01 maggio 2012

Cows and jeans. 17


17



Quello del viaggio di ritorno fu un tragitto accompagnato da risate e spensieratezza. Ogni preoccupazione per il lavoro perduto e quello da cercare era svanita, sostituita dall’immensa e rincuorante voglia di tornare finalmente a casa, almeno per qualche giorno. A Settembre sarei tornata in città –da papà, da Emily!- per una settimana, e i biglietti del treno erano già in viaggio per Sperdutolandia, per raggiungermi. Era solo Luglio, la metà del mese era passata da pochissimo, ma ero disposta ad aspettare pazientemente, purché Settembre si sbrigasse ad arrivare!
Ridevo e scherzavo con Kameron, raccontandogli una manciata di aneddoti di cui ero venuta a conoscenza grazie alle voci di corridoio, o che io o Emily avevamo vissuto di persona.
“...poi lei è entrata nel negozio di dischi e l’ha visto che abbracciava la sagoma di cartone di Amy Winehouse!”
Ridemmo fino alle lacrime, quasi, poi Kameron cercò di ricomporsi. “E’ molto fornito quel negozio di musica?” se ne uscì.
Diedi una scrollata di spalle. “Non è mai mancato ciò che stavo cercando” risposi.
Lui annuì. “Mi faresti una commissione quando torni in città, allora?”
“Direi che è il minimo, Kam, con tutti i passaggi che mi stai dando! Spara!” lo incoraggiai.
“Bang!” mimò una pistola con le dita.
Risi, presa di sorpresa da quel gesto. “Era pessima!” specificai, poi.
“Era geniale” obiettò Kameron. “E’ da un po’ che cerco il CD A Day At The Race dei...”.
“Queen!” completai, sorpresa.
“Esatto! Li conosci?”
Gli lanciai un’occhiata di sottecchi, sorridendo soddisfatta. Erano in pochi a condividere la mia passione per tale gruppo musicale, in città. Tutti erano fissati con l’heavy metal, l’hard rock, oppure l’house o qualcosa di tragicamente commerciale. Non che io fossi un’esperta di musica, ma non avevo mai sostenuto che vera musica fosse quella che ascoltavo io. Nonostante fosse buona musica. “E chi non li conosce? Non esiste nessuno che non conosca Somebody to love o I want it all!”
“Vogliamo parlare di We are the champion?”
“O di We will rock you?”
“I want to beak free?”
“Bohemian Rhapsody!” concludemmo in coro, sorridendo soddisfatti.
Avrei potuto citare mezza discografia ed era evidente che per lui valeva lo stesso –dalla sua espressione da esperto, almeno, era questo che si deduceva. “A day at the race, e sia” acconsentii, annuendo. “Sarà un regalo di ringraziamento”.
Kameron sbuffò, poi però mise su un’espressione colpevole. “Penso che questa volta accetterò senza fare molte storie. Mio padre non vuole che io spenda soldi in queste cose. In cambio, però, ti farò da tassista a vita!”.
Lo guardai di sottecchi. A Sperdutolandia non si potevano nemmeno spendere i propri soldi come si voleva? Non che i CD –CD di buona musica- fossero poi un modo per buttarli nel gabinetto, poi. Dovevo rassegnarmi: non mi sarei mai abituata agli usi di quel posto, checché continuassero a ripetermi. “Ma non diciamo sciocchezze, Kam. È così che hai iniziato con Agatha?” domandai, scherzosa.
Lui sorrise. “No, per lei è stato diverso. Fino all’anno scorso era sempre a casa di Dean a studiare. Più o meno, insomma. Ci provava a farmi studiare, almeno, ma non è servito a molto. I suoi ormai mi conoscevano, ero sempre da loro, quindi, vista la mia tendenza ad andare a zonzo in macchina anziché lavorare. A dire la verità preferisco fare qualunque cosa pur di non lavorare!”
“Ti capisco!”
