di opera di ciceroniana di infinita lunghezza che, una volta tanto, mi ritrovai ad ascoltare dall’inizio alla fine, esterrefatta. Il succo del discorso era che aveva assunto nuovamente la sua precedente assistente. Non capivo per quale assurdo motivo dovesse continuare a girare attorno ad una cavolo di rotonda immaginaria a suon di metafore, aneddoti e intercalari, quando poteva andare dritto al punto. “Devi ammettere, inoltre, che non è normale finire tre blocchi di post-it e continuare a dimenticarsi tutte quelle cose” mi disse. Non feci una piega, pensando invece che avrei dovuto usarne molti di più, solo per dispetto. “Quella vecchia è un decisamente noiosa, devo ammetterlo, ma almeno sa fare il suo lavoro senza fare disastri. Senza rancore, eh?”
Misi su un sorrisetto strafottente, che probabilmente gli sembrò solo forzato. “Non si preoccupi, la capisco: so cosa voglia dire lavorare con vecchi noiosi! Arrivederci” lo salutai, lasciandolo lì a grattarsi la barba come al solito.
E fu con (mia) stizza che venni licenziata per la seconda volta. Questa volta, più che demoralizzata, ero furiosa. Con me stessa, con quel soporifero lavoro, con quel decerebrato di un veterinario e con quello schifo di Sperdutolandia.
Quel posto mi detestava, era lampante e in parte anche reciproco. Ma io non avevo intenzione di cedere. Anche solo per dispetto, a quel punto non avrei mollato.
Di fatti varcai la soglia del saloon con un sorriso colpevole in volto e, dondolando sui talloni, un po’ in imbarazzo, chiesi a Ginger se avesse qualche minuto per me.
Lei, sorridente e disponibile come sempre, posò sul bancone lo strofinaccio con cui stava asciugando e mi seguì fuori dal locale.
Le spiegai timidamente la situazione, evitando lo sguardo di Abraham che mi scrutava attraverso la porta di vetro e mi scusai ripetutamente per il disturbo che le stavo arrecando.
“Non preoccuparti, Pan, devi trovare il lavoro giusto per te. È normale fare un po’ di fatica, all’inizio”.
Non le credetti per niente, ma mi limitai a sorriderle grata. Era sempre così gentile che non riuscivo ad essere acida con lei. Senza contare che non avrei avuto nè motivo nè diritto. “Grazie, Ginger, sul serio, non saprei cosa fare senza di te” dissi, a mezza voce, mentre questa volta consultavamo la bacheca direttamente fuori dal locale, senza nemmeno portarla dentro.
“E’ giusto così: bisogna aiutarsi a vicenda per vivere bene in paese. Sembra che tu fatichi a trovare il lavoro adatto a te, ma non ci diamo per vinte, giusto?”
Sorrisi, ammirata. “Giusto”, confermai, mentre la donna scartava qualche foglio alla ricerca di quello adatto. Per caso mi cadde l’occhio su un’annuncio, diceva che si stava cercando una commessa al negozio di articoli da giardinaggio –da lavoro, trattandosi di Sperdutolandia, dove gli hobby non esistevano! “E questo?” proposi, con scarso entusiasmo.
“Da Cassie? Sì, si può fare. Solo...”
“Solo?”
“Dovrai lavorare sodo per ottenere la sua fiducia. Non si fida facilmente delle persone, ci ha messo molto per adattarsi qui in paese. I primi tempi pedinava tutti i clienti che entravano nel suo negozio, temendo che le rubassero qualcosa. È molto meticolosa nel suo lavoro, quindi dovrai darti da fare. Pensi di farcela?”
“Parla tanto quanto Mr. Sorrow?” domandai.
"No, è un tipo taciturno”.
“Penso che andremo d’accordo, allora” risposi, speranzosa. Bastava non dover sopportare tanta noia come la settimana passata!
Ero pronta a tutto.
Senza contare che le parole tutto sommato buone che Ginger aveva speso per descrivere questa Cassie, mi davano speranza.


