22 dicembre 2010

Cows and jeans. 4

Dal baratro del mio folle umorismo potteriano me la ridevo della grossa, senza dare segno di riuscire o volere smettere.
Dean mi fissava in cagnesco, senza proferir parola. Si limitava a fissarmi con più astio possibile. Evidentemente però non aveva bisogno di impegnarsi per farlo.
Sicuramente quell' improvvisa (?) pazzia era dovuto al nervosismo che avevo accumulato quel giorno. Non che mi fossero capitate le più grandi disgrazie, ma per i nervi di chiunque sarebbe stato troppo resistere a tutto ciò senza alcuno sfogo. 
Ero a digiuno di sfoghi da tre giorni, ovvero da quando mi era stata comunicata la mia immediata partenza.
Avevo sopportato in silenzio, impassibile o con un mezzo sorriso stampato in faccia,  la furia dei miei genitori e di George, le proteste di mio fratello, le sue accuse, il pianto e le preghiere della mia migliore amica che non voleva partissi. A tutto questo si era poi aggiunta Sperdutolandia e tutte le sue care pecore, l'assenza di campo, l'assenza ancora più irritante del nonno, il senso di piccolezza che guardare fuori dalla finestra mi infondeva e ora quel tizio che era comparso in camera mia e mi stava odiando dal profondo del cuore.
Perchè mi odiava, era chiaro.
Finiva sempre così quando la mia cisterna di sopportazione raggiungeva il limite. Scoppiavo a ridere come un' isterica per qualche sciocchezza e faticavo parecchio a smettere. Cosa che poteva essere decisamente frustrante e imbarazzante, ma preferivo questo sfogo a quello che invece mi toccava più spesso: la crisi di pianto isterico in piena notte.
Impiegai tutta la mia forza di volontà per smettere di ridere, e quando finalmente ci riuscii mi asciugai gli occhi, dai quali erano sgorgate copiose le lacrime -alcune di ilarità, altre di nervoso."Molto divertente" sputò, astioso.
"Perdonami, non è per te" cercai di giustificarmi, un sorriso di scuse in volto. In effetti non era per niente per lui che ridevo. Era il mio folle bisogno di sfogarmi e ridere che aveva fatto tutto da solo, reagendo in conseguenza dei miei sconclusionati e confusi pensieri.
"Non che mi importi"
Lo trucidai con lo sguardo. La gentilezza non era proprio il suo forte. E dire che mi ero persino scusata! "Non che avessi intenzione di esporti le mie motivazioni" replicai, acida come una vecchia zitella di quelle che vivono da sole in enormi case dove ospitano solamente gatti. Una specie di Madama Pince in versione Babbana.
Mi maledii mentalmente per la mia dannata fissazione con Harry Potter.
Dean sbuffò e mi squadrò dall'alto del suo metro e ottantacinque, a occhio e croce.
Io lo fissai in cagnesco dal basso del mio metro e sessantuno. 
"Sembri Abraham in versione principessina dei nani"
"Come mi hai chiamata, scusa?" boccheggiai, indecisa se ridere o offendermi per quell'osservazione. Ero sempre stata piuttosto suscettibile riguardo alla mia altezza e al mio assomigliare ad una bambina.
"Piccola principessa dei nani?" ghignò. "Ti da fastidio?"
"Secondo te?" sbottai, incrociando le braccia, un' espressione degna del cipiglio severo della McGrannit. Ora basta seriamente, Pan!
"Sì" constatò, soddisfatto. "Buono a sapersi"
Non lo sopportavo già più. "Cosa hai detto che ci fai tu qui?"
Lui ghignò e si gettò a sedere sul letto che avevo appena finito di sistemare. "Ci abito"
"Non hai una casa tua?" non feci in tempo a mordermi la lingua, altrimenti avrei evitato quella frase. Poteva essere parecchio offensiva, specialmente se quel ragazzo non avesse avuto veramente un altro posto in cui stare. Mi era venuta d'impulso, vedendo quel tizio rovinare il lavoro che aveva occupato la mia ultima mezzora. Non ero portata per i lavori di casa, no. Non ero portata per quasi niente a dirla tutta, al di fuori della mia oziosa routine: lettura, musica, canto, litigi con Joshua, sopportazione delle imprecazioni di papà, mamma e George, chiacchierare con Emily e poi relax. 
Lui inarcò un sopracciglio. "Certo che ce l'ho. Tu non ce l'hai?"
"Ci sono dentro, no?"
Lui rise. "Ok, punto tuo. Lavoro per Abraham" spiegò.
"Ottimo. Ma questo non è direttamente proporzionale al fatto che tu sia seduto sul mio letto" replicai, fredda. 
Il vivi e lascia vivere non era una filosofia di vita che faceva per me. Quella era di Emily. Io ero più un tipo da occhio per occhio, dente per dente, non sempre, ma quando mi sentivo attaccata non c'era santo che tenesse, non potevo rimanere in silenzio e sopportare. Quando papà mi aveva cacciato di casa, avevo taciuto solo perché consapevole di essere caduta veramente in basso. Era stato un evento piuttosto raro, in effetti. Se l'avesse fatto mamma non avrei sopportato in silenzio.
