02 dicembre 2010

Cows and jeans.

Viaggiavo in treno da poco più di un' ora e i miei buoni propositi stavano già svanendo.
Volevo già tornare a casa.
Tutti quegli alberi, i campi, il treno che a ogni fermata si riempiva di gente dall'aria sempre più frizzante e curiosa.
Lo sapevo, avrei dovuto portare pazienza. Mi sarei dovuta abituare a quelle persone, proprio come loro avrebbero dovuto abituarsi a me. 
Ma quei dannati sguardi curiosi proprio non li reggevo.
Non ero poi una persona così strana! 
Jeans lunghi, felpa nera, scarpe da ginnastica bianche. La valigia blu sotto il sedile, uno zaino nero nel porta oggetti e una tracolla di jeans sulle gambe. 
Troppi bagagli? Dovevo trasferirsi, non fare una gita. 
Capelli appariscenti?
Erano marroni, cavolo, più non-colorati di così non si poteva! 
Occhi? Eh be'.  Wow. Marroni pure quelli.
Naso? Normale.
Corpo? Minuto e decisamente poco appariscente. Da...dodicenne.
Oh. Ora capivo. Probabilmente quei campagnoli impiccioni vedevano una bambina piena di valige scappare di casa, e non una diciottenne cacciata dai genitori.
"Sei maggiorenne? Vattene dal nonno! Non può che farti bene". Ed ora... ciuuuffciuuuff! Ero in treno da un'ora verso il nulla più totale. 
Perchè? Probabilmente tutto era iniziato quando mio fratello aveva iniziato a parlare. Fin da subito aveva capito la sua vocazione: sparare stronz-... sciocchezze. E così, insulto dopo insulto, dispetto dopo dispetto, litigio dopo litigio, discussione dopo discussioni coi genitori, nostra madre era impazzita e aveva deciso di spedirci tutti e due a vivere da qualche parte lontani da loro. Poi ovviamente era saltato su George, il nuovo compagno di nostra madre, proponendo un collegio chiamato non-so-come nella terra di non-so-dove, del quale conosceva il preside che avrebbe potuto provvedere ad uno sconto della retta annuale in modo che avremmo potuto pagarcela da soli... ma questo aveva scatenato l'ira di nostro padre. Si era messo a sbraitare che quell'uomo non aveva alcun diritto di decidere cosa la mamma avrebbe dovuto fare di noi. Così aveva deciso di spedire Joshua dalla prozia Krimilde in Germania finchè non avrebbe compiuto diciotto anni e di lasciare me, povera e dolce ragazzina indifesa, in casa sua finchè non avessi trovato un lavoro. Tuttavia lo zuccone non voleva andarci in Germania e io mi ero offerta volontaria per fare a cambio con lui. Non mi sarebbe capitata di nuovo l'occasione di andarmene in Europa e vivere gratuitamente nell'enorme villa di quella zitella ricchissima con una biblioteca grande quanto quella del mio paese!
Ovviamente quel cretino aveva cambiato idea non appena avevo dimostrato interesse per quel viaggio, e avevamo iniziato a litigare di nuovo, davanti a papà, alla mamma e a George. 
Papà aveva battuto un pugno sul tavolo, forte, richiamandoci al silenzio. "Joshua. Tu, da Krimilde" aveva deciso nostro padre, "e tu dal nonno!" mi aveva urlato, arrabbiato.
A quel punto non avevo potuto ribattere. George e mamma -non aveva un grande istinto materno, anzi non ne aveva per niente- preferivano largamente la presenza del simpatico bruffone -Joshua- alla mia. Inutile dire che io ero invece la cocca di papà; come lui ero stata sempre denigrata da tutti per la mia semplicità e noncuranza per certi dettagli come la vita sociale e il successo, cosa che invece contraddistingueva praticamente tutta la mia famiglia, e come loro, tutti gli abitanti della città in cui vivevo.
Papà non mi aveva mai punita, e non sapevo esattamente perchè avesse iniziato quel giorno. Forse, io e Joshua, avevamo veramente toccato il fondo. 
Ad ogni mondo, non avevo potuto replicare: se ero riuscita a fare arrabbiare quel santo uomo forse era veramente giunto il momento di cambiare aria. Non mi ero mai trovata bene in quella città, ma nonostante avessi raggiunto da qualche mese la maggiore età non mi aveva nemmeno mai sfiorata l'idea di andarmene e farmi una vita da qualche altra parte.
Ora invece, l'idea non solo era affiorata, ma mi aveva investita in pieno con la potenza di un treno. 