Rise e continuò. “E così mi hanno chiesto di fare da autista ad Aggie, ogni tanto!” lo disse con un entusiasmo quasi immotivato. Sembrava estremamente orgoglioso di questo suo compito, come se finalmente avesse trovato il suo scopo nella vita. E, come avrei scoperto presto, era così. Come poco tempo dopo avrei saputo da Ginger, Kameron era sempre stato considerato uno scansafatiche, solo perché un po’ pigro. Era sempre stato per tutti un fannullone, quando in fondo bastava accostargli una persona che lo spronasse debitamente e un po’ più spesso per fargli fare tutto il suo dovere. Ecco perché era sempre con Agatha, che con la sua severa autorità non si lasciava mettere i piedi in testa nè coinvolgere dalle trovate di Kameron per distrarsi dal lavoro.
“Dean ce l’ha con il mondo intero o solo con me?” me ne uscii, con solo una punta di interesse nella voce. Se ce l’aveva con tutti non mi interessava particolarmente –problemi suoi!-, ma se il suo problema ero io un po’ mi scocciava. Insomma, non gli avevo mai fatto nulla di male!
Lui diede una scrollata di spalle. “E’ così con tutti. Ha un carattere un po’ particolare...”
“Da dove vengo io si dice pessimo, non particolare!”
Kameron scoppiò a ridere, anche se dall’espressione che prese dopo averlo fatto, si notò che avrebbe preferito essersi trattenuto. Per rispetto dell’amico, forse. “E’ un bravo ragazzo. E’ stato il mio unico amico per tanto tempo, e io il suo...”
Sgranai gli occhi.
Ok, che Dean fosse un cretino scorbutico era lampante, e che non avesse altri amici oltre Kameron non mi stupiva più ti tanto. Ma Kameron? Come poteva avere solo un amico? Insomma, era un tipo a posto! Divertente, ottimista, disponibile e gentile.
“Non hai altri amici oltre Dean?!” me ne uscii, con davvero poca delicatezza. Subito dopo me ne resi conto, e abbassai il capo. La solita similitudine dell’elefante nel negozio di porcellane ci sarebbe stata da Dio. “Scusa, non volevo. Fingi che non abbia detto niente”.
Ma come al solito Kameron ignorò le mie scuse. “Be’, sì. Non sono molto popolare quaggiù, specie a scuola. Mi ritengono... strano, immagino”.
Lo guardai confusa. “Strano? Tu?! Ma se sei la persona meno stramba che io abbia incontrato qua!”
Lui rise. “Non devi aver incontrato tanta gente, allora!”
“No, in effetti no” ammisi. “Ma vivo con Dean e ho visto Terrence entrare nel bar di venerdì pomeriggio, chiedermi cosa stessi facendo mentre parlavo al telefono e perché non ci fosse nessuno, per poi uscire subito dopo! Ora dimmi che lui è normale, e quando comparirà sul cofano dell’auto lo Stregatto non mi sorprenderò più di tanto!” esclamai, indicando il posto citato.
Non ci capivo più nulla. Se Kameron era strano di sicuro sarei stata considerata una pazza isterica! Il che forse era anche corretto, ma insomma! Kameron strano?!
Scoppiò a ridere come un matto e continuò per cinque minuti d’orologio, senza fermarsi un secondo. Ad un tratto pensai di fargli male così che smettesse ed evitasse l’arresto cardiaco, ma sembrava così stare bene anche senza respirare, che alla fine la sua risata mi contagiò.
Quando smettemmo eravamo già arrivati a casa di Abraham e Kameron parcherggiò nell’aia. Mentre scendevamo Dean si alzò da inginocchiato accanto alla staccionata che era, appoggiò il pennello con cui stava dando la seconda mano di vernice al legno e venne verso di noi. “Ah, pensavo mi avessi dato buca!” esclamò rivolto a Kameron. Poi si voltò verso di me. “Non fargli perdere tempo, ok? È già uno scansafatiche per sua natura!”
Incrociai le braccia, decisa a rispondere senza perdere le staffe. “Cos’è, hai paura che io sia un’amica migliore di te?”
“Ne dubito, principessina. Che ne dici di farti qualche altro amico e imparare quel’è il tuo posto?”
“Nààh, credo che usurperò il tuo” ribattei con nonchalance. Ero di ottimo umore dopo la notizia datami da mio padre ed ero decisa a non farmi rovinare quel momento di allegria da niente e soprattutto da nessuno. “Dov’è Abe?” domandai. Volevo dargli la notizia.
Dean fece una smorfia. “Dove passa tutto il suo tempo di Venerdì” rispose.