Furono tre giorni impegnativi, durante i quali mi resi conto di tante cose. Per prima cosa, ero certa che mi sarebbe venuta un’ernia, prima o poi, a forza di trascinare avanti e indietro sacchi di terra e concime –con un profumino che potete immaginarvi. Secondo, Dean adorava letteralmente vedermi in preda ad una crisi di nervi –motivo per cui mi aveva sfottuta fino all’esasperazione, per essermi fatta licenziare di nuovo. Terzo, Ginger era fin troppo gentile e ottimista: Cassie era la persona più sfiduciosa, sospettosa e burbera che avessi mai incontrato nel mondo reale! Perchè, se proprio dovessi paragonarlo ad un personaggio della letteratura, direi che i Centauri che abitano la Foresta Proibita sono dei gran simpaticoni.
“Muoviti, ragazza, ci sono ancora un sacco di cose da scaricare!” mi esortò la donna. Non poteva avere più di cinquant’anni, quella megera. Doveva essere in menopausa, a giudicare dai picchi di acidità che raggiungeva a intervalli di venti minuti.
“Sì, sto lavorando!” mi lagnai, mentre le passavo di fronte trascinando un sacco da dieci chili di concime.
“Non strisciarlo a terra, si rovina!”
“Cassie, c’è del letame dentro! Non so nemmeno perché tu lo faccia arrivare confezionato, quando qui ci sono mucche dietro ogni angolo! E ne fanno tanta, le mucche!”
La donna mi lanciò una truce occhiata con quei suoi raggelanti occhi azzurri. Insomma, erano raggelanti sul serio. Non avevo mai visto uno sguardo così freddo nascosto dietro iridi di quel colore: solitamente avevano un che di dolce e spensierato, ma in lei non c’era nulla di dolce nè di spensierato. Passava le giornate a rimproverarmi, standomi continuamente col fiato sul collo, attenta ad ogni mio sgarro. Mi metteva tanta pressione, che finivo per far cadere tutto ciò che mi capitava tra le mani. In compenso però, non riuscivo a dimenticare nessun incarico, né a fare grossi errori.
“Tu non capisci.”
No, in effetti non ne capivo il senso, sempre che uno ce ne fosse. Trascinai il sacco dal retro fino all’espositore in negozio. Che poi, a cosa serviva un espositore di concimi? Insomma, era... sterco!
Nonostante ciò, ricominciai a spostare i sacchi, questa volta con il suo aiuto, visto che non voleva strisciassero a terra e si rovinassero. Poi passammo ai vasi e ai vari attrezzi da giardinaggio, fino a svuotare quasi tutto il magazzino. Era già pomeriggio, poiché la mattina la avevamo trascorsa scaricando dal camioncino dei rifornimenti tutti i nuovi arrivi.
Era strano, perché nonostante Cassie fosse un’arpia e sgobbassi come un cammello tutto il giorno, quando tornavo a casa – e grazie al cielo gli orari di lavoro coincidevano più o meno con quelli del nonno e di Kameron, per cui il primo mi accompagnava in paese al mattino e il secondo a casa alla sera, perché ero ancora rigorosamente senza motore – ero tranquilla. Stanca, sì, ma tranquilla. Con il caratteraccio che quella donna si ritrovava, non mi facevo scrupoli a risponderle per le rime, quindi il mio stress veniva in gran parte scaricato in quel modo. Motivo per cui, quando Dean iniziava il suo momento di relax quotidiano e mi rivolgeva le sue frecciatine, ne dicevo quattro anche a lui e mi sfogavo del tutto, o quasi. Inoltre, non appena toccavo il materasso esausta com’ero, mi addormentavo subito e dormivo della grossa fino a quando qualcuno –la sveglia, Abe o Dean- non mi buttavano giù dal letto a pedate.
La mattina seguente, fu sorprendente trovare davanti al negozio di Cassie una piccola folla di persone. C’erano Kameron, il signor Gilbert, Ginger e suo marito, Mr. Sorrow, il signor Lucas con Robin, e una manciata di altre persone che avevo incontrato qualche volta, ma non avrei saputo nominare.
“Che succede?” chiesi, scendendo dalla macchina.
Mio nonno mi lanciò un’occhiataccia. “Non ne ho idea. Sarà una delle solite trovate di Cassie per disseminare panico in paese” borbottò, irritato, dirigendosi come al solito al bar, senza curarsene più di tanto.
Lo guardai entrare, poi mi avvicinai alla folla.
Fui subito accolta da un “E’ lei!”.