Se solo fosse stata mamma -maledetta psicologia inversa!- a propormi un viaggio permanente in sperdutolandia l'avrei mandata a quel paese senza troppi giri di parole e mi sarei trasferita a casa della mia migliore -e unica- amica, Emily. Tuttavia era stato papà e -dannata la mia mente contorta!- avevo pensato che forse non sarebbe stata un'idea così cattiva. 
Ora però quei dannati sguardi mi irritavano come l'ortica a contatto con la pelle. E, dannazione, stavo già iniziando a parlare come uno di quei vecchi cow-boy che avevo tante volte visto negli scadenti film western di George.
Fissavo il territorio cambiare gradualmente fuori dal finestrino. I grattacieli avevano lasciato il posto ai normali condomini di una decina di piani, poi alle casette a più piani, alle villette e schiera, alle industrie fumanti, poi alle autostrade. Tante autostrade. Sullo sfondo le città, tante città. Gran parte dei passeggeri erano scesi dal treno, e ora iniziavano a salire, uno ogni tre o quattro fermate, qualche pendolare. 
E poi, piano, piano, iniziai a vedere le grandi proprietà, enormi giardini, qualche casa abbandonata, discariche e poi ancora, campi. Tanti campi. Sempre più campi e alberi. Ormai erano quaranta minuti che non vedendo che campi. Verdi e chiaro, verde scuro, dorati, color paglia, marroni, terra arata di fresco, campi di girasoli e grano. Poi, quando vidi questi, quasi mi venne un colpo: pascoli. Pecore, cavalli, buoi.
Ancora pecore.
Pecore, pecore, altre pecore.
Oh, ...pecore.
Poi un cartello, il nome di un paesino. Il mio paesino. 
Sospirai, terrorizzata all'idea di quello che mi aspettava una volta scesa e mentre il treno rallentava presi le mie cose.
Scesi dal treno e presi un ultimo respiro profondo.
Mi sentii estremamente smarrita vedendo che quel posto non aveva nemmeno una stazione, ma semplicemente una fermata. Una fermata in mezzo ai campi. Una fermata in mezzo al nulla. 
Io ero in mezzo al nulla.
Un uomo passava su un trattore. Lo guardai. Lui alzò il cappello di paglia che portava in testa in segno di saluto.
Un paio di donne più vicine mi sorrisero. 
Sospirai. Come in ogni piccolo paese sperduto nel nulla, tutti sapevano che sarei arrivata: cosa mi aspettavo?
"Scusatemi" mi feci coraggio e mi avvicinai a loro. "sono la nipote di Abraham Fletcher, sapete come posso raggiungere la sua" ...tana?, mi chiesi, stupidamente. "...abitazione?"
"Certo, cara." rispose una delle due, una signora robusta dai lineamenti gentili. "prendi quel sentiero attraverso il campo del signor Towell, ti porterà alla strada principale. Poi prosegui verso il ponte, e vai sempre dritto, lì troverai la fattoria del vecchio Stewart. Poi..." 
Mi ero già persa. Da che parte dovevo andare? 
Aspettai che la donna finisse di darmi le indicazioni, sconsolata, poi sorrisi e la ringraziai.
Per un attimo indugiai, forse sarebbe stato meglio chiedere di nuovo di spiegarmi la strada, ma pensai che sarei passata per stupida così facendo. Quindi raccolsi tutte le mie cose, prendendo tempo, poi mi incamminai lungo il sentiero che mi aveva indicato di nuovo la donna, intuendo che ero molto più stupida di quando sembrassi.
Attraversai con quel sentiero il campo dell'uomo sul trattore, e poi gettai tutte le mie borse a terra, esasperata. Estrassi il cellulare dalla tasca della felpa, pregando che non mi fosse caduto lungo la strada. Fortunatamente era ancora lì. Cercai un numero in rubrica e premetti il verde, ma non accadde sulla.
Riprovai. Niente.
Irritata, tentai una terza volta, ma quel dannato cellulare riagganciava da solo prima ancora di prendere la linea.
"Che diavolo ti prende?!" sbottai.
Non c'era campo.
Mi guardai intorno, stupita: nemmeno un'antenna telefonica in lontananza. Non avrei dovuto sorprendermi, in teoria, in fondo ero in mezzo ai campi e ... alle pecore.
Avevo un caldo bestia.
Solo una cretina come me poteva partire per quel viaggio con una felpa indosso. Tutta colpa di mia madre e della psicologia inversa. "Mettiti qualcosa di leggero, farà caldo." Dannata me! Eppure ero uscita dall'adolescenza, avrebbe dovuto essere finito il tempo di quelle cretinate psicologiche e infantili!