"Sono in pausa"
"Sei in pausa sul letto che avevo appena fatto, allora"
"Tanto lo devi usare stasera"
"Ottimo. Quindi non rifarò il tuo, ora che so come la vedi. Un lavoro in meno"
Dean si alzò e varcò la soglia della mia stanza. Si tolse la maglia con un gesto fluido e la lanciò in mezzo al pavimento, per poi andare verso il baule ed estrarne una pulita. "Non ti ho chiesto di farlo" osservò, abbozzando un sorriso. Quando scorse il rossore che-maledetto- mi aveva pervaso le guance quello si trasformò in una vera e propria risata di scherno. "Ti sei scandalizzata per così poco?" mi prese in giro, infilandosi la t-shirt bianca.
Per quanto, dovevo ammetterlo a me stessa, quel ragazzo avesse un fisico da far sbavare la più rigida, fredda e insensibile ragazza del mondo, non avrei lasciato che si prendesse gioco di me in quel modo. A costo di mettermi in ridicolo da sola. Almeno sarei stata io -che ne avevo il permesso- a farlo. "Di certo non per così poco. Ho visto di meglio" dissi, senza alcuna inflessione della voce. Gli voltai le spalle e risistemai il lenzuolo che Dean aveva sgualcito, cercando di riprendermi. 
Visualizzando nuovamente nella mente -cosa che non avrei dovuto assolutamente fare- il fisico di Dean, osservai che era -sì- muscoloso, ma non esageratamente. Ironia della sorte: proprio il genere di muscolatura che piaceva a me. Forte, tonica, ma non troppo evidenziata. 
Sbuffai silenziosamente, mentre cacciavo quei pensieri dalla mia mente. 
"Dov'è mio nonno, a proposito?" mi voltai, cercandolo con lo sguardo, ma non c'era più. 
Uscii dalla mia stanza, incredula e diedi un' occhiata in bagno e nella stanza di Abraham, ma non era nemmeno lì.
Se ne era andato!
Sgattaiolai al piano di sotto e sentii armeggiare con delle bottiglie. Entrai in cucina e lo fulminai con lo sguardo. "L'educazione non deve essere il tuo forte. Io stavo parlando con te"
Lui si versò un bicchiere di latte e finse di dispiacersi, evidentemente divertito. "Oh, mi spiace!" esclamò. "E dire che pensavo fosse opportuno lasciarti sola con le tue fantasie. Non volevi un po' di privacy?"
Mi morsi la lingua per non essere volgare e insultarlo come facevo con mio fratello -l'unica persona con cui sfogassi tutta la mia riserva di sofisticati epiteti scurrili. Lui parve notare questo mio enorme sacrificio, perchè mi scoppiò a ridere in faccia prima di scolarsi il latte e mollare il bicchiere sul tavolo.
"Quando torna mio nonno?"
"Questa sera, quando è ora di chiudere le galline. Non vuole che lo faccia io"
"Non ha tutti i torti. Nemmeno io mi fido di te" sputai, conscia che fosse un commento totalmente fuori luogo.
"E' reciproco, principessa." mi sorrise, strafottente. Attraversò la stanza e si fermò sulla porta, a pochi passi da me, guardandomi dall'alto e facendomi sentire tremendamente piccola. "Ad ogni modo, è meglio che io torni al lavoro. Vedi di sbrigare qualche faccenda: Abraham non apprezza gli scansafatiche"
Sbuffai e annuii.
"A dopo, principessina degli gnomi" soffiò, uscendo a grandi passi dalla casa. 
Quando si fu chiuso la porta alle spalle, mi abbandonai ad un rumoroso gemito di frustrazione e feci una smorfia. Dopodichè decisi di rimboccarmi le maniche. Avrei fatto vedere a quello spaccone di che pasta era fatta la principessa degli gnomi. 

"...di gomma piuma!" sbuffai, frustrata, due ore dopo.
Ero finalmente riuscita a far partire quel catorcio che avevo osato definire una lavatrice.
Avevo messo ad asciugare tutti i panni del secchio lungo gli appositi fili che erano tesi nel cortile sul retro, ignorando i commenti acidi di Dean, che zappava la terra nell'orto lì accanto. 
Ero tornata dentro e avevo recuperato tutti i panni sporchi che avevo trovato sparsi per la stanza di mio nonno, di quella testa bacata e nel ripostiglio, e li avevo divisi secondo il lavaggio in diversi mucchi, cercando di non prestare attenzione ai pessimi odori che provenivano da quell'ammasso di stoffe che i due uomini avevano usato per lavorare. 
E ora avevo concluso il bucato. Finalmente.
Senza pensarci due volte me ne andai in camera mia, infilai gli auricolari nelle orecchie e mi gettai sul letto. Avevo bisogno di riposarmi un po'. Più tardi avrei dato un'occhiata a quei bellissimi libri giù in salone...

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