Sgranai gli occhi, mentre il mio capo mi indicava, furiosa, e guidava gli sguardi stupiti di tutti i presenti su di me.
Arrossii per l’imbarazzo. “Ciao, Cassie. È successo qualcosa?” domandai, in parte sorpresa, ma soprattutto chiedendomi cosa significasse questo ‘è lei!’. Sì, insomma, ero già stata presentata a gran parte di quelle persone e le altre avevano sentito parlare di me per tutti i danni che avevo combinato ultimamente. Dubito ci fosse qualcuno, comunque, in un paese così piccolo a non sapere chi fossi. Era un po’ inutile fare questa ulteriore presentazione in mezzo alla strada.
“E me lo chiedi pure!?” strillò, furiosa, facendo un passo avanti, verso di me. “Hai anche il coraggio di chiedermelo?!”
“Ehm... sì.” sospirai, mentre capivo quale era stato forse il mio errore. “Ho rotto un sacco di letame, vero? Deve essere caduto dallo scaffale. Lo so, era in bilico, non ci stava, ma tu avevi detto di spostarli tutti... pulisco subito, non preoccuparti!” In fondo ne combinavo una dietro l’altra, era strano che in quei tre giorni non fosse successo ancora nulla.
Cassie rise, vagamente isterica. “Non mi freghi, signorinella!”
“Scusa?” cheisi, senza capire.
Fece un’altro passo verso di me e questa volta, involontariamente, indietreggiai. Sembrava che quella grossa vena orribilmente gonfia e visibile sulla fronte potesse esplodere da un momento all’altro, e la cosa era tanto buffa e comica da risultare inquietante. Insomma, erano cose che succedevano nei cartoni, non nella vita reale!
“Smettila! Smettila subito di fare finta di niente! Vai subito a prenderla! Sei stata tu, ne sono sicura! Non c’è più!”
“Ma cosa?”
Iniziavo terribilmente a sentirmi accusata e non capivo di cosa. Avevo forse perso qualche sacco di merd- ... di concime?
“Quella zappa! Lo so che l’hai presa tu, stupida ragazzina! Non so cosa ti abbiamo insegnato, ma qui non si fanno queste cose! Ora, prima che chiami l’agente Watson, riportami quella zappa!”
E come un fulmine a ciel sereno capii. “Stai insinuando che io abbia rubato qualcosa?!”
“Una zappa! Non lo sto insinuando, lo so per certo!”
“Lo sai per certo?!” Il mio tono aveva giunto il livello dell’isteria. Ero indignata e assolutamente fuori di me. -"Che diavolo sai per certo, scusami?!”
Se Cassie era furiosa come una belva feroce a cui è stato sottratto un cucciolo, io rischiavo di non diventare meno iraconda di lei.
“Lo hai preso tu!” continuava a strillare. “E’ inutile che continui a fare la finta innocente, ragazzina, lo sappiamo tutti che se la colpa di qualcuno è la tua. Ginger ci ha messo secoli per insegnarmi ad aver fiducia di questi zoticoni di campagna e non ho mai avuto ragione di pentirmene! Poi arrivi tu, compari dal tuo treno e butti all’aria la nostra tranquillità con la tua totale incapacità! Chi, ora?! dimmi, chi può avermi sottratto quella zappa, se non una viziata e impertinente ragazzina di città?”
“Mi stai dando della ladra! Sei impazzita? UNA ZAPPA, POI! Ma dove diavolo me la metto una zappa, secondo te?! La incornicio in camera?! O la mando a casa come souvenir!? Dio, Cassie, ma ti hanno detto di berti una dannata camomilla e startene tranquilla, una buona volta?!”
La donna divenne livida di rabbia, e a quel punto iniziò a fare veramente paura. Se non fosse stato che ero così arrabbiata da fregarmene totalmente, forse a quel punto avrei capito che era il caso di chiudere il becco prima che...
“SEI LICENZIATA! LICENZIATA, LICENZIATA, LICENZIATA! Qualuno chiami il signor Watson, questa stupida ladra non deve passarla liscia!”
“Cassie, ma vaffanculo!” sbottai, girando sui tacchi e andandomene a piedi da qualche parte, senza nemmeno sapere dove. Mi limitai ad attraversare la piazza, gesticolando come una stupida, camminando spedita e parlando ad alta voce, da sola.

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