Ovvero nel pollaio. Nonno Abraham era sempre stato molto legato alle sue galline, da che ricordassi. Infatti, come Dean mi aveva detto il primo giorno, non si fidava di lui a tal punto da lasciarlo prendersi cura dei polli. I suoi adorati pennuti! Ridacchiai, mentre correvo verso il pollaio. Entrai spalancando rumorosamente la porta e facendo agitare tutte le galline. Facendolo, mi tornò alla mente una scena di tanti anni prima.
Una piccola me stava correndo nel cortile. “Nonnoooo! È pronto da mangiareeee!” stava gridando.
La bambina era entrata nel pollaio sbattendo la porta, ridendo e gridando con entusiasmo, terrorizzando in questo modo i pennuti starnazzanti.
“Nonno è pronto!” aveva gridato la piccola me.
“Pan, non urlare, fai paura ai polli”.
La piccola aveva riso. “Ma è divertente, nonno! Guarda, nonno, scappano!” continuava a strillare, divertita.
Abraham aveva sorriso appena e le aveva tappato la bocca con una mano. “Sai cosa succede, quando le galline si prendono molta paura?”
La piccola me aveva scosso il capo e il nonno aveva continuato: “Non fanno più le uova”. La bambina aveva sgranato gli occhi e abbassato tristemente il capo. Si era sentita in colpa, tutto d’un tratto.
“Oh, non c’è motivo di essere tristi, ora. Adesso lo sai, quindi non corriamo più alcun rischio! Forza, andiamo a mangiare!”
Quel ricordo mi fece sentire dannatamente in colpa e richiusi la porta dolcemente, come per rimediare al baccano fatto aprendola. “Scusa, non volevo spaventarle” sussurrai, senza muovermi dalla soglia.
Forse era fin da quel momento che avevo iniziato a guardare con diffidenza e rispetto i pennuti. Erano evidentemente più fragili di quel che si pensava, ma nonostante ciò mi parevano piuttosto infide. Non mi piacevano: era quasi un ricatto quel ‘fammi paura e non ti dò più uova!’.
“Non preoccuparti. Lascia pure la porta aperta, possono uscire in cortile. No, aspetta” si interruppe. “il ragazzo dei Towell c’è ancora?” domandò.
Annuii. “Sì, sta parlando con Dean.” Confermai.
Abraham scosse il capo. “Be’, allora usciranno più tardi. Non voglio che quello zuccone ne investa qualcuna, andandosene” brontolò, scortandomi fuori.
Una venerazione. Aveva una vera e propria venerazione per quei pennuti. Io ero l’ultima a poterlo biasimare per questo, vista la mia devozione per quella meravigliosa bestia che è la mucca, ma non approvavo. Insomma, come ho già detto non mi piacevano molto le galline. Era una questione di pelle, proprio. Capita che qualcuno ci stia antipatico a prescindere da tutto, no? Per me e le galline era la stessa cosa. Anche per le pecore a dirla tutta. Non era normale che ci fossero certi animali che mi dessero così sui nervi, probabilmente, ma, ammettiamolo, cosa avevo io di normale?
“Hey, nonno” iniziai, mentre camminavo al suo fianco verso la casa. “ho parlato con papà, al telefono”.
“Sì?” Sembrava davvero poco interessato, ma non lo biasimavo. Dopotutto lo aveva abbandonato a se stesso nel momento del bisogno, quel trattamento era il minimo.
“Sì. Mi ha detto che lui e mamma hanno spedito due biglietti del treno per farmi tornare a casa qualche giorno, a inizio Settembre” dissi, sorridendo allegra.
Lui fece una smorfia, spalancando la porta ed entrando in casa.
Lanciai un’occhiata a Dean e Kameron che chiacchieravano nello stesso punto di prima, poi lo seguii dentro.
“C’è la scuola a Settembre” disse, vedendomi raggiungerlo in salotto. Si sedette sulla sua poltrona.
Battei le palpebre, confusa. “Inizia l’1?” chiesi. Ok, avrei dovuto essere esaltata per la somglianza con Hogwarts, ma decisamente non mi pareva il caso di esserne felici, se ne andava del mio limitato ritorno a casa.
Abraham sbuffò. “Cosa ne so, chiedi a quei due zoticoni là fuori” brontolò, afferrando un libro e aprendolo.
Feci una smorfia e andai ad affacciarmi alla finestra. “Kameron, quando inizia la scuola?” strillai.