Diedi un calcio alla valigia e mi gettai a sedere a terra, sperando che in quel posto almeno non ci fossero insetti strani tipo le formiche carnivore o millepiedi giganti. 
Mi tolsi la felpa e rimasi in canottiera. Sì, avevo anche quella. Anche i calzini lunghi. Pur di dar contro a mia mamma mi sarei messa pure guanti, sciarpa e paraorecchie. Mi sentivo infinitamente stupida.
Appoggiai la schiena alla mia valigia e chiusi gli occhi, respirai a fondo e li riaprii.
Non avevo ancora realizzato la situazione, altrimenti mi sarei fatta prendere dal panico.
Avevo diciotto anni. Ero stupida come pochi. Ero stata cacciata di casa. Ero stata spedita nella terra di nessuno, da sola. Mio nonno non era venuto a prendermi alla fermata del treno. Mi ero persa in mezzo ai campi. Non sapevo dove andare. Non c'era campo. Stavo scoppiando di caldo. Mi era appena passata di fianco una biscia...
Una.. BISCIA?!
Mi alzai in piedi, gridando. Con un balzo saltai sulla valigia che si ribaltò facendomi cadere lunga e stesa nell'erba. Impiegai mezzo secondo a rialzarmi e posizionarmi sopra di essa. 
Vidi la coda dell'animale sparire nell'erba dall'altra parte della strada, con estremo orrore.
"Santo Cielo!" pigolai, raggomitolandomi sopra il mio bagaglio. Probabilmente non sarei più scesa di lì. Sentivo un improvviso gelo in tutto il corpo, e avevo la pelle d'oca. Mi sarei rimessa la felpa, se solo non fosse stata per terra. Il terrore che quell'essere tornasse indietro era esorbitante e anche stupido. Per quale motivo un rettile strisciante sarebbe dovuta tornare a cercarmi? Non era mica Lord Voldemort! Certo, in teoria era così, ma... al solo ripensare a quell' essere nero che serpeggiava sullo sterrato a pochi centimetri da me mi fece venire i brividi.
"RAZZA DI IRRESPONSABILE!" gridai al nulla, irritata. Quel vecchio rincitrullito di mio nonno non capiva la gravità della situazione, forse? Ero stata cacciata di casa! Ero stata spedita a vivere in un luogo sperduto tra campi e pecore che non avevo mai visto prima e non mi era nemmeno venuto a prendere alla stazione! Che poi non c'era nemmeno una stazione!
Avevo una gran voglia di piangere, improvvisamente.
Strinsi le ginocchia al petto e vi posai sopra la testa. Respirai a fondo e chiusi gli occhi. 
Manuale di sopravvivenza made in Pan Fletcher, regola numero uno: mai piangere. Davanti ad altre persone, ma soprattutto in situazioni allarmanti, non fa altro che farti agitare di più e dimostrare la tua fragilità agli altri e -peggio ancora- a te stessa.
In quel momento il fatto di essermi appena imposta delle regole da sola mi sembrò estremamente ridicolo. Ma se non  avessi dato ascolto a me stessa quando ero da sola, come... 
Diedi un calcio allo zaino lì accanto prima di poter finire il pensiero. Rischiavo di impazzire.
Regola numero due, respirare a fondo e tranquillizzarsi.
Presi un respiro profondo e alzai gli occhi al cielo, osservando l'azzurro interrotto da qualche nuvoletta bianca.
Regola numero tre, trovare almeno tre aspetti positivi nella situazione.
Bè... l'aria non era poi così inquinata, il paesaggio era decisamente bello e rilassante e... e poi?
E poi non ero ancora stata investita da un trattore, cosa che però faceva ancora in tempo ad accadere.
Regola numero quattro, riflettere e fare qualcosa per uscire dalla situazione scomoda.
Bè, facile, no? Arrivare a casa di mio nonno nonostante non sapessi dove fosse e non avessi intenzione di mettere piede a terra.
Sbuffai e presi il mio fidato mp3 dalla tasca dei jeans. Auricolari nelle orecchie più accensione uguale musica. Musica uguale estraniamento dal mondo reale. Estraniamento dal mondo reale uguale poco panico. Meno panico uguale più pensieri lucidi. E magari come risultato all' equazione avrei trovato qualche buona idea per andarmene da lì, o alla meno peggio la paura sarebbe svanita e me ne sarei andata coi miei piedi.





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