Dean disse qualcosa ed entrambi risero. Se gli pareva il momento adatto per fare battutine idiote si sbagliava di grosso.
Sbuffai, poi l’interpellato mimò con le mani un dieci e un due. Sarebbe iniziata il dodici, quindi? “Grazie!” urlai in risposta e rientrai. Probabilmente sarebbe iniziata il dodici, il che significava che avrei avuto tutto il tempo di tornare a casa e poi godermi gli ultimi giorni di vacanza a Sperdutolandia. Sì, bè, ‘godermi’ e ‘giorni di vacanza’ erano paroloni, visto che avrei dovuto lavorare, ma comunque non c’era scuola.
“Abe, le lezioni iniziano il 13 a detta di Kameron” comunicai, sorridendo sollevata.
Lui sbuffò di nuovo, come a manifestare la sua disapprovazione per essere stato disturbato mentre cercava di leggere. Avrei voluto protestare: in fondo io stavo cercando di avere una conversazione da prima che lui aprisse il libro, avevo la precedenza!
Abraham non rispose e io rimasi ad osservarlo in attesa per quelli che sembrarono minuti interi.
“Mi hai sentito?” sbottai infine, scocciata.
“Sì, la scuola inizia il 12. Bene, avrai tutto il tempo per tornartene a casa. Ma qual’è poi il problema, se c’è scuola?” bofonchiò, scocciato.
Sorrisi, rendendomi conto di quale fosse probabilmente il problema. “Nonno, starò via una settimana e tornerò qui” lo informai, parlando lentamente, ma senza sillabare come se stessi parlando ad un ritardato –cosa che sapevo non sarebbe stata apprezzata per niente. “Non rimarrò in città”. Che temesse di essere abbandonato nuovamente a se stesso? Potevo capirlo e non volevo che accadesse. Non aveva idea di quanto io mi sentissi già in colpa per l’abbandono –indipendente dalla mia volontà- degli anni passati. Pensai che forse avrei dovuto parlarne con mio padre, una volta incontratolo di persone. Mi dispiaceva enormemente per ciò che lui aveva deciso dopo la morte della nonna e avrei voluto che recuperasse quell’assenza con almeno qualche visita ogni tanto. Sia a lui che a me. Perché in fondo era ormai chiaro che sarei rimasta a vivere a Sperdutolandia per molto tempo. Probabilmente sarei stata autorizzata ad andarmene solo quando avrei imparato a cavarmela da sola, senza l’aiuto di nessuno. Quando avrei imparato a lavorare, guadagnarmi il pane quotidiano e chissà cos’altro. Giorno tuttavia tristemente lontano, ahimè, visto come stavano andando le cose.
Abraham non rispose, fingendosi nuovamente immerso nella lettura. O forse vi era immerso realmente, ma mi pareva strano che potesse riuscire così facile ignorare una persona. Insomma, quando volevo ignorare Joshua in uno dei suoi attacchi di irritante vitalità –che duravano intorno alle ventiquattro ore ed erano quotidiani- non riuscivo a far finta che lui non ci fosse e a concentrarmi sulla lettura, per quanto mi impegnassi. Lui era molto più esuberante della mia capacità di concentrazione.
Sospirai e decisi di provare a parlargli in modo gentile. “Nonno?”
Lui grugnì, in tutta risposta. Probabilmente voleva dirmi che mi stava ascoltando.
“Non ho intenzione di andarmene tanto presto. Non per sempre, almeno”. Non che io ne abbia la facoltà, comunque. Ma anche avendola avuta dubitavo che me ne sarei andata e l’avrei mollato lì da solo. Mi stavo affezionando –di nuovo- a lui, nonostante tutto.
Lui rimase in silenzio ancora un po’, periodo durante il quale io rimase immobile a fissarlo, in attesa. Alla fine Abraham sbuffò. “E va bene, ho capito! Evviva, vai a casa una settimana! Guarda come sono felice per te. Contenta ora? Fila fuori di qui e lasciami in pace, adesso!” sbottò, burbero, tutto d’un fiato.
La sua reazione mi fece scoppiare a ridere, ma decidendo saggiamente di non giocare troppo col fuoco, corsi in camera mia a scrivere qualche pagina del diario da spedire ad Emily